venerdì 29 aprile 2016

Pubblichiamo due Filastrocche di Vittorio Riera

FILASTROCCA CAPRICCIOSA

Voglio questo e questo pure.

Voglio un cielo tutto rosa
Voglio il mare in una rosa
Voglio un treno nel giardino
Voglio un pino nel taschino
Voglio un’ape che non punge
Voglio il tempo che non fugge
Voglio un ago che non cuce
Voglio un lago e tanta luce
Voglio un prato il monte il piano
Voglio pane tanto grano
Voglio l’oro rosso e blu …

Voglio mamma e niente più.


FILASTROCCA PER CHI S’AZZUFFA

Due galletti petulanti
due somari un po’ scalcianti
fanno a pugni a graffia calci 
saltellando di qua e di là.

Questo è mio, l’un dice, e molla
come molla che s’allenta
un bel calcio sulla coscia
che s’ammoscia e poi s’affloscia. 

Dormi, bimbo della mamma,
diavoletto di papà,
sogna putti tutti d’oro
e non pensare a quelli là.



sabato 16 aprile 2016

Il Mediterraneo delle etnie

Progetto curato da Pierfranco Bruni con il contributo scientifico di Neria De Giovanni, Annarita Miglietta, Silvia Pallini, Micol Bruni, Giovanni Agresti


Il Mediterraneo delle Etnie. Concertazione di studiosi e Istituzioni culturali. Un studio originale modulato sul piano didattico con alla base una forte valenza scientifica che pone in essere il rapporto tra linguaggi poetici e processi etnici. Le etnie che si focalizzano in questa occasione, in un rapporto metodologico tra la lingua della poesia e  le presenze antropologiche sono la Sardegna, il Griko, l’Occitano, il Friulano e l’Italo Albanese. Lo studio si arricchisce con una scheda dedicata alla lingua in Pirandello per ricordare gli 80 anni dalla morte dello scrittore di Girgenti.
Pierfranco Bruni (Mibact) Annarita Miglietta (UniSalento)
Si tratta di una Cartella elegante il cui lavoro è parte integrante del Progetto Etnie del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo con la consulenza scientifica dell’Università degli Studi di Teramo, del LEM, dell’Associazione Internazionale dei Critici Letterari e del Sindacato Libero Scrittori, Il Portale Letterario. net e FUIS. Una successiva Cartella si soffermerà su altre etnie.
"Il tema centrale, sottolinea il curatore e Responsabile Etnie del Progetto del Mibact, Pierfranco Bruni, abbraccia un percorso in cui sono presenti   Etnie, eredità antropologiche, lingua, linguaggi,poesia e processi culturali.  È su queste linee che si  avanza la ricerca ponendo un raccordo tra le lingue e la lingua attraverso il pensiero modelli etnici che toccano la koiné di appartenenza e le identità."

L'identità di un popolo è la storia che si intreccia con le culture altre che costituiscono modelli di eredità, il cui punto centrale resta la lingua.
Le civiltà che difendono la propria lingua non tutelano soltanto una appartenenza, ma intrecciano, in un tempo di etnicità diverse, di lingue e linguaggi multipli, identità storiche in una antropologia delle tradizioni e della letteratura.

La letteratura diventa cosi il fulcro intorno al quale si muove il tempo di una civiltà. Si abita una lingua perché si vive un paese. La lingua è una metafisica. Non si tratta di una metafora ma di un processo (se si vuole lento come è lento il trasmettere i valori di una tradizione) ben definito che pone all’attenzione elementi etici e presupposti estetici.


La lingua non è solo comunicazione o trasmissione di modelli. Nella lingua ci sono i segni di un tessuto mitico nel quale gli archetipi sono simboli esistenziali. Alla Cartella hanno partecipato Neria De Giovanni (Prersidente dell’Associazione Internazionale dei Critici Lettterari) per lo studio sulla Sardegna, Annarita Miglietta (Docente Università del Salento) per il Griko, Silvia pallini (Associazione LEM Italia) e Giovanni Agresti  (Docente dell’Università di Teramo) per il Friuli e l’Occitano e Micol Bruni (Storica ed esperta di Minoranze linguistiche) per l’Italo Albanese.

