venerdì 31 marzo 2017

Giovanni Gentile e le leggi razziali

di Lino Di Stefano

Una pagina infelice – e, pertanto, da condannare – della politica del regime fascista rimane, com’è noto quella delle leggi razziali del 1938; leggi che coinvolsero nella loro sciagura personalità di grande livello culturale vista l’altezza a cui avevano elevato le rispettive discipline, fossero esse filosofiche, letterarie, scientifiche ed artistiche. Non tutti gli studiosi, però, accetteranno supinamente tali sventurate norme poiché alcuni uomini – del calibro, ad esempio, di Giovanni Gentile – tennero alta la fiaccola della dottrina e si comportarono di conseguenza.
Gli uomini di scienza italiani, fra le due guerre di fede ebraica, rappresentavano la punta di diamante del sapere nostrano e, per restare un istante, nel campo della matematica essi ricevettero il tangibile aiuto dal padre dell’attualismo il quale aveva, all’epoca, anche un figlio cultore di fisica teorica che si chiamava Giovanni Gentile junior, detto Giovannino.
Come affermano, infatti, Angelo Guerraggio e Pietro Nastasi, autori del volume ‘Gentile e i matematici italiani’ (Bollati Boringhieri, Torino, 1993), è notorio che il filosofo si adoperò assai per colmare i vuoti di Levi-Civita ed Enriques facendo venire a Roma Tonelli e Severi così come è risaputo che egli aiutò “Castelnuovo, Almagià e lo stesso Enriques nella loro richiesta di ‘discriminazione’ per evitare alcune tra le conseguenze delle leggi razziali, grazie alle benemerenze culturali acquisite”
Il pensatore siciliano non si limitò soltanto a tali interventi perché si ingegnò, da una parte, a favorire l’espatrio di Rodolfo Mondolfo in Argentina e, dall’altra, spese tutta la sua influenza per soccorrere lo studioso tedesco Paul Oskar Kristeller, salvato dalle leggi razziali tedesche. Lo stesso comportamento adoperò Giovanni Gentile nei riguardi di alcuni cattedratici, di religione ebraica, della ‘Bocconi’ e di altre Istituzioni Universitarie Italiane.
Il tutto documentato dalle lettere – alcune già pubblicate – giacenti presso la ‘Fondazione Giovanni Gentile per gli Studi filosofici’; mole che, unitamente ad altri inediti, conta ben 35.000 documenti; altri celebri cattedratici ebrei rispondono al nome di Volterra, Peano, Fubini, Segre, Beppo Levi, e numerosi altri, vanto della scienza italiana. Con tali parole Guido Castelnuovo, in data 16 giugno 1939, ringraziava Gentile per il soccorso ricevuto: “Caro Senatore, Ella è stata così buono da appoggiare la mia domanda di discriminazione presso il Ministero dell’Interno”.
Federigo Enriques, così si esprimeva, a sua volta, nei riguardi del filosofo siciliano: “Caro Gentile, verrò quanto prima a salutarLa e a dirLe a voce la mia gratitudine, ma intanto voglio dirLe subito: grazie”. Ed ecco le parole di ringraziamento di Guido Fubini scritte il 4 novembre 1922: “Pure dissentendo in tante idee (…) eccoti l’augurio di chi ti ricorda sempre, e che ti vorrebbe ministro così grande, come grande pensatore e maestro”.
Il grande matematico Mauro Picone non fu da meno e, in una lettera del 25 giugno 1943, così osservava: “Eccellenza, ieri non mi fu possibile raggiungere la Vostra mano, in Campidoglio , per dirvi tutta la mia gioia d’italiano, di fascista, di siciliano…”. Ugo Amaldi, da parte sua, con tali sincere parole si rivolgeva al grande esponente del neo-idealismo italiano: “Mi rallegrano e mi confortano la costante e spontanea benevolenza che Ella ha per me e i modi squisiti per me estremamente lusinghieri” (14 dicembre 1930).
E si potrebbe continuare. E, allora, a ragione, Paolo Mieli ha sostenuto, sul Corriere della Sera del 19 febbraio del 2013, che Giovanni Gentile ai tempi delle leggi razziali del 1938 si è “prodigato per aiutare non pochi colleghi ebrei (…), dato incontrovertibile già ben documentato nel libro di Rossella Faraone ‘Giovanni Gentile e la ‘questione ebraica’ (Rubbettino)”. Il giornalista e storico italiano ha messo anche in luce che un passo importante compiuto da Gentile è stato, appunto, quello, verso la fine degli anni Trenta, a favore di Paul Oskar Kristeller, “per salvare il quale si era rivolto addirittura a Benito Mussolini” (Ivi).
L’Autore del citato articolo ha pure aggiunto che il filosofo “si era poi dato da fare anche per Rodolfo Mondolfo. Giorgio Levi Della Vida, Arnaldo Momigliano, Richard Walzer. Isacco Sciaky, Gino Arias, Alberto Pincherle, Gina Gabrielli, moglie di un ebreo, Almagià, Giorgio Falco, Eugenio Colorni e Mario Fubini, sempre per menzionarne alcuni.
Ma c’è di più, perché il pensatore, in qualità di Presidente dell’Istituto per il Medio ed Estremo Oriente, nella seduta inaugurale tenutasi a Roma il 11 dicembre del 1933 così si espresse, al riguardo: “Roma non ebbe mai un’idea che fosse esclusiva e negatrice… Essa accolse sempre, e fuse nel suo seno, idee e forze, costumi e popoli. Così poté attuare il suo programma di fare dell’urbe, l’orbe”.
Non a caso, in un altri scritti, al riguardo, Gentile aveva, opportunamente, sottolineato, per un verso: “Non credo neanch’io alla razza” e, per l’altro, posto l’accento su tale considerazione e vale a dire “Il vantaggio della mutua intelligenza e della collaborazione fraterna delle razze diverse, nessuna delle quali è nata per servire”. Com’è facile rilevare, lungi dal filosofo qualsiasi tentazione razzistica, egli che era uscito dalla gloriosa scuola di Alessandro D’Ancona, israelita pure lui e “maestro di scienza e di vita”, secondo le testuali parole del pensatore.
Tutte queste benemerenze – oltre alla grande statura di filosofo, insigne storico della filosofia, illustre pedagogista, eminente critico letterario etc. – non salvarono Gentile dall’odio degli avversari i quali – a Firenze il 15 aprile 1944 – per mano di Bruno Fanciullacci, ingenuo esecutore del delitto, lo uccisero barbaramente ignari dell’indovinata considerazione di uno studioso secondo la quale al pensatore “molto sarà perdonato perché molto ha amato”.

da: www.riscossacristiana.it

Abbiamo vissuto consumando civiltà. E non ne è rimasta più


C’è questo Zangari di Borgo Vercelli di 49 anni che non tollera di essere lasciato dalla moglie di 41; da mesi la malmena; infine la insegue, ne tampona l’auto, la accoltella con 21 coltellate. Ci sono i giovinastri di Alatri che in nove o dieci ammazzano un ragazzo, in un’aggressione a più riprese, stritolandogli cranio e vertebre con manganelli e spranghe; due giorni di agonia; attorno al delitto, omertà. C’è l’ex carabiniere di Trento che faceva lo speculatore finanziario, vita di lusso senza averne i mezzi, cosa che ha nascosto a tutti; il giorno dopo avrebbe dovuto firmare l’acquisto di un attico da 1,23 milioni; per cui, ammazza a martellate i suoi due figli, di 2 e 4 anni (la figlia di 13 si salva perché era in gita), lascia i corpicini in un lago di sangue, e poi si butta con l’auto in un dirupo. Solo pochi giorni prima abbiamo saputo del tredicenne, lievemente subnormale, angariato e violentato per quattro anni da undici ragazzi, tutti minorenni, tre sotto i 14 anni a Giugliano. L’ultima volta è stato a gennaio: la mamma della vittima ha visto lui e i compagni “in atteggiamento ambiguo”, e solo allora si è accorta di quel che soffriva suo figlio. La scuola, gli insegnanti, i vicini niente.

Non so se sia un addensarsi casuale di questi delitti neri e orrendi. Non credo; temo che la decadenza della civiltà stia aggravandosi, il Degrado stia diventando Caduta, motus in fine velocior. Ciò che accomuna questi delitti mi pare un egoismo mostruoso e belluino, un primitivismo sub-umano, una soggezione ai propri impulsi primari così cieca e totale, da far sospettare negli assassini sia già avvenuta la metamorfosi in bestie. E’ come se questi non fossero mai vissuti in una civiltà, non ne abbiano mai conosciuto i costumi umani, la moderazione degli impulsi in vista – se non altro – delle conseguenze; è come se, belve stupide o cannibali, fossero balzati fuori dalla foresta originaria per ammazzare i conoscenti a sprangate, i figli a martellate e le mogli a coltellate. “Donne di merda… vi ricordo una cosa sola… toglietemi mio figlio e vi sfracello – non toccate il mio sangue“, ha scritto la bestia di Vercelli; ciò conferma la sensazione che venga da un mondo non dico pre-razionale, ma pre-culturale: “Non toccate il mio sangue”, è una frase di un mondo di antiche faide paleolitiche, forse di Neanderthal. Ma si capisce che è un primitivismo recitato e voluto, se solo si considera che l’età dei figli che secondo lui “le donne” gli volevano portar via: 16 e 22 anni. Un istinto di proprietà, i figli NON esistono, se non come “roba mia”; anche l’altro che ha martellato i figli di 2 e 4 anni, l’ha fatto perché “sono roba mia”: un egoismo così mostruoso che non cura nemmeno di vedere gli altri, i figli, la donna un tempo amata, come viventi, come sofferenti e degni di una loro vita; sono come oggetti. Oggetti inanimati. O da inanimare a martellate, o come il ragazzo a sprangate, fino a che non si muovono più: così, senza pensare alle conseguenze, per un impulso – si sa, al cor non si comanda.

Non più solo barbari verticali…
Il nostro lettore abituale sa perché, effettivamente, questi mostri paiono non conoscere la civiltà, esserle estranei: perché lo sono. Sono quei barbari verticali, che ad ogni generazione di neonati invadono da sotto una società, e la società non ha saputo civilizzare, a cui non ha saputo trasmettere i comandamenti morali, la cultura, il senso del giusto e del bene come sia distinto dal male. Sono gli stessi mostri che erano a 4 anni; solo che adesso pesano 80 chili, hanno un apparato sessuale e testosterone da adulto che non padroneggiano (se mai li padroneggia), guidano auto, sposano donne, fanno figli, insomma allacciano relazioni umane a cui sono impreparati, assumono responsabilità verso gli altri che non riconoscono affatto – e manovrano coltelli e spranghe, come cannibali nella foresta vergine, obbedendo alle loro rabbie e invidie e seti di vendetta nutrite dentro tenacemente, lasciate crescere volontariamente senza freni. Senza dignità alcuna che li trattenga, senza vergogna di sé che li faccia esitare a fare le cose più basse. Poi, dopo aver fatto esplodere la furia, placata la sete di sangue, aspettano la polizia inebetiti: non hanno pensato al “dopo” , hanno solo dato sfogo all’istinto belluino. Bestie.
Ma qui non si tratta più solo dell’invasione verticale dei barbari, del fatto che la società moderna e progressista non li ha saputi civilizzare. Peggio: questi sono i prodotti dell’anti-pedagogia vociante da tutti gli altoparlanti pubblici: vietato vietare, sesso libero e felice, nessuna responsabilità, “i vostri diritti”, il diritto al piacere è supremo, l’avidità è buona, siate “evoluti” e quindi schernite ogni credenza religiosa, i suoi comandamenti sono per bambini di un’altra epoca. Tutta una ducazione alla “spontaneità”, a non frenare le proprie voglie; e soprattutto, che ai cari piccini siano evitate tutte le socnfitte esistenziali, siano preservati dai dolori.
Chissà come mai, la società permissiva crede che da tutto questo nascano la cavalleria verso la donna, la nobile compassione verso i deboli, il senso civico, il “tener conto del prossimo”, la temperanza, l’onestà civile. Come se tutte queste virtù nascessero come le banane sulle palme: invece, vanno insegnate. 
Un tizio in una radio insegnava, l’altro giorno, il luogo comune del momento: le religioni producono “intolleranza” quindi bisogna non credere ad alcuna verità, essere aperti e moderni e secolarizzati, deridere le credenze – un attimo dopo, lo stesso tizio invocava una legge che togliesse il diritto all’obiezione di coscienza ai medici che non vogliono procurare aborti: un esempio di intolleranza totale proveniente dalla “apertura e modernità” laicista, col desiderio di obbligare dei medici all’infanticidio. A me par di vedere la stessa pulsione omicida nel fatuo opinion maker radiofonico, come nelle bestie di Alatri: intolleranti al massimo grado, o no? Non accettano che esistano altri con una propria volontà, semplicemente.…

...ma educati all’inciviltà.
Gli assassini non sono solo barbari non civilizzati, sono il risultato dell’educazione all’inciviltà positivamente dominante ormai da troppo tempo.
Ci sono “due tratti nella psicologia dell’uomo-massa attuale: la libera espansione dei suoi desideri vitali, e l’assoluta ingratitudine verso quanto ha reso possibile la facilità della sua esistenza. L’uno e l’altro costituiscono la psicologia del bambino viziato. Erede di un passato vastissimo e geniale, geniale d’ispirazione e di sforzi, il nuovo popolo è “viziato” dal mondo circostante. Vezzeggiare, viziare, equivale a non frenare i desideri, a dare l’impressione ad un essere che tutto gli è permesso e che a nulla egli è obbligato. La creatura soggetta a questo regime non ha l’esperienza dei suoi propri confini. A forza di evitarle ogni pressione dell’ambiente, ogni scontro con gli altri esseri, arriva a credere che esiste soltanto lei, si abitua a non tener conto degli altri, e soprattutto a non considerare nessuno superiore a se stessa […].
Viviamo “nell’epoca del signorino soddisfatto”, erede della civiltà che, a prezzo di secoli di progressi e sforzi e sacrifici degli antenati, ha messo a sua disposizione “una sovrabbondanza di mezzi, la comodità”, il consumismo.
E’ “illusorio credere che la vita nata in un mondo comodo sia migliore, sarebbe più vita e di qualità superiore rispetto a quella che consisté nel lottare contro la scarsità”. E’ “tutto il contrario. Un mondo sovrabbondante di possibilità produce, automaticamente, tipi difettosi di esistenza umana, l’ereditiero, il bambino viziato, l’uomo-massa”. L’uomo per cui “vivere è essere quello che già è”, che fa “degli sport l’occupazione centrale della propria vita”, come “la cura del proprio corpo, regime igienico e cura del vestiario; mancanza di romanticismo nelle relazioni con la donna”, l’ottusa intolleranza intellettuale.
Erano gli anni ’20 quando Ortega y Gasset scriveva queste cose. L’uomo-massa viziato che identificava era, allora, ancora convivente con ordini che trasmettevano la civiltà e i suoi valori, istituzioni ancora forti: la scuole, la fede religiosa, lo Stato , anche l’esercito erano ancora formatori, si assumevano la responsabilità della “tradizione”, ossia di trasmettere il progresso – il progresso realizzato dagli antenati, non dal bambino viziato, con fatiche, sacrifici, formazione del carattere, temperanza, fortezza davanti alle sconfitte, rassegnazione cristiana, timor di Dio.
Un secolo dopo, queste istituzioni sono consumate. Un secolo di generazioni successive di uomini-massa che hanno “insegnato” ai loro figli, i barbari verticali, ha avuto questo effetto: lo scadimento, generazione dopo generazione, delle esigenze severe del “diventare civile” e anche solo umano. Ora persino la Chiesa, con Bergoglio, ha smesso di essere l’ultima istanza che ricorda una qualche esigenza morale; posizione scomoda che produce cachinni e sputi – meglio predicare la misericordia, “fa’ ciò che vuoi”, “chi sono io per giudicare?”. In un tornante storico in cui i vizi “che gridano vendetta al cospetto di Dio” sono diventati “diritti civili”. La sodomia era uno di questi. Caduto il tabù, carissimi progressisti, avete fatto crollare anche gli altri tre . Che sono: l’oppressione dei poveri; rubare il salario ai lavoratori; l’omicidio volontario.
Nessuno, nelle discoteche di Alatri come nei palazzi romani, crede più che questi chiamino la vendetta di Dio. Ciò significa che la società, che ha vissuto consumando i valori superiori del passato, li ha consumati totalmente. Nulla esiste più dei valori della civiltà. Comincia il collasso irrimediabile della civilizzazione. E la mattanza dei deboli.
da: http://www.maurizioblondet.it

martedì 28 marzo 2017

L’angolo della poesia. Ovvero, ridiamo voce a una poetessa dimenticata

di Léon Bertoletti

Guendalina Fiasconi Sbrodoloni, autrice novecentesca non tra i maggiori né tra i minori, è poetessa ingiustamente dimenticata. Sposata alla letteratura, visse come una suora. Nacque ad Avignone (Francia) il 18 luglio 1870, emise il primo vagito proprio mentre il concilio Vaticano I dichiarava principio vincolante di fede l’infallibilità del Pontefice. Abitò tra Norcia e Albano Laziale prima di trasferirsi a Roma, dove morì d’infarto in una giornata storica: l’11 ottobre 1962, inaugurazione del Vaticano II. “La farfallina torna”, sua principale opera (sul celibato ecclesiastico) ebbe poche recensioni e ancor meno lettori, forse perché troppo in anticipo sui tempi. Se i critici l’hanno ignorata, se gli editori l’hanno snobbata, a noi pare che la Fiasconi Sbrodoloni abbia tuttavia ancora molto da dire e che i suoi versi, composti fin dalla tenera età, conservino addirittura, oltre a un linguaggio fresco e moderno, un certo contenuto “profetico”.
Per questo proponiamo a chi ci segue il componimento “Beeh!” tratto dalla silloge “Pecorelle smarrite”.
Un giorno il Papa s’affaccia al balcone:
“Fedeli, devoti, brave persone,
siamo allo sfascio: chi scioglie, chi lega…
Sapete che c’è? Io chiudo bottega.

Basta campane, vendete San Pietro;
serrate i portali e uscite dal retro.
Andate ad imam, andate a rabbini:
è gente per bene, mica cretini.


Sale riunioni le pievi, le chiese.
Bando agli indugi, mai più vane spese.
I preti e le suore senza la veste?
Ecologisti! A salvare foreste.

Poco per volta la Chiesa distrutta
il tempo è questo di cederla tutta.
Già lasciato il Latino e il vecchio testo,
possiamo lasciare anche tutto il resto.

Marmi, colonne, quadri, statue, altari
dateli ai poveri senza denari.
Banchi, stole, calici, arredi… Su! Su!
Fate un bel falò. Non pensiamoci più.

Siamo un tutt’uno con i Protestanti.
Non si guardi indietro, soltanto avanti.
Libri e catechismi del tempo che fu
li venderanno gli antiquari laggiù.

Lutero era un santo, Calvino pure
e chi ha inventato provette e punture.
Tommaso e Agostino? Menti modeste:
tristi, ipocriti, come la peste.

Pensate a godere ogni momento,
mangiare, bere, avere il cuor contento.
Fate la pace, non fate la guerra:
il tempo è breve, si va sottoterra.

Bravi i Teologi della Ragione!
Attenti al lavoro, alla pensione!
Cambiate moglie, cambiate marito.
La canna si rolla bene col dito.

Serve a combattere anche il dolore;
come l’eutanasia, non è un errore.
Se uno si stanca della sua vita
stacchi la spina, la faccia finita.

L’aborto, miei cari, è cosa buona
e poi il nostro Dio è un Dio che perdona.
Il condom, fratelli, serve allo scopo:
è meglio pensarci prima che dopo.