venerdì 15 aprile 2016

Ragiono, dunque credo in Dio

“Se Dio dunque si trova eternamente in quella felice condizione in cui noi ci troviamo solo è certo cosa meravigliosa. Ma se è in una con anche superiore, sarà più meravigliosa ancora. Eppure è così. Ed è anche vivente, perché l’atto del pensiero è vita, quest’atto: atto che, essendo per se stesso è in lui vita ottima ed eterna. Affermiamo dunque che Dio è eterno, sommo e perfetto, sicché a lui appartiene una vita ed una esistenza continue eterne. Ecco infatti che cosa è Dio“. (Aristotele,Metafisica)

di Giacomo Samek Lodovici

Molti cattolici si vergognano di manifestare la loro fede, anche perché vengono di solito guardati e considerati dagli altri con superiorità o anche con disprezzo. Infatti, è molto diffusa la convinzione che la fede sia un sintomo di ingenuità di infantilismo: avere fede – si dice – è un atteggiamento tipico dei bambini o dei poco dotati intellettualmente, perciò una persona matura e intelligente non deve curarsi della religione, deve andare a testa alta nel mondo e tralasciare le favole religiose.
Ora, questa equazione: fede = scarsa intelligenza, è completamente falsa, come dimostra il fatto che la stragrande maggioranza delle migliori menti della storia dell’umanità è costituita da uomini credenti. Circoscriviamo la nostra analisi ai filosofi (degli scienziati si occupa G. Cavalieri in questo dossier), cioè a quegli uomini che, per professione, hanno proprio esercitato l’intelligenza, visto che, almeno in un senso minimale, filosofare significa appunto ragionare, pensare.Ebbene, la maggior parte dei filosofi, cioè la maggior parte di coloro che hanno in modo eminente esercitato la ragione, è costituita da uomini che hanno coltivato la fede. Cominciamo, anzitutto, ricordanda che molti filosofi hanno inteso dimostrare l’esistenza di Dio già con la sola ragione. A questo proposito, molti ricordano le dimostrazioni di S. Tommaso (le famose cinque vie), ma si deve altresì tener presente che egli non è stato l’unico: anzi, è in una compagnia molto folta, insieme a Socrate, Platone, Aristotele, Agostino, Anselmo, Cartesio, Spinoza, Leibniz, Schelling, Hegel, per citare solo i più famosi. Non stiamo ovviamente qui a riprendere queste dimostrazioni (ne abbiamo esaminata una nel n. 16 del Timone, pp. 32-41), ci preme soltanto mostrare che per tutti questi autori la religiosità non si oppone alla ragione, bensì è richiesta precisamente dalla ragione stessa, quindi non è poco intelligente chi sostiene l’esistenza di Dio, semmai chi la nega, perché vuoi dire che non è in grado di capire i ragionamenti e le argomentazioni che la provano. Ad ogni modo, sia che ritengano Dio dimostrabile mediante la ragione, o raggiungibile solo con la fede, vogliamo ribadire che la maggior parte dei filosofi è composta da uomini religiosi. Vediamone dunque alcuni, senza fare una sorta di elenco telefonico e limitandoci ai più celebri.
Cominciamo da Socrate, simbolo imperituro del filosofo, il quale fu un eroe morale che testimoniò il proprio magistero accettando volontariamente la condanna a morte, e un uomo profondamente religioso (ma religiosi erano stati già lutti i filosofi precedenti). Anzi, egli intratteneva uno speciale rapporto con Dio, che gli si manifestava tramite una voce interiore, indicandogli la missione di scuotere i suoi concittadini dal torpore spirituale e morale in cui vivevano.
Anche Platone fu credente, e tutta la sua filosofia è pervasa da un’ispirazione religiosa, che gli fa descrivere Dio e la generazione dell’universo con alcuni accenti che prefigurano il cristianesimo: “Egli era buono e in uno buono non nasce mai nessuna invidia per nessuna cosa. Essendo dunque immune da questa, Egli volle che tutte le cose diventassero il più possibile simili a lui”. Di più, Dio è “artefice e Padre” di tutto l’universo, perciò bisogna amarlo assecondando la nostalgia di Dio seminata in ogni uomo, bisogna “rendersi simili a Dio” cioè “diventare giusti e santi”.
Aristotele fu uno dei più grandi filosofi di sempre e credette in Dio, che descrive così: “è un essere che esiste di necessità“,” esiste come Bene e in questo modo è il Principio” da cui “dipendono il cielo e la natura. Ed il suo modo di vivere è il più eccellente”. Infatti egli è “vita ottima ed eterna. Diciamo infatti che Dio è vivente, eterno, ottimo; cosicché a Dio appartiene una vita perennemente continua ed eterna”.