Sorelle amatissime, forza, suvvia!
Fate proprio del bene a (xxxxx xxx).
Uomini, donne, non c’è differenza,
conta soltanto la propria coscienza.

Mie anime sante, mie anime pie
non servono a nulla le Avemmarie.
Prima di me hanno tutti sbagliato
e per fortuna poi sono arrivato.

Breviari, Messe, Rosari, preghiere
inutile dirli tutte le sere.
Maria e Giuseppe hanno (xxxxx x’xxxxx).
Gesù è risorto, ma grazie a un dottore.

Non vedo peccati né gesta sane.
L’Ostia Santa è solo un pezzo di pane.
Viva il mondo e tutto quello che offre!
Scemo chi s’inginocchia, spera e soffre.

È un vecchio mito anche il Padreterno.
Non c’è il Paradiso, non c’è l’Inferno.
Se io credo poco, voi meno di me.
Stringiamoci la mano e facciamo: Beeh!”.

Dalla primavera araba all'inverno islamista, passando per la Siria

di Domenico Bonvegna

Ormai sono oltre cinque anni che si combatte in Siria e secondo l'Osservatorio siriano dei diritti dell'uomo(OSDH), il bilancio reale del conflitto ammonterebbe a 370.000 morti, e siamo fermi a qualche anno fa. Mentre il bilancio umanitario è catastrofico, secondo l'ONU, si stima che all'inizio del 2016 fossero quattro milioni i rifugiati siriani al di fuori del loro paese,“la più grande popolazione di rifugiati in un unico conflitto e in una sola generazione”. La Turchia e il Libano ospitano più della metà di questi rifugiati. Vorrei far presente che interessarsi del “caos siriano”, non è una questione accademica, ma interessa direttamente anche a noi. Secondo Randa Kassis e Alexandre Del Valle, autori di “Comprendere il caos siriano” , pubblicato nel mese di gennaio di quest'anno da D'EttorisEditori,“il mondo non aveva conosciuto ancora una crisi umanitaria così drammatica, con un numero così alto di rifugiati e di profughi”.
Le conseguenze geopolitiche dei flussi di rifugiati per i paesi vicini e per l'Unione Europea sono un grosso problema, se si aggiungono ai flussi migratori provenienti dall'Africa, che sono ormai raddoppiati rispetto all'anno scorso, la situazione diventa esplosiva, per l'equilibrio politico economico dell'Europa.
Pertanto sarebbe utile documentarsi meglio su cosa è successo e succede in questi territori del Medio Oriente e in particolare in Siria. Il saggio pubblicato dalla D'Ettoris Editori aiuta molto a capire. In particolare i due capitoli dove si affrontano le cosiddette “primavere arabe”, e la questione delle minoranze, non solo in Siria, ma anche in altri paesi del Medio Oriente.
Per quanto riguarda la prima questione, scrivono Kassis e Del Valle:“La Primavera araba è stata percepita sin dal suo inizio come il primo scontro faccia a faccia mai avvenuto all'interno dei paesi arabi tra la società civile da una parte e il mondo religioso e i poteri dittatoriali secolarizza dall'altra”. In effetti la sollevazione della popolazione tunisina, con la cosiddetta “rivoluzione del Gelsomino”, ha inaugurato una nuova era per i paesi arabi. Per la prima volta viene messa in discussione il potere della religione sul piano sociale e politico e lo stesso autoritarismo dei vari regimi.
Gli autori del libro sottolineano l'influsso di internet, della rete, dove si affrontano laici, islamisti, moderati ed estremisti. Addirittura si fa riferimento a una guerra internazionale, a uno scontro tra muri social e tra blog. Qualcuno l'ha paragonata alle famose “rivoluzioni di velluto”, del secolo scorso, all'interno dell'ex Unione Sovietica.
Nel libro si fa riferimento a un testo di uno studioso americano, Gene Sharp, che aiutato da alcuni veterani di Solidarnocs, ha scritto un libro,“Dalla dittatura alla democrazia” (1993) utilizzato in Serbia per far cadere pacificamente il regime di Milosevic e pare abbia ispirato i movimenti democratici in Tunisia e in Egitto. Naturalmente si tiene a precisare che questo non significa che le rivolte delle primavere arabe siano state fomentate dagli USA, o dai servizi segreti degli Stati occidentali. C'erano già sufficienti motivi per le ribellioni, mancava solo la scintilla, “che verrà accesa da un venditore di legumi tunisino”.
Un altro aspetto che viene evidenziato nel libro è il Progressismo e l'ateismo presente nei vari attivisti delle primavere. Molti attivisti, intellettuali erano atei e hanno cominciato ad esprimersi liberamente all'interno del mondo virtuale con facebook e altri blog. Nel libro si fanno i nomi di alcuni giovani rivoluzionari fondatori di movimenti per il diritto d'espressione. Alcuni hanno dichiarato il loro ateismo rischiando la vita in piazza Tahir al Cairo. Addirittura si tenta di dare delle cifre sugli atei presenti in questi paesi arabi.
Gli autori del libro, ammettono che queste forze progressiste, però non erano quelle meglio armate e più organizzate. Erano quelle islamiste e oltranziste che rapidamente si son impadronite delle rivolte, vincendo anche con la violenza le elezioni.
Pertanto dalla Tunisia allo Yemen, la rivoluzione viene confiscata dagli islamisti.
E così,“l'idea dominante all'interno dei media occidentali - secondo alcuni sicuramente un po' ingenua, anche se la storia delle rivolte è appena cominciata – era quella secondo la quale la Primavera araba avrebbe inaugurato, in seguito alla caduta dei regimi dittatoriali screditati e abbandonati dai loro sostenitori esterni, una nuova era democratica”. Questo non è successo perchè le società civili arabe non erano ancora mature per uscire dalla corruzione delle dittature o dalla tentazione dell'islamismo radicale. L'Occidente si è rappresentata una rivoluzione di comodo, non ha capito o non ha voluto capire che ormai stava avanzando dell'altro, invece dei movimenti liberali.
Tutti i media occidentali dopo la caduta del dittatore tunisino Ben Ali e di quello egiziano Mubarak, specialmente quelli francesi, “gridavano vittoria all'unisono e non tolleravano che si contraddicesse l'idea allora di moda, secondo la quale la 'minaccia islamista' era ormai superata, che essa non era più altro che un 'fantasma' agitato dai aprtigiani dello 'choc delle civiltà', dei ' sionisti' o dagli 'islamofobi'. Sempre secondo questi pseudi analisti,“la democrazia in marcia avrebbe ormai 'calmato' gli islamisti, permettendo loro dalle prigioni dei dittatori nazionalisti arabi e di organizzare delle libere elezioni”. In pratica non si comprende come questi jihadisti sarebbero diventati ora di colpo democratici e pacifisti. Comunque sia ovunque gli islamisti vincono le elezioni, e pertanto è stato rischioso fidarsi di loro.
La stragrande maggioranza degli editorialisti, leader politici in Occidente erano“estasiati demagogicamente al veder sfilare pacificamente in Piazza Tahir 'la gioventù araba assetata di giustizia, di democrazia, di modernità' e riunita dall'appello dei blog”. Successivamente però hanno dovuto ricredersi,“hanno finito per ammettere che il mondo arabo, ben lungi dall'essere immunizzato contro il fascismo verde, poteva eleggere democraticamente (Egitto) partiti islamisti, che difatti si sono appropriati rapidamente della rivoluzione, traviandola”. E così gli islamo-democratici hanno prontamente represso, una volta vinte le elezioni i rivoluzionari laici, che di fatto non hanno ricevuto nessun aiuto, né dall'occidente, dalle petromonarchie del Golfo, che invece finanziano i Fratelli musulmani e i salafiti.
Era evidente ormai che non era possibile una esistenza di un “islamismo democratico”. E' in questo periodo che tutti i jihadisti, in particolare ex di Al-Qaida, hanno conquistato territori e tagliato teste in Iraq e in Siria, destabilizzando tutta la regione, facendo affluire in Libia, in Iraq, in Siria, volontari salafiti jihadisti.
Pertanto si è passati velocemente dalla Primavera araba all'Inverno islamista. Questa confisca delle rivolte, ha indotto i primi “rivoluzionari” pacifici a scendere di nuovo in piazza affrontando i Fratelli musulmani e altri islamisti salafiti seguaci del mito del “califfato mondiale”. Praticamente, questi secondo Kassis e Del Valle,“alla fine hanno ben presto utilizzato gli stessi metodi dittatoriali dei despoti contro cui avevano combattuto per tanto tempo, con l'unica differenza che la loro bandiera non era più quella della loro nazione, bensì la bandiera nera, ancora più minacciosa, dell'internazionale salafita jihadista”. Uno sforzo notevole di propaganda islamista è stato fatto dalle due emittenti televisive, Al-Jazeera e Al-Arabiyya.
Gli autori completano il II capitolo, guardando a quello che succede nei vari paesi toccati dalle cosiddette primavere, partendo dalla Tunisia, fino alla Siria. Domandandosi se questi paesi sono territori di sperimentazioni dell'”islamismo moderato”.Da quello che ho letto le speranza sono poche, in tutti i Paesi c'è una forte spinta verso la sharia, che resta la fonte principale di ogni legislazione. E l'Islam è l'unico elemento unificatore,non solo la nostalgia per il califfato sembra coinvolgere la stragrande maggioranza dei gruppi islamisti, compresi quelli di Hamas, che martirizzano la Libia, l'Iraq e la Siria.
Gli autori del testo che sto presentando mettono in guardia dal considerare gli amanti del califfato come degli “psicopatici isolati che non hanno nulla a che fare con l'islam reale”, anche perchè il califfato rappresenta il cuore stesso della civiltà islamica, è una costante.
Inoltre la Kassis e Del Valle evidenziano un altro aspetto che riguarda l'ideologia totalitaria teocratica wahhabita, presente nell'Arabia Saudita, paradossalmente, grande alleata degli USA. I sauditi hanno da sempre incoraggiato i gruppi islamisti sunniti e la Lega islamica mondiale che peraltro gestisce numerosi centri islamisti e numerose moschee godendo di un'immagine benevola presso gli Stati democratici occidentali, che ricevono i suoi rappresentanti e concedono loro privilegi.
Comunque un aspetto fondamentale da considerare nel variegato panorama politico religioso del Medio Oriente, sono le varie minoranze presenti in tutti gli Stati, in particolare in Siria, ma lo faremo nel prossimo intervento.