Plotino fu uno degli ultimi filosofi pagani, e la sua religiosità è talmente forte da costituire l’anima della sua intera speculazione filosofica, che voleva insegnare agli uomini il modo di sciogliersi dalla vita terrena per riunirsi a Dio e poterlo contemplare. Le sue ultime parole prima di morire furono: “cercate di ricongiungere il divino che è in voi al divino che è nell’universo”.
Sant’Agostino fu il padre della cultura dell’occidente latino e grandissimo filosofo. Notiamo che da giovane egli aveva disprezzato la fede cristiana, considerandola ingenua e infantile, proprio come fanno coloro di cui parlavamo all’inizio. Ebbene, dopo una giovinezza dissoluta in cui aveva sperimentato l’oscurità della lontananza da Dio, S. Agostino si convertì e trovò finalmente la pace anelata: “ci hai fatti per te Signore, e il nostro cuore non trova pace finché non riposa in te”; e ancora: “Folgorato al cuore da te mediante la tua parola, ti amai, e anche il cielo e la terra e tutte le cose in essi contenute, ecco, da ogni parte mi dicono di amarti, come lo dicono senza posa a tutti gli uomini, affinché non abbiano scuse”. Questo passo spiega che tutti gli uomini, non solo i filosofi, devono convincersi dell’esistenza di Dio perché chiunque può facilmente capire che Dio esiste, semplicemente osservando il mondo, il quale richiede evidentemente una causa adeguata che può essere soltanto Dio (cfr. Il Timone n. 16, cit.). Per dirla con il salmo 18: “i cieli narrano la gloria di Dio e il firmamento annunzia l’opera delle sue mani”.
San Tommaso fu personaggio di spicco delle università europee e probabilmente il più grande genio filosofico e teologico di tutti i tempi. Caposaldo del suo pensiero è che ognuno di noi è creato e continuamente mantenuto nell’essere dall’amore di Dio (anche quando si rivolta contro Dio), altrimenti scomparirebbe nel nulla, perciò dobbiamo corrispondere a Dio amandolo e amando coloro che egli ama, cioè gli altri uomini. Così, il suo programma di vita recita: “so di dovere a Dio, come dovere principale della mia vita, che ogni mia parola e senso parlino di Lui”.
Cartesio, padre della filosofia moderna, fu a sua volta un credente (quantunque il suo pensiero sia erroneo in molti aspetti), che individuava in Dio il garante della possibilità umana di conoscere il mondo. Ancora, Leibniz fu un altro importante filosofo credente, e dedicò molte energie ad un progetto ecumenico per riunificare le chiese cristiane.
Fu profondamente religioso anche Pascal, secondo cui “il supremo passo della ragione consiste nel riconoscere che c’è un’infinità di cose che la sovrastano”, cioè nel riconoscere che soltanto la fede dà all’uomo le risposte definitive.
Credente fu ancora Vico, che indagò molto il ruolo della provvidenza divina nella storia. Ma religioso fu anche Kant, che, sebbene rifiutasse (sbagliando) le dimostrazioni filosofiche di Dio, continuò a credere in Dio con la fede.
Anche Spinoza, Schelling ed Hegel furono convinti assertori dell’esistenza di Dio, che per loro coincide con il mondo. Quest’ultima tesi è sbagliata per varie ragioni, però, non solo sostiene l’esistenza di Dio, ma addirittura Lo rintraccia in tutte le cose. Anzi Hegel dice: affermare che non si deve pensare a Dio “è dire che non si debba ragionare. in effetti gli animali non lo fanno […] e perciò non hanno alcuna religione”. Profondamente religioso fu anche Kierkegaard, che caratterizza l’uomo proprio come interlocutore di Dio, che con Lui può intrattenere un rapporto personale.
Potremmo continuare oltre, ma ci fermiamo perché, come detto, non avrebbe senso fare un elenco.
Accenniamo solo che quei pochi filosofi che invece hanno negato l’esistenza di Dio (per es. Marx e Nietzsche) non hanno mai esibito una sola prova di ciò: hanno preteso di mostrare la genesi della credenza in Dio, ma non hanno mai esaminato la verità di tale credenza. Ne ripareremo in uno dei prossimi articoli.
Per concludere, quando l’uomo cerca la risposta ultima sui senso del mondo e della vita, allora la ragione umana tocca il suo vertice e si apre alla religiosità, che rappresenta l’espressione più elevata dell’uomo e sgorga dalla sua aspirazione profonda alla verità.