lunedì 27 marzo 2017

AVVISO URGENTE - Cambio sede della Presentazione del libro di Elio Corrao

Per ragioni non dipendenti dalla Nostra volontà, preghiamo di prendere buona nota che la Presentazione del libro di Elio Corrao, HEL e altri racconti e successivo concerto, non si svolgeranno alla Libreria Mondadori di via Ruggero Settimo, bensì nella Sala Convegni dell'Hotel Mediterraneo, via Rosolino Pilo 43, a 50 metri dalla precedente sede, invariato l'orario, ore 17:00 e i Relatori.


domenica 19 marzo 2017

L’angolo di Gilbert K. Chesterton – Grandezza e attualità di uno scrittore cattolico




di Fabio Trevisan

Questa frase potrebbe condensare nei suoi desiderata un sano manifesto cattolico di adesione alla Verità della Chiesa Cattolica Romana (come amava chiamarla Gilbert Keith Chesterton). Ne “La sfera e la croce” il grande saggista inglese indicava con precisione il senso della sfera-mondo e della croce posta su di esso: il mondo senza la croce traballa, va da tutte le parti, ruzzola nelle mode e si perde nel relativismo, nell’ateismo, nel secolarismo, nel nichilismo. Questo era il triste e dannato esito di chi perdeva il significato salvifico della Croce e della Chiesa (Extra Ecclesiam nulla salus) . Nel “The way of the Cross” del 1935 egli scriveva: “La Chiesa cattolica è la sola capace di salvare l’uomo dallo stato di schiavitù in cui si troverebbe se fosse soltanto il figlio del suo tempo”.
Lo stato servile era quella condizione a cui sarebbe approdata l’umanità senza l’ancora di salvezza della Chiesa ed è esattamente quella condizione orfana (della Chiesa) che stiamo disperatamente sperimentando oggi. Il cammino pastorale tanto conclamato oggi, l’accompagnamento mondano nel peccato, una Chiesa che si fa compagna di viaggio, sono tutte modalità che Chesterton avrebbe stigmatizzato, alla pari del modernismo: “Ho sempre avuto un forte senso di repulsione intellettuale nei confronti del modernismo, anche prima di convertirmi al cattolicesimo”. Quale Chiesa era quindi indispensabile per Chesterton? In “Perché sono cattolico” del 1926 il suo pensiero era chiaro e illuminante: “Uno dei principali compiti della Chiesa cattolica è far sì che la gente non commetta vecchi errori, in cui è facile ricadere, ripetutamente, se le persone vengono abbandonate, sole, al proprio destino. La verità concernente l’atteggiamento cattolico nei confronti dell’eresia o, si potrebbe dire, nei confronti della libertà, può essere rappresentata dalla metafora di una mappa. La Chiesa cattolica possiede una mappa della mente che sembra la mappa di un labirinto, ma che in realtà è una guida per orientarsi nel labirinto”.
La Chiesa doveva, per Chesterton, orientare l’uomo nel labirinto del mondo, non perdersi con esso in strade equivoche, indugiare in percorsi ambigui, abbattere barriere importanti. Chesterton indicava ancora quale fosse la specifica peculiarità della Chiesa: “La Chiesa ha la responsabilità di segnalare determinate strade che conducono al nulla o alla distruzione, ad un muro cieco o a un precipizio…La Chiesa si prende la responsabilità di mettere in guardia il suo popolo su queste realtà, e sta proprio qui l’importanza del suo ruolo. Dogmaticamente essa difende l’umanità dai suoi peggiori nemici, quei mostri antichi, divoratori orribili che sono i vecchi errori”. Si potrebbe continuare con altre innumerevoli citazioni che attesterebbero quale Chiesa era pensata e voluta dal grande Gilbert. Egli era consapevole del rinnovarsi delle eresie e proponeva l’atteggiamento corretto che avrebbero dovuto assumere la Chiesa e l’uomo, come egli scriveva ancora nel 1929: “Bisogna appellarsi alle realtà veracemente umane: la volontà cioè la morale, la memoria cioè la tradizione, la cultura cioè il retaggio intellettuale dei nostri padri”.
Se si procedesse nella lettura, ancora straordinariamente attuale, si scoprirebbe un Chesterton rivelatore del nichilismo modernista: “Il mondo moderno, con i suoi movimenti moderni, sta vivendo sul capitale cattolico. Sta utilizzando fino all’esaurimento tutte le verità rimanenti tratte da quell’antico tesoro che è la cristianità, ma non possiede un proprio entusiasmo innovativo. La novità è solo nelle parole e nelle etichette, come nella pubblicità moderna”. Il suo spirito profondamente cattolico avversava ogni sorta di compromesso con l’errore, ogni specie di abbraccio con l’eresia. In una considerazione sulla triste “eredità” di Lutero egli scriveva così: “Il momento che si iniziò a contestare la Chiesa appellandosi al giudizio individuale, ogni cosa venne giudicata erroneamente; coloro che ruppero con le fondamenta della Chiesa ben presto ruppero con le propria fondamenta; quelli che cercarono di reggersi a prescindere all’autorità non riuscirono a reggersi affatto”.
A suggello di quale Chiesa intendesse veramente Chesterton, fa rabbrividire leggere quest’ultima sua riflessione: “Nel cuore della cristianità, nei vertici della Chiesa, nel centro di quella civiltà che chiamiamo cattolica, lì e in nessun movimento, né in nessun futuro, si trovano la stabilità del senso comune, le tradizioni veraci, le riforme razionali, che l’uomo moderno ha cercato senza trovarle lungo tutto il cammino della modernità”.
da: www.riscossacristiana.it

sabato 18 marzo 2017

Al Castello Beccadelli di Marineo dal 19 Marzo la pittura naif di Ciro Puccio

di Ciro Spataro

Sin dai tempi più antichi l’uomo si è posto una domanda fondamentale:  chi sono io?  Ma spesso non ha trovato la risposta giusta. In realtà l’obiettivo centrale della vita è quello di scoprire la propria identità e di capire la vera vocazione di ognuno di noi.
   Ho fatto queste considerazioni guardando la produzione pittorica di Ciro Puccio che, subito dopo essere andato in pensione, si è buttato a capofitto in una nuova esperienza di vita, realizzandosi nella pittura.
   In questa bella avventura culturale è stato stimolato dalla nipote Federica, con la quale ha instaurato una vera e propria simbiosi e così, a 64 anni, Ciro si è di nuovo messo in gioco utilizzando le proprie risorse mentali con colori e pennelli scoprendo il vero senso dell’esistenza nella pittura naif.  E ciò ha potuto farlo con passione ed energia, trovando l’equilibrio interiore nell’armonia della natura.
   Da questo punto di vista, Ciro  Puccio non segue alcun movimento estetico, ma sicuramente mosso da un  impulso espressivo, con l’intento di rappresentare la realtà come essa è, riuscendo a conferire alle sue opere una suggestiva dimensione in cui confluiscono verità e sogno, memoria e invenzione di nuovi “paesaggi dell’anima” come lui stesso li chiama.
   Quella di Puccio è una spontaneità creativa che risulta una catarsi liberante per l’artista; ecco perché spesso le opere si presentano prive del senso della proporzione, realizzate quasi d’istinto, ma cos           ì originali da catturare la simpatia del fruitore.
   Dal 19 Marzo al 9 Aprile, l’artista presenta, al Castello Beccadelli di Marineo, un ciclo di circa cinquanta dipinti in cui prevalgono paesaggi naturali, e vedute marine, soprattutto di Ustica, che danno una piacevole sensazione di serenità.  Come non citare allora i temi di alcune opere che l’artista presenta con ingenuità disarmante? Il vecchio furgone dei gelati e dei panini del cognato, chiamato “miraggio”, messo in primo piano davanti il mare di Ustica, la donna che raccoglie le olive immersa nel paesaggio agreste, il carretto siciliano del padre, le case della masseria “Acqua del Pioppo” rivisitate secondo l’impianto di fine Ottocento.
   C’è una freschezza nel linguaggio pittorico di Ciro Puccio in specie quando fa palpitare luoghi, case, ambienti che affiorano nei suoi ricordi, per cui se dovessi definire “ I paesaggi dell’anima” dell’artista marinese, utilizzerei una sola frase: la forza della semplicità.