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Bibliografia
Giovanni Paolo II, Fides et ratio, 1998, in particolare i punti 16-48 e il capitolo sesto.
A.L. Gonzalez, Filosofia di Dio, Le Monnier, Firenze 1988, in particolare pp. 3-10.
Le Edizioni S. Paolo stanno pubblicando una collana che si intitola Scrittori di Dio, con una breve presentazione e una selezione antologica del pensiero degli autori che hanno soffermato la loro riflessione su Dio.
Non tutti gli autori scelti esprimono considerazioni condivisibili (quindi non si capisce come possano contribuire al Progetto culturale della Chiesa Italiana, di cui la collana è espressione), tuttavia alcuni di questi volumetti possono essere utili per formarsi una prima visione del pensiero su Dio dei filosofi. Segnaliamo a tal proposito la recente uscita del bel volume di M. Schoepflin, collaboratore del Timone, dedicato a Blondel.
A. Livi, La filosofia e la sua storia, Dante Alighieri, Roma 1996, vol. I, pp. 7-8.

Da “Il Timone” n. 21, Settembre/Ottobre 2002.

giovedì 14 aprile 2016

Aragorn, la forza del sangue di un Re

di Isacco Tacconi

Come può un uomo dimostrare il suo valore? Da cosa conosciamo la sua virtù? Seguendo la philosophia perennis risponderemmo: dalle sue azioni, in virtù del postulato metafisico «agere sequitur esse». Una verità espressa da San Francesco d’Assisi con queste semplici parole: “tanto sai quanto fai” per insegnare che il valore, il prezzo di un uomo si valuta in base alla sua virtù, al bene che egli compie e si sforza di compiere in un combattimento virile e diuturno.
Parlare di Aragorn vuol dire, a mio avviso, parlare del “Tutto”, ossia avventurarsi nelle profondità della spirituale fatica della vita cristiana fino alle più alte vette del Mistero del Verbo Incarnato; dalla essenzialehumilitas – costituzione fondante e irriducibile – della humanitasall’insondabile e ineffabile altezza del Cristo; dalla debolezza dell’umano volere allo sconfinato potere della Grazia. Ci vorrebbe, a mio avviso, un trattato di teologia mistico-ascetica per trarre i molteplici significati che questo personaggio racchiude e riflette come un prisma ottico. Per questo motivo ho ritenuto più opportuno procedere “a braccio” non per presunzione ma, al contrario, proprio per mancanza di mezzi ma anche, e soprattutto, perché prediligo una trattazione appassionata, personale, intima e vera ad una, seppur precisa, apaticamente “scientifica”. In proposito devo dire che gli scritti di Newman hanno influenzato in maniera non poco decisiva la presente impostazione. Preferisco, non me ne vogliano gli esperti tolkieniani, muovermi sul piano del cuore e del sentimento e non su quello freddamente accademico e, per così dire, della “lettera morta”. In fondo, la modalità più efficace e fruttuosa di conoscere, ritengo sia quella di amare l’oggetto della conoscenza più che la conoscenza in se stessa e per se stessa secondo quanto dice con semplice e penetrante profondità, sant’Alfonso Maria de’Liguori: «Chi più ama Dio, più lo conosce. “Amor notitia est”, diceva san Gregorio. E sant’Agostino: “Amare videre est”». Non credo che Tolkien approverebbe il modo di fare di quei cristiani che imparassero tutta la toponomastica e le genealogie della Terra di Mezzo a memoria e poi trascurassero di vivere nella propria vita il coraggio di Boromir, l’umiltà di Sam, la prudenza di Gandalf o l’abnegazione di Frodo. I circoli tolkieniani dove si conoscono a memoria tutte le locande della Terra di Mezzo o i nomi di tutti i personaggi del Silmarillion ma si ignora ed anzi, si combatte la Fede Cattolica sono un’offesa al loro autore. Studiare, analizzare, classificare l’opera di Tolkien prescindendo dalla sua fede intima, semplice e profonda come le radici che non gelano, è come, salvando le dovute differenze, analizzare la Sacra Scrittura da atei-razionalisti: non si potrebbe mai penetrare l’essenza sottesa a quelle parole ordinate in forma di racconto. È un po’ quello che succede a coloro che, ammirando la bellezza della Crocifissione di Giotto o ascoltando lo Stabat Mater di Pergolesi, restano colpiti dai colori e dalle forme, dall’espressività palpabile dei personaggi, dalla musicalità e dall’ordine delle note che sprigionano un pathos che tocca le corde più profonde dell’anima ma non scendono più in profondità a chiedersi quale ne sia la causa, da dove sgorghi quella bellezza così a noi intima quanto sconosciuta. Soltanto se conoscessimo la fede che guidò quelle mani e quell’orecchio capiremmo quanto di divino e sovrumano c’è in quelle opere tanto da renderle immortali, fisse, quasi eterne e di certo non ascriveremmo la loro bellezza soltanto alle capacità tecniche dell’artista.
Se esiste un qualche modo a questo mondo di onorare l’umile e straordinaria opera di John Ronald Reuel Tolkien, credo sia quello di mostrare la superiorità della morale cristiana sull’agire – quantunque il più elevato – naturale umano. “Che ti serve – domanda il beato Tommaso da Kempis – saper discutere profondamente della Trinità, se non sei umile, e perciò alla Trinità tu dispiaci? Invero, non sono le profonde dissertazioni che fanno santo e giusto l’uomo; ma è la vita virtuosa che lo rende caro a Dio”. Non è, infatti, il grado di conoscenza dei dettagli che ci permette di conoscere il tutto, ma l’amore che si ha per il Tutto e, in esso, di tutti i suoi dettagli, anche di quelli che si ignorano, per il solo motivo che appartengono a Lui. Dio non potremmo mai comprenderlo neanche in Paradiso nella visione beatifica, neanche gli angeli lo potranno, eppure quanto più lo si ama tanto più lo si penetra, tanto più lo si gusta tanto più lo si conosce e, conoscendolo lo si ama ancor più in un circolo ascendente di contemplazione amorosa che nessuna penna umana è capace di descrivere.
In ultima istanza, per conoscere adeguatamente e apprezzare profondamente Tolkien bisognerebbe amare ciò che lui amava, sperare ciò che lui sperava, pregare come lui pregava, in altre parole, mettersi alla ricerca della Fonte della Vita. Quella Plenitudo Gratiarum, Maria sempre Vergine, la cui devozione Tolkien nutrì con la semplicità e spontaneità di un figlio; Pienezza di Grazia, dicevo, da cui si schiuse quasi un raggio di quella Bellezza tanto antica e tanto nuova che costituisce quell’aura calda e discreta che circonfonde l’epopea della Terra di Mezzo.
Ma sarà meglio terminare qui la, pur doverosa, premessa ed attraversare decisamente il fiume Brandivino per avventurarci nelle Terre Selvagge, non senza aver prima attraversato la terra di Buck e la Vecchia Foresta con la sola guida della Divina Provvidenza: non si sa mai una scorciatoia per i funghi, imboccata “per caso”, quali inaspettati incontri possa favorire…
Grampasso, un ramingo del nord, incappucciato, mezzo avvolto dalla semioscurità della locanda del Puledro Impennato in un crepuscolo avanzato, quasi notte, freddo e piovoso mentre ombre oscure si avvicinano silenziose da Est. Fuma la sua lunga pipa, gli occhi coperti ma ben attenti, celati dal cappuccio impolverato da un lungo viaggio scrutano la sala e gli avventori in cerca di qualcuno. Il suo aspetto a primo impatto non ispira fiducia, tutt’altro, sembrerebbe quasi un malvivente o comunque uno straniero poco amichevole. “Si alzò in piedi e parve all’improvviso diventare altissimo. Nei suoi occhi ardeva una luce penetrante e autoritaria. Scostando la cappa, mise la mano sull’elsa di una spada che pendeva al suo fianco dissimulata dalle pieghe del manto…abbassando verso di loro [gli hobbit] un viso improvvisamente addolcito da un luminoso sorriso. «Io sono Aragorn figlio di Arathorn; se con la