sabato 11 marzo 2017

La Gnosi Moderna Di Pietro Citati

di Umberto Bianchi 

E’ proprio vero, la dimensione dell’irrazionale e dell’insolito che uno credeva di essersi lasciato alle spalle, immerso nella concitazione della vita quotidiana o nella voglia di rilassarsi e lasciar tutto alle spalle, ecco che, quando meno te l’aspetti, rientra da quella finestra dell’anima mai rimasta completamente chiusa. Magari in una domenica estiva, fatta di vagabondaggio a cavallo della propria moto tra le fresche valli del Reatino, sin su tra le nude cime del Terminillo e poi giù tra vallate oscure e silenziose, che lasciano, d’improvviso, spazio ad uno dei tanti splendidi borghi dell’Italia Centrale, Leonessa. Fermare la moto, vagolare tra le vie della deliziosa cittadina, fermarsi in piazza e buttare l’occhio lì, tra quelle bancarelle dove, alla rinfusa tra altri libri, ammassati a guisa di scarti di spazio-tempo, in attesa di esser penetrati dall’umana curiosità, ne giace uno, che sembra lì esser stato gettato per caso dal Fato e che attira subito la mia attenzione. Una breve trattativa e lo faccio mio, coprendolo con cura in una busta ed infilandolo nel mio immancabile zainetto da viaggio. Pietro Citati con il suo “La Luce della Notte”, è uno di quei rari autori dotato del dono di saper intrecciare filosofia, metafisica e narrazione in un insieme talmente agile e scorrevole da catturare la tua attenzione e da trascinarti nel vortice di una narrazione, che parte da una dimensione spazio temporale dilatata quasi all’infinito, in grado di far toccare sino a confondere, i confini tra l’atemporalità del mito e la storia, quale quella rappresentata dalla steppa degli Sciti e dai loro misteriosi Kurgan, sino alla microcosmica dimensione della umana schizofrenia che chiude un libro, che altro non è che una corsa. Una folle corsa attraverso immagini, storie, uomini, tutti accomunati da una spasmodica apertura all’irrazionale, a quella dimensione mitopoietica che involge, avvolge, coinvolge i protagonisti tutti, in una continua tensione esistenziale, in cui il mito sembra entrare e catturare le menti dei vari protagonisti, salvo poi abbandonarli repentinamente al loro tragico destino ed infine rientrare per lasciare nuovamente una indelebile traccia di sé…. Ma questo libro è anche, e principalmente, un affastellarsi di sensazioni e di emozioni. E’ lo “stupor” del Re di Persia dinnanzi alla sua impotenza davanti alla sfuggente indomabilità scitica. E’ la “melancholia” di Saturno che sembra lasciare, silenziosa, le proprie tracce nell’animo umano. E’ la virtù ed il multiforme ingegno di Odisseo, figlio di Hermes, dio dei ladri e padre putativo di tutti gli iniziati. E’ la comica vanità di Apuleio, tramutato in Asino, salvato e reso iniziato da Iside in persona. E’ la sbigottita descrizione dello gnostico Valentino di un Dio, di un Uno, che tale “non è”, perché talmente abissale e lontano da noi da non poter Essere se non, per l’appunto, Abisso. E’ l’irrompere del Cristianesimo paolino e della sua predicazione fatta di una secca intransigenza, tra le pieghe della tranquilla armonia neoplatonica. E’ la “Commedia” di Dante con la finale esperienza di contatto con quella Luce, con quella luminosa sorgente principiale, per la quale non si riescono a trovare parole sufficienti, a rendere una descrizione. Ma è anche l’assurda aderenza degli ultimi monarchi amerindi alle indicazioni di un mito, che porterà al compimento di un tragico destino. E’ la versione non ortodossa della Bibbia da parte degli islamici, che non contrasta affatto con il fiabesco mondo delle “Mille e una Notte”, la cui dimensione sembra intersecarsi con la dimensione del reale in un inestricabile e misterioso Tutto. E’ il giuoco di luci e di ombre del Tao cinese, che passa dalla tranquilla ed estatica immersione in una dimensione edenica fatta di giardini, palazzi incantati, sentimenti delicati e soffusi, alla desolazione, all’abbandono ed alla morte, che seguono al repentino abbandono di un mondo, da parte della dimensione “altra”. E’ quel magico flauto mozartiano, che proietta lo spettatore nella dimensione mitica ed iniziatica dell’Egitto Isideo, in un misterioso intersecarsi di vicende umane e divine. E’ la ricerca della Shekinah, delle tracce di quella Luce, che, a detta dell’Ebraismo eterodosso della cabalistica, qua e là fanno la loro comparsa in un mondo corrotto dalla materia. E’ la leopardiana ricerca di un contatto immediato, con l’Infinito, che, a guisa di un vero e proprio “Satori”, sappia immedesimare l’animo umano, con il continuo fluire di quell’onnipresente Apeiron/Infinito, che contrasta in modo stridente e dolce allo stesso tempo, con la caducità delle umane cose e del mondo che sta loro attorno. E’ la malattia mentale, la schizofrenia nella fattispecie, vista quale stadio di proiezione dell’animo umano verso dimensioni “altre”, proprio a causa della frantumatoria rifrazione dell’ IO cartesiano, che ne sta alla base. E’ la Gnosi che di sé permea l’intera narrazione di Citati, la cui magica abilità sta nel portare esempi e vicende tra loro apparentemente lontane e scollegate,nel tempo come nello svolgimento, ma tutte egualmente accomunate dal continuo intersecarsi con una realtà “altra” che esce ed entra nelle umane cose a piacimento, esaltando e mortificando, lasciando intravedere e celando, spalancando prospettive e chiudendosi in sé, lasciando nello sgomento protagonisti e spettatori. L’unica possibilità che, a questo punto, a detta del Citati, rimane all’uomo, è quella di Egli farsi narratore di quegli eventi. Ulisse, Apuleio, Plutarco, Sant’Agostino, Dante, Cristobàl de La Casa, Mozart, Leopardi e tutti gli altri, attraverso la narrazione, si fanno interpreti di quella heideggeriana esigenza di aprire l’uomo alla dimensione dell’Essere, facendone il “pastore” di quest’ultimo. E così se, due modalità di pensiero tanto lontane e differenti, quali quella Gnostica, disperatamente dualista ed emanazionista “par excellence”, da un lato, e dall’altro, quella heideggeriana, antimetafisica ed immanentista, sia pur in un ambito “neo parmenideo”, qui trovano un comune terreno su cui andare a collimare; in un altro ambito, quello della metastoria, la dimensione del mito e dell’insolito viene qui a coincidere ed intersecarsi con quella della Storia e della vita vissuta, senza soluzione di continuità. Ed in quel suo stesso manifestarsi quale narratore e “pastore” dell’Essere, l’individuo vede riunirsi in sé l’ ”archè” della dimensione mitica, in Occidente inaugurata da Ulisse il narratore ed il viaggiatore, quale figlio di quell’Hermes/Mercurio, nel ruolo di Colui che fa dell’uomo un essere dal “multiforme ingegno”, e quella dimensione meramente filosofica, rappresentata dal proiettarsi verso la dimensione di quel nietzschiano “Oltreuomo/Superuomo”, aperto alle dimensioni di un Essere che nella sua Molteplice natura di Tutto è Uno e viceversa, perfettamente rappresentato e condensato in quell’ “En Kài Pan”, a cui tanti filosofi, da Herder, Fichte, Hegel e tanti altri ancora, si sono richiamati. Così, per mano di uno scrittore, l’Occidente finisce, ancora una volta, per rivelarsi a noi in tutta la sua peculiare contradditorietà di “magnum misterium” e di inestricabile ed affascinante “coincidentia oppositorum”.

venerdì 10 marzo 2017

Cambiare le parole non cambia il senso delle cose, né il cuore

di Lorenza Perfori

Negli ultimi decenni il politically correct ha provveduto a tirare a lucido una serie di vecchie parole, sostituendo il linguaggio antiquato con una nuova terminologia scintillante e rassicurante. La correttezza politica ha, altresì, trovato un fertile terreno nell’incontro tra biologia umana e diritti, legando i due in un robusto sodalizio. Qui si è sviluppata una strategia culturale all’avanguardia, volta a manipolare la percezione pubblica sulle grandi questioni della vita, sia cambiando nome alla realtà, sia rovesciando il significato delle parole.
Che il linguaggio cambi, con l’evolversi della società e della cultura, è un dato di fatto, ciò non vuol dire che le parole ammodernate possano chiarire meglio il senso delle cose, anzi, spesso è vero il contrario. Succede, infatti, che i nuovi termini più che chiarire, oscurino; più che evidenziare, nascondino; più che mostrare la verità, perpetuino la menzogna. Prendiamo, per esempio, l’aborto, tramutatosi nel più rassicurante “Interruzione volontaria di gravidanza” e poi, nel più asettico “Ivg”. Per cui, oggi, non si dice più “ho abortito”, troppo desueto; ma, “ho fatto una Ivg”. E tutti sono subito più tranquilli.
“Ivg” si dice, ma la realtà che sta dietro alla sigla rimane comunque, dolorosamente e drammaticamente, l’uccisione volontaria del proprio figlio. Il cuore della donna lo sa che è così, che quello è un figlio. Anche la scienza lo dice. Una volta che i patrimoni genetici del padre e della madre si sono fusi insieme con la fecondazione, se ne origina uno nuovo, unico e irripetibile. Dopo appena qualche ora dall’unione dello spermatozoo con l’ovulo, il patrimonio genetico del figlio concepito è già scritto. E se esistesse un programma in grado di tradurre in immagini il genoma, potremmo vederne i tratti somatici, i lineamenti del volto, colore degli occhi, dei capelli… e tutto il resto.
Ma le parole dicono no, che non è così. Quello è solo un “grumo di cellule”, “non ha ancora attività cerebrale”, e allora se lo elimino non faccio niente di male, come fosse toglier via un brufoletto. Con una asettica “Ivg” il cuore è acquietato e il “brufoletto” eliminato.
Eppure i conti non tornano. Non tornano perché per un brufoletto non serve andare in ospedale, entrare in sala operatoria e sottoporsi ad anestesia. E nemmeno ingurgitare un veleno. I conti non tornano, perché se è solo un “grumo” insignificante, per quale motivo prendersi tanto disturbo per eliminarlo, se è “niente”, che problemi crea? Che fastidio dà il “niente”? Lo si può anche lasciare lì dov’è, il “grumo cellulare”, prima o poi si riassorbirà da solo…
“Ivg” si dice, per silenziare il cuore… temporaneamente, giusto il tempo che tutto finisca, il prima possibile… Non basterà una vita intera per zittire quello stesso cuore quando l’anestesia lessicale avrà perso il suo effetto, quel cuore che la terminologia disinfettata, o menzognera, non ha tacitato affatto.
Un altro esempio lo troviamo quando l’attenzione si sposta sull’argomento “immigrati”. Sono anni, ormai, che “negro” non si dice più, è offensivo – ci dicono – il termine esatto è “uomo di colore”. Nemmeno “zingaro” si può dire più, meglio “rom”, anzi no, meglio dire “migrante” così nessuno si offende.
Bene, gli “uomini di colore” e i “migranti” sono certamente grati per la nuova terminologia più rispettosa, peccato, però, che questo restyling non abbia per nulla fermato il disprezzo nei loro confronti e gli episodi di razzismo o indifferenza.
Come si vede il discorso ritorna lì, al cuore. Le parole lucidate non cambiano i cuori. Chi disprezza i “negri”, disprezza anche gli “uomini di colore” e chi ama il prossimo continua ad amarlo anche se non ha aggiornato il vocabolario.
E allora, quello che conta, non sono le parole nuove, né quelle corrette, ma i fatti giusti. Le parole lucidate agiscono solo in superficie, non penetrano in profondità, non cambiano le cose, non modificano anche il cuore e, a volte, sono una maschera che nasconde la verità. E allora, ben vengano i nuovi termini, ma assicuriamoci di accompagnarli alla carità… e alla verità, affinché la denominazione ineccepibile non sia un comodo alibi per nascondere il cuore o per fare tutto quello che pare e piace.
A fare un elenco spiritoso di alcuni vecchi termini rimessi a nuovo, ci ha pensato lo scrittore Alessandro Pronzato in un libro, di qualche anno fa, dal titolo: Alla ricerca delle Virtù perdute (Gribaudi, 3a ed., Sett. 2000, pp. 161-167).