vita o con la morte vi posso salvare, lo farò»”. Sia sufficiente questa breve descrizione per immaginarci il tipo che ci troveremmo innanzi se fossimo noi a doverci incontrare con Gandalf a Brea per muoverci, insieme con lui, verso Granburrone. Un simile personaggio corrisponde più o meno ad un guardiano, un cercatore selvaggio, un «wild rover» più abituato a vivere in mezzo agli animali della selva che con gli uomini, nella solitudine anziché nel villaggio, in pellegrinaggio piuttosto che nella stabilità di un focolare. L’immagine che ne emerge è quella di un anacoreta, di un guerriero solitario che dopo aver appreso dalla sua comunità d’origine, i Dùnedain, a combattere da monaco cenobita può diventare un guerriero eremita nel mondo, come l’Abba Gandalf e gli altri Istari. A questo proposito mi piace inquadrare i raminghi del nord secondo quanto la Regola di San Benedetto attribuisce agli eremiti; essi sarebbero «coloro che non sono mossi dall’entusiastico fervore dei principianti, ma sono stati lungamente provati nel monastero, dove con l’aiuto di molti hanno imparato a respingere le insidie del demonio; quindi, essendosi bene addestrati tra le file dei fratelli al solitario combattimento dell’eremo, sono ormai capaci, con l’aiuto di Dio, di affrontare senza il sostegno altrui la lotta corpo a corpo contro le concupiscenze e le passioni» (Regula c. I, vv.3-5).
Per una larga parte del racconto, Aragorn è conosciuto più come Grampasso che come l’erede di Isildur eppure questo ramingo del nord, avvolto in umili vesti, è colui che indossa il diadema del Re. Egli è colui che è destinato a prendere possesso del trono di Gondor e ristabilire la legittima monarchia sul più antico regno degli uomini della Terra di Mezzo. I sovrintendenti, dovranno cedere il passo a Grampasso, dovranno consegnare la sua eredità, dovranno restituire il talento loro affidato perché il Re di Gondor ristabilisca ogni cosa nell’ordine e nella giustizia di un tempo. Un pellegrino guerriero rivendica ciò che è suo, uno che ha passato la sua vita senza avere dove posare il capo, dovrà fissare la sua dimora e renderla stabile per sempre. Invisibile protettore delle genti, il ramingo e fuggiasco che ha speso la sua vita a difendere i confini della Contea e a combattere guerre per cui nessuno dimostrerà mai gratitudine deve ora farsi innanzi per fronteggiare il Male a viso aperto, non tanto per se stesso quanto per il bene degli altri. Nel personaggio di Aragorn vediamo via via che la trama si va definendo uno sviluppo del suo ruolo, un crescendo anche psicologico che lo conduce verso una maggior presa di coscienza della propria identità, potremmo dire, della propria “vocazione regale”.
È significativo che la nobiltà in Tolkien sia legata non solo alla bontà del cuore, cosa che prende forma nelle figure di Frodo e Sam, ma anche al sangue ossia al casato e alla stirpe carnale, e ne vedremo il perché. Il sangue reale come un patrimonio mai interrotto si trasmette di padre in figlio nelle alterne vicende del mondo. Le genealogie sono estremamente importanti per Tolkien: Aragorn si conosce in quanto figlio di Arathorn discendente di Isildur. La Tradizione mai interrotta, seppur occultata, è la garanzia dell’autorità legittima dell’erede al trono, il valore del suo sangue risiede nella sua antichità ossia nella sua diretta dipendenza dall’origine regale. Ma esso, nel corso del tempo, è stato certamente offuscato se non addirittura obliato dalla quasi totalità dei popoli che brancolano senza guida nella confusione e nella gretta empietà che tutto conduce all’autodistruzione, favorendo l’avanzata delle nere armate delle tenebre. In questo ceppo sanguigno che attraversa la storia si comprende come il Re sia tale anzitutto per diritto di natura, non c’è nessun’altro che possa vantare per