giovedì 9 marzo 2017

L’angolo di Gilbert K. Chesterton – Grandezza e attualità di uno scrittore cattolico

di Fabio Trevisan

Nel 1905 Chesterton scriveva: “Le credenze religiose e filosofiche sono, in effetti, pericolose come il fuoco, e nulla può estirparne quella bellezza connessa al pericolo. Ma c’è un solo modo per proteggerci veramente contro l’eccessivo pericolo che rappresentano, ed è quello di essere imbevuti di filosofia e saturi di religione”.
Queste illuminanti ed attuali riflessioni, tratte dall’emblematico capitolo finale (“Osservazioni conclusive sull’importanza dell’ortodossia”) del saggio Eretici, ci dovrebbero spingere a comprendere i pericoli in seno alla Chiesa Cattolica e ad adottare le contromisure cautelative. L’essere imbevuti di filosofia, come avvertiva il grande saggista londinese, non significava fare mero esercizio intellettualistico ma piuttosto saper ragionare considerando i principi della buona logica (principio di identità, principio di non contraddizione,ecc.) e del senso comune. L’essere saturi di religione non significava contrapporre la devozione alla ragione né la pastoralità alla dottrina ma piuttosto riconoscere nella fede la potenzialità salvifica dei dogmi e la grazia trasmessa dai Sacramenti. Non a caso Chesterton rimarcava l’importanza dell’ortodossia e la necessità dei dogmi: “Se esiste una cosa come la crescita intellettuale, questa deve indicare una crescita verso convinzioni sempre più definite, verso dogmi sempre più numerosi”.
Quali erano le idee pericolose per Chesterton? Certamente quelle che si opponevano ai dogmi ed all’ortodossia, in quanto, per sua definizione: “L’uomo può essere definito come un animale che produce dogmi”. La preoccupazione della fedeltà all’ortodossia e alla tradizione del pensiero cristiano non erano in Chesterton, come si potrebbe dire nel linguaggio “ecclesialmente corretto” dei nostri tempi, appannaggio di una mente bigotta, ipocrita e farisaica (usando una terminologia “misericordiosamente corretta”) ma piuttosto prerogativa indispensabile per la salvaguardia della fede e della ragione. Il cercare la verità oggettiva e la definizione e precisione dei dogmi costituivano quindi un baluardo contro le idee balzane e pericolose, quasi come uno scudo contro le pietre scagliate dal progressismo e dal modernismo: “Il vizio nel concetto moderno di progresso intellettuale è sempre quello di alludere a qualcosa collegato con vincoli infranti, confini cancellati, dogmi scartati”.
Se si osserva con attenzione, il vincolo infranto era l’incapacità di ottemperare ad un voto solenne dinanzi a Dio e agli uomini (fedeltà nel matrimonio, obbedienza all’autorità); il confine cancellato alludeva al venir meno della sacralità della casa e della legittima proprietà; il dogma scartato infine si riferiva all’irrompere di un pensiero scriteriato e slegato dalla tradizione e dall’ortodossia. Con umorismo e saggezza Chesterton osservava che: “Il vero progresso intellettuale consiste nella costruzione di una precisa filosofia della vita e quella filosofia deve essere giusta e le altre devono essere sbagliate”.
Al contrario di quello che si pensa nella Chiesa oggi, non erano, per Chesterton, i dogmatici a scagliare la prima pietra. Coloro che avevano a cuore la salvaguardia della dottrina e la salvezza dell’anima non erano “i duri di cuore” senza carità e misericordia. Era esattamente l’opposto: i reali persecutori si scagliavano, con le loro idee pericolose, contro i principi e i dogmi, le verità di fede e di ragione: “Non furono mai le persone spinte da una convinzione, che compirono così vaste persecuzioni…furono le persone incuranti, che ricolmarono il mondo di fuoco e oppressione. Furono le mani degli indifferenti che accesero le fascine…”.
Le conseguenze di un cattivo pensiero sono ormai sotto gli occhi di tutti e basterebbe riflettere ora su uno dei reiterati postulati di Bergoglio: il tempo è superiore allo spazio. Ovviamente qui non si tratta di categorie a priori dell’intelletto in senso kantiano ma di categorie “sociologiche”. Lo “spazio” è stigmatizzato, in sintonia col progressismo, come anelito egoistico al potere, mentre il “tempo” è ricercato, in armonia con l’immanentismo hegeliano, quale critica liberatoria di superamento dialettico dei conflitti. Si rivela così quello che effettivamente paventava Chesterton: “Accade che il progresso sia uno dei nostri dogmi, e un dogma corrisponde a qualcosa che non è ritenuto dogmatico”.
Non è banale ricordare ultimamente come l’avvento di idee così forsennate e pericolose (e ribadisco: slegate dalla tradizione e dall’ortodossia) possano apportare persecuzione. Le ultime frasi di Eretici attestavano questa drammatica deriva intellettuale e spirituale: “Noi ci troveremo a difendere non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Combatteremo per i prodigi visibili come se fossero invisibili. Guarderemo l’erba e i cieli impossibili con uno strano coraggio. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto”.

da: www.riscossacristiana.it

mercoledì 8 marzo 2017

Memorie di un’epoca – Ventimila uccisi perché italiani. Non dimentichiamoli

di Luciano Garibaldi

Il 10 febbraio scorso, in occasione della celebrazione del “Giorno del Ricordo”, «Riscossa Cristiana» ha pubblicato l’ottimo articolo di Alfonso Indelicato dedicato al calvario degli italiani del confine orientale. Assieme alla puntuale ricostruzione storica di Indelicato, veniva riproposto anche l’articolo che dedicai un anno fa alla commemorazione dell’evento. Ciò non m’impedisce di tornare sull’argomento, soprattutto alla luce di numerosi episodi che rivelano come la triste vicenda delle foibe continui a dividere, anziché a unire, come dovrebbe, dopo così tanto tempo.
Infatti sono trascorsi ormai tredici anni da quando, nel 2004, fummo chiamati a celebrare il «Giorno del Ricordo», in memoria dei quasi ventimila nostri fratelli assassinati dagli jugoslavi comunisti di Tito, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, nelle ex province italiane della Venezia Giulia, dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia. La domanda che sorge spontanea è questa: come mai quella tragedia era stata confinata nel regno dell’oblio per quasi sessant’anni? Tanti, infatti, ne erano passati tra quel biennio 1945-46 che vide realizzarsi l’orrore delle foibe, e l’auspicato 2004, quando il Parlamento approvò la «legge Menia» (dal nome del deputato triestino Roberto Menia, che l’aveva proposta) sulla istituzione del «Giorno del Ricordo».
La risposta va ricercata in una sorta di tacita complicità, durata decenni, tra le forze politiche centriste e cattoliche da una parte, e quelle di estrema sinistra dall’altra, in primis il PCI (Partito Comunista Italiano) che aveva molte cose da nascondere.
Fu soltanto dopo il 1989 (crollo del muro di Berlino ed autoestinzione del comunismo sovietico), che nell’impenetrabile diga del silenzio incominciò ad aprirsi qualche crepa. Il 3 novembre 1991, l’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga si recò in pellegrinaggio alla foiba di Basovizza e, in ginocchio, chiese perdono per un silenzio durato cinquant’anni. Poi arrivò la TV pubblica con la fiction «Il cuore nel pozzo» interpretata fra gli altri dal popolare attore Beppe Fiorello. Un altro presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, si era recato, in reverente omaggio ai Caduti, davanti al sacrario di Basovizza l’11 febbraio 1993. Così, a poco a poco, la coltre di silenzio che, per troppo tempo, era calata sulla tragedia delle terre orientali italiane, divenne sempre più sottile e finalmente tutti abbiamo potuto conoscere quante sofferenze dovettero subìre i nostri fratelli della Venezia Giulia, dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia.
Ma vediamo come e perché si verificò la tragedia delle foibe. L’Italia era entrata nel conflitto mondiale alleandosi con la Germania e dichiarando guerra il 10 giugno 1940 alla Francia e all’Inghilterra, poi agli Stati Uniti d’America il 7 dicembre 1941. Dopo tre anni di guerra, le cose si erano messe male per noi, e il regime fascista di Mussolini, che governava il Paese ormai da vent’anni, aveva decretato il proprio fallimento con la storica riunione del Gran Consiglio del Fascismo del 25 luglio 1943. Ne erano seguiti lo scioglimento del Partito fascista, la resa dell’8 settembre, lo sfaldamento delle nostre Forze Armate.
Nei Balcani, e particolarmente in Croazia e Slovenia, le due regioni balcaniche confinanti con l’Italia, il crollo dell’Esercito italiano aveva fatalmente coinvolto le due capitali, Zagabria (Croazia) e Lubiana (Slovenia). Qui avevano avuto il sopravvento le forze politiche comuniste guidate da Josip Broz, nome di battaglia «Tito», che avevano finalmente sconfitto gli odiati “ustascia” (i fascisti croati agli ordini del dittatore Ante Pavelic), e i non meno odiati “domobranzi”, che non erano fascisti, ma semplicemente ragazzi di leva sloveni, chiamati alle armi da Lubiana a partire dal 1940, allorché la Slovenia era stata incorporata nell’Italia divenendone provincia autonoma.
Tito e i suoi uomini, stella rossa sul berretto, fedelissimi di Mosca, odiavano a morte gli italiani e non avevano mai fatto mistero di volersi impadronire non solo della Dalmazia e della penisola d’Istria, ma di tutto il Veneto, fino all’Isonzo.
Fino alla fine di aprile 1945 erano stati tenuti a freno dai tedeschi che, con una ferocia eguale, se non superiore, alla loro, avevano dominato Serbia, Croazia e Slovenia con il pugno di ferro dei loro ben noti sistemi (stragi, rappresaglie dieci a uno, paesi incendiati e distrutti). Ma con il crollo del Terzo Reich, nulla ormai poteva più fermare gli uomini di Tito, irreggimentati nel IX Korpus, e la loro polizia segreta, l’OZNA (Odeljenje za Zaštitu NAroda, Dipartimento per la Sicurezza del Popolo). L’obiettivo era l’occupazione dei territori italiani.
Non avevano fatto i conti, però, con le truppe Alleate che avanzavano dal Sud della nostra penisola, dopo avere superato la Linea Gotica. La prima formazione alleata a liberare Venezia e poi Trieste fu la Divisione Neozelandese del generale Freyberg, l’eroe della battaglia di Cassino, appartenente all’Ottava Armata britannica. Fu una vera e propria gara di velocità. Gli jugoslavi erano favoriti dal fatto che le truppe tedesche si erano arrese in quasi tutta l’Istria e tenevano sotto controllo soltanto Trieste e la linea costiera, per cui gli jugoslavi poterono impadronirsi di Fiume e di tutta l’Istria interna, dando subito inizio alle feroci esecuzioni contro gli italiani. Ma non riuscirono ad assicurarsi la preda più ambita: la città, il porto e le fabbriche di Trieste. Infatti, la Divisione Neozelandese del generale Freyberg entrò nei sobborghi occidentali di Trieste nel tardo pomeriggio del 1° maggio ‘45, mentre la città era ancora formalmente in mano ai tedeschi che, asserragliati nella fortezza di San Giusto, si arresero a Freyberg il 2, impedendo in tal modo a Tito di sostenere che aveva «preso» Trieste. La rabbia degli uomini di Tito e dei loro complici comunisti italiani si scatenò allora contro persone inermi in una saga di sangue degna degli orrori rivoluzionari in Russia del periodo 1917-1919.
Fin dall’ottobre 1945 il premier italiano Alcide De Gasperi presentò agli Alleati «una lista di nomi di 2500 deportati dalle truppe jugoslave nella Venezia Giulia» ed indicò «in almeno 7500 il numero degli scomparsi». In realtà, il numero degli infoibati e dei massacrati nei Lager di Tito fu ben superiore a quello temuto da De Gasperi. Le uccisioni di italiani furono almeno ventimila.
Il dramma delle terre italiane dell’Est si concluse con la firma del trattato di pace il 10 febbraio 1947, a Parigi. Tradita e abbandonata anche dagli inglesi e dagli americani, i veri vincitori della Seconda Guerra Mondiale, l’Italia dovette rinunciare per sempre a Zara, alla Dalmazia, alle isole del Quarnaro, a Fiume, all’Istria, a parte della provincia di Gorizia, a tutte quelle regioni e province dalle quali gli italiani fuggivano a diecine di migliaia, abbandonando le loro case e ammassando sui carri trainati dai cavalli le poche masserizie che avevano potuto portare con sé.
Purtroppo, una delle cose più vergognose fu il comportamento dei ministri comunisti che facevano parte del governo De Gasperi. Un esempio per tutti: Emilio Sereni, che ricopriva la determinante carica di ministro per l’Assistenza post-bellica, e sul cui tavolo finivano tutti i rapporti con le domande di esodo e di assistenza provenienti da Pola, da Fiume, dall’Istria e dalla ex Dalmazia italiana, anziché farsene carico e rappresentare all’opinione pubblica la drammaticità della situazione (tra le domande ve ne erano non poche firmate da esponenti comunisti italiani rimasti dall’altra parte della linea Morgan, che tuttavia si sentivano prima di tutto italiani), minimizzò e falsificò i dati. Rifiutò di ammettere nuovi esuli nei campi profughi di Trieste con la scusa che non c’era più posto e, in una serie di relazioni a De Gasperi, parlò di «fratellanza italo-slovena e italo-croata», sostenne la necessità di scoraggiare le partenze e di costringere gli istriani a rimanere nelle loro terre, affermò che le notizie sulle foibe erano «propaganda reazionaria».
Il trattato di pace di Parigi regalò alla Jugoslavia l’Istria, Fiume, Zara e le isole dalmate, con il diritto a Belgrado di confiscare tutti i beni dei cittadini italiani, che sarebbero poi stati indennizzati dal governo di Roma. Ebbene – e questa è l’ingiustizia più grave, che perdura tutt’ora – i sopravvissuti, e i loro eredi, non hanno mai visto un centesimo. La stragrande maggioranza emigrò in varie parti del mondo cercando una nuova patria: chi in Sud America, chi in Australia, chi in Canada, chi negli Stati Uniti. Tantissimi riuscirono a sistemarsi faticosamente in Italia e oggi rappresentano una nobile comunità che continua a lottare perché almeno sia rispettata la verità storica. Cosa che purtroppo, anche in molti libri di storia per le scuole, non avviene.
E perché non avviene? Per quella tendenza che ha preso il nome di “giustificazionismo”. Ovvero: le stragi di italiani vi furono, sì; uomini, donne e vecchi gettati vivi a morire in foiba vi furono, sì. Ma si trattò di una ritorsione, di una vendetta per le atrocità che le popolazioni slave (croate e slovene) avrebbero subìto per mano degli italiani negli anni in cui questi dominavano le loro terre. Ebbene, mai una prova è stata portata a sostegno di questa tesi infamante e calunniosa. Non ci sono nomi, non ci sono fotografie, non ci sono documenti scritti. Soltanto invenzioni.
La numerosa serie di atti d’accusa preparata dalle polizie segrete comuniste che, in mancanza di prove reali e certe, le fabbricavano, fu una costante soprattutto nei Paesi dove, dopo la guerra, sopravvisse il regime comunista. Nelle aree comprese nella sfera sovietica (a cominciare dai Balcani), la legge e la giustizia venivano piegate agli scopi politici.
Alla tragedia delle foibe, l’autore, Luciano Garibaldi, giornalista e storico, ha dedicato, assieme alla professoressa Rossana Mondoni, tre libri per i tipi delle edizioni Solfanelli: «Venti di bufera sul confine orientale», «Nel nome di Norma», dedicato al ricordo di Norma Cossetto, la studentessa triestina tra le prime vittime della violenza rossa, e «Foibe, un conto aperto».

da: www.riscossacristiana.it

sabato 4 marzo 2017

Morire di Amazon: così l’e-commerce farà sparire i negozi

di Fabrizio Patti

La rivoluzione tecnologica ha già colpito il lavoro nel manifatturiero, si appresta a farlo nel mondo delle banche e nei servizi avanzati. Potrà risparmiare il mondo del retail, cioè nei negozi e supermercati? In molti pensano di no. Sono di qualche giorno fa le parole dell’ex presidente Usa Barack Obama: «L’innovazione è inarrestabile e sta accelerando. Avete visto cos’è successo ai negozi, alle vendite dello scorso Natale. Amazon e le vendite online stanno uccidendo il retail tradizionale, e quello che è vero lì, sta per diventare vero attraverso tutta la nostra economia». Le ha pronunciate al termine di un’intervista in cui ha provato a spiegare che è la tecnologia, molto più della concorrenza del Messico o della Cina, a mettere a rischio il lavoro, e della necessità di trovare dei modi nuovi e creativi per gestire questo cambiamento, da affiancare alle tradizionali lotte sindacali.
Pochi giorni dopo è stato il turno di Warren Buffet, l’Oracolo di Omaha. Nel 2005 aveva comprato, con la sua società Berkshire Hathaway, azioni di WalMart per centinaia di milioni di dollari. Il 14 febbraio l’annuncio che era stato venduto il 90% delle azioni, con una dismissione che è durata qualche mese. Lo scorso dicembre, al meeting degli azionisti della sua società, aveva evocato Amazon quasi come un fenomeno naturale. «È una grande, grande forza, e ha già distrutto (disrupted) un sacco di persone e ne distruggerà di più».
È un’analisi riferita a una sola azienda, WalMart (che però nel 2017 ha annunciato l’assunzione di ben 10mila lavoratori) ma che si potrebbe estendere a tutto il settore. Gli scorsi mesi sono stati un annuncio dopo l’altro di chiusure o forti ridimensionamenti di catene (Business Insiderha parlato di “onda gigantesca”). Macy’s (un department store, equivalente di Rinascente) sta chiudendo 68 negozi e tagliando 10mila lavoratori e Limited sta abbassando tutte le sue 250 saracinesche, con un impatto su 4mila lavoratori. Kohl's, Sears, Kmart e CVS hanno annunciato altre centinaia di chiusure. Altre catene alle prese con piani pluriennali di riduzione dei negozi sono American Eagle, Chicos, Finish Line, Men's Wearhouse e The Children's Place. L’effetto si vede anche nei mall, dove il traffico è in continuo calo almeno dalla metà del 2014.


Fonte: Challenger, Gray & Christmas

Fonte: RBC Capital Markets

Cosa porterà questo trend nel lungo periodo è questione di previsioni. Una l’ha fatta, nel Regno Unito, il British Retail Consortium, federazione dei negozianti britannici: entro il 2025 un terzo dei lavoratori del settore perderà il lavoro. In numeri fa 900mila persone e a essere colpite saranno soprattutto le piccole imprese del commercio e le aree più povere. La ricerca è un po’ viziata dal fatto di essere accompagnata dalla suggestione che tale dinamica sarà avvantaggiata dalla previsione di un salario minimo nel settore, da poco deciso dal governo britannico.
L’indiziato responsabile del futuro svuotamento del lavoro nella distribuzione, grande e piccola, nelle varie analisi rimane lo stesso: l’e-commerce in generale e Amazon in particolare. Sempre più comodo, sempre più affidabile nelle consegne e rassicurante nelle politiche di resi. Tra i suoi oppositori c’è l’Institute for Local Self-Reliance (ILSR), che negli Stati Uniti in una ricerca ha dato il senso della questione: se i negozi fisici, in media, impiegano 49 persone per ogni 10 milioni di vendite, nel caso di Amazon si scende a 23 persone, sempre per ogni 10 milioni di ricavi. Alla perdita di lavoro si dovrebbe aggiungere quella di gettito fiscale locale. Un’altra ricerca, "Amazon and Empty Storefronts", condotta dalla società di ricerche Civic Economics, ha stimato in 222mila i posti di lavoro netti persi a causa dell’impatto di Amazon nel 2015. Stime difficili da verificare ma che hanno controbilanciato l’enfasi del fresco annuncio di Amazon sulla futura creazione di 100mila nuovi posti di lavoro negli States.

I tagli nei numeri
Se questi sono gli scenari futuri, che cosa dice il presente? Che, nonostante gli annunci delle chiusure, è presto per parlare di catastrofi. A gennaio negli Stati Uniti sono stati creati 39.400 lavori nel retail, secondo la National Retail Federation americana. Su una media di tre mesi, l’associazione dei negozianti calcola un incremento di 16.600 posizioni e su base annuale di 161mila posizioni. Numeri che ridimensionano gli allarmi lanciati da Challenger, Gray & Christmas, una società specializzata nell’outplacement. A dicembre Challenger aveva segnalato un calo delle assunzioni nella stagione natalizia: -9% nel 2016, il terzo anno consecutivo di discesa. Ed è significativo guardare al numero dei licenziamenti durante tutto il 2016 e il 2015: se si esclude l’annus horribilis 2009, sono state le annate con più layoff.
Una nota della stessa Challenger sui tagli effettuati a gennaio (22mila, stesso livello del 2016), racconta di come ci siano dinamiche in atto tutt’altro che positive. «Un’impennata di licenziamenti nel retail a gennaio è diventata uno standard. La maggior parte dei retailer incrementano le assunzioni negli ultimi tre mesi dell’anno per gestire la corsa delle Feste. Comunque, visto che i consumatori vanno fanno acquisti sempre più online, i retailer non stanno solo dismettendo temporaneamente lavoratori stagionali, ma anche aumentando le chiusure dei negozi e lasciando a casa personale permanente».
Negli Stati Uniti i consumi crescono ma quelli online al ritmo doppio. Secondo le statistiche della National Retail Federation americana, il numero di shopper online durante il ponte del Black Friday ha superato di 10 milioni quelli fisici.


Fonte: Challenger, Gray & Christmas
Fonte: Challenger, Gray & Christmas
Questi sono gli Usa. E l’Italia? Qui i consumi sono molto meno vivaci e la crisi si è sentita eccome. I dati li ha calcolati l’ufficio studi di Confcommercio, su base Istat. Dal 2007 al 2016 gli occupati nel commercio sono scesi del 7%, mentre nel totale dell‘economia scendevano del 5,5% (nella ristorazione sono invece saliti del 5%). A essere colpiti, più che i dipendenti (-3,5%, ossia -63mila dipendenti), sono stati gli indipendenti. È stato come un meteorite: 193mila posti di lavoro in meno, pari al 10,4 per cento. Molti di questi sono riusciti a trasformarsi in dipendenti: il macellaio con il negozietto si è fatto assumere al banco del supermercato.
Gli ultimi mesi hanno visto casi di cronaca gravi. Tre su tutti: il licenziamento da parte di Carrefour di 600 persone. La crisi di Unicoop Tirreno. E la messa all’asta di Mercatone Uno. Come mostrano i dati elaborati per Linkiesta dal sindacato Fisascat-Cisl, al di là dei casi eclatanti, ci sono stati dimagrimenti anche da parte di altre catene di supermercati, come Auchan e Panorama-Pam. Mentre, in controtendenza, sono andati Esselunga e Lidl (ed Eurospin, non monitorata nella tabella).

da: www.linkiesta.it

venerdì 3 marzo 2017

Una serata italiana, anzi cento

Marcello Veneziani da settembre a maggio girerà l'Italia per un tour di cento incontri. Una Serata Italiana- cento comizi d'amore, concepita come un format teatrale, promossa dalla Fondazione An di cui Veneziani è diventato presidente del comitato scientifico e culturale. Sarà un racconto italiano con innesti musicali, passi recitati, immagini e riprese cine-televisive per you tube, da trasmettere in streaming e per ricavarne infine un dvd e forse un programma televisivo, incentrato sul risveglio d'Italia dal torpore depresso dei nostri giorni. Nella griglia di ciascuna serata, concepita come un monologo teatrale a schema libero, possono prevedersi di volta in volta, in testa e in coda, innesti e varianti locali, con ospiti e presenze sul palco. Una manifestazione di tipo culturale e civile, pre-politica, non partitica incentrata sulla voglia di essere, diventare, tornare a essere italiani. Il pretesto per l'impresa è l'uscita del pamphlet “Lettera agli italiani” di Veneziani, edito da Marsilio, dal 18 settembre in libreria.

Chiunque, tra gli iscritti e gli amici della Fondazione, o associazioni, circoli o enti locali, voglia ospitare nel suo centro una serata può contattarci scrivendo a: segreteria.veneziani@gmail.com.

giovedì 2 marzo 2017

Il misterioso inno alla vita dell’ateo De Filippo che non piace al Corriere

di Alfredo Mantovan

Per il Corriere della Sera, Filumena Marturano è come il presepe per Natale in casa Cupiello: non gli piace. Lo scrive il 9 febbraio in una lunga recensione a una versione dell’opera – per la verità, ben costruita, con la regia di Liliana Cavani – che sta girando per i teatri italiani. Non gli piace non tanto l’interpretazione dei due attori principali, Mariangela D’Abbraccio e Geppy Gleijeses, che anzi valuta positivamente, e con ragione. Quel che non gli piace è proprio l’opera in sé.Scrive il critico del maggior quotidiano italiano che quando Eduardo de Filippo la mise giù «pensava a porgere agli italiani stremati dalla guerra una qualche consolazione», e questo è il limite più forte della commedia, dal momento che «le consolazioni in arte sono l’orrore». Peraltro si tratterebbe di una consolazione senza fondamento, poiché non si sa chi fra i due protagonisti è il peggiore: “don” Mimì Soriano sarebbe ripugnante perché viziato, esibizionista e puttaniere, Filumena quasi peggio di lui perché finge di morire per farsi sposare, e poi si fa sposare validamente grazie allo stratagemma di rivelare a “don” Mimì quale dei tre figli di lei è stato concepito con lui.È certo che se passiamo la commedia al vaglio della legge Severino e dell’Autorità anticorruzione, Soriano e Filumena meritano le sanzioni più pesanti. Al rigore del Corriere sfugge purtroppo la sostanza: Filumena si è ridotta a fare per anni il mestiere che ha fatto perché lo ha ritenuto il solo modo per sfuggire alla miseria; chi è autorizzato a scagliare la prima pietra contro di lei? Nonostante questo, quando resta incinta – per ben tre volte – tiene con sé tutti e tre i figli: avrebbe potuto disfarsene, come l’establishment di cui il Corriere è portavoce avrebbe, se consultato, caldamente raccomandato. Invece li fa nascere, li mantiene e li fa crescere con dignità, pur nel dolore di tenerli lontani da sé per non comprometterne la riuscita: orrore per chi è convinto che l’aborto sia un diritto costituzionale!«’E figlie so’ ffiglie!»«Mi tornavano in mente i consigli delle mie amiche: “Cosa aspetti! Ti togli il pensiero! Io conosco uno molto bravo…”», ricorda Filumena, che poi fa il contrario rispetto a quanto consigliatole. Non ha preferenze fra di loro: dire a Soriano che uno dei tre è figlio di lui, ma non indicare quale è, non è tanto il perfido trucco per farsi sposare, quanto l’espressione viva dell’amore materno, per il quale i figli non sono scelti sul catalogo, come qualche servizio del Corriere ogni tanto racconta in modo rassicurante che accade senza problemi in giro per il mondo con uteri in affitto, et similia: «’E figlie so’ ffiglie! E so’ tutt’eguali!».Filumena spiega anche come mai questi figli se li è tenuti: la prima volta aveva deciso di dare ascolto alle amiche, poi «per combinazione, camminando camminando, mi ritrovai nel mio vicolo, davanti all’altarino della Madonna delle rose. L’affrontai così: “Cosa devo fare? Tu sai tutto… Sai pure perché ho peccato. Cosa devo fare?”. Ma Lei zitta, non rispondeva. “Tu fai così, è vero? Più non parli e più la gente ti crede?… Sto parlando con te! Rispondi!”. “’E figlie so’ ffiglie!”. Mi bloccai. Rimasi così, ferma. Forse se mi giravo avrei visto o capito da dove veniva la voce: da una casa con un balcone lasciato aperto, dal vicolo vicino, da una finestra… Ma pensai: “E perché proprio in questo momento? Che ne sa la gente dei miei problemi? È stata Lei, allora… È stata la Madonna!”».È un mistero che l’ateo Eduardo componga un inno alla vita e all’amore materno, e leghi l’uno e l’altro all’amore della Madre. Un mistero non nuovo: un altro non credente, di nome Carlo Collodi, componendo Pinocchio ha scritto una delle parabole più belle sull’amore del Padre per me, figlio discolo e ribelle. Ce lo ha fatto capire tanti anni fa il cardinale Biffi, con quel capolavoro di esegesi che è stato Contro Mastro Ciliegia. Il cardinale Biffi non scriveva sul Corriere della Sera.

da: www.alleanzacattolica.org