sé il trono di Gondor che, altrimenti, sarebbe destinato a restare vuoto. Una possibilità questa che farebbe gola a molti custodi del tempio di Gondor e, oggigiorno, ai custodi del tempio di Cristo che è la Chiesa i quali, piuttosto che cedere la regalità a Colui che solo ne ha il diritto preferiscono volgersi al Palantìr per chiedere a “qualcun altro” quel potere agognato che, non li renderebbe veramente dei re ma delle patetiche e maligne caricature regali. Costoro non si curano dell’eredità, diremmo noi del gregge, loro affidata, non pensando che un giorno il Gran Re tornerà sulle nubi del cielo con il vessillo della Croce spiegato come nella raffigurazione scultorea che domina su Roma dalla facciata di San Giovanni in Laterano. Essi vivono per l’oggi, chiudendosi come disperati barricati dentro la sala del trono per impedire che il Re, il Vero Re, il Re della Gloria alzando le porte antiche la riconquisti, e li scacci fuori nelle tenebre esteriori. È questa la tentazione di Boromir e il peccato di Denethor che conduce inevitabilmente quest’ultimo alla pazzia e alla morte: chi non è come Dio ma brucia dal desiderio sciagurato di esserlo finisce col bruciare tra le fiamme dell’immane caos della notte eterna, e tale sarà, di fatti, l’ingloriosa fine di Denethor, sovrintendente-pastore di Gondor.
Abbiamo già compreso forse dove una tale simbologia voglia condurci: alla cristologia implicita di Aragorn, ma questo era facilmente prevedibile. Egli è il Gran Re che rivendica a sé il trono, avanza brandendo la Spada che anticamente aveva ferito e umiliato il Nemico delle anime. La spada spezzata segno di una stirpe stroncata a causa della colpa di colui che avrebbe dovuto superare la prova della tentazione sul Monte Fato e che, fallendo, trascinò con sé nella rovina tutta la sua discendenza. Ma un germoglio, un virgulto, una gemma di quella stirpe doveva essere il nuovo inizio. Da quell’albero secco di Minas Tirith il fiore della Grazia sboccia piccolo e discreto, mentre la civitas hominis va in fiamme. L’umanità ferita, come una spada rifusa nel crogiuolo e ricomposta più forte e splendente, viene ricostruita con il fuoco e la grazia, e brandita dall’unico capace di renderla letale per l’Oscuro Signore. Non è un caso che l’eroe per eccellenza dell’epopea della Terra di Mezzo sia un uomo e non un elfo, non cioè una creatura quasi angelica, disincarnata, a noi aliena ma è un uomo il cui sangue è al contempo umano ed elfico, mortale e immortale, un rimando, forse implicito, all’unione ipostatica del Verbo Incarnato il quale “pur essendo di natura divina non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2,6-8).
Di fatto, notiamo un aspetto determinante e singolare nella psicologia di Aragorn: egli non vuole il trono. È questo un peso che lui deve portare, al pari di Frodo, malgrado se stesso. Non agogna il potere né il dover assumersi il peso e l’ingratitudine di popoli meschini che non lo vogliono come Re. Codesto sarà il secondo “fardello” del racconto, non esplicitato ma chiaro, latente eppur determinante. È questo il destino dell’erede di Isildur, la Divina Provvidenza lo ha disposto in maniera mirabile ed egli, da vero cristiano, da autentico cavaliere di Cristo, lo accetta, lo abbraccia come Nostro Signore Gesù Cristo nell’agonia del Getsemani. Il Gran Re, vero Dio e vero Uomo supplica il Padre di allontanare da sé il calice della Passione a motivo dell’ingratitudine e la perdizione di molti uomini che non profitteranno della sua Redenzione e, per i quali, quel Sangue Reale, preziosissimo quanto necessario al Sacrificio sarà versato in vano, anzi, per la loro rovina.
L’umanità di Aragorn si mescola alla sua origine, per così dire, “divina” in una complessità psicologica al contempo tormentata e nobile; un personalità introspettiva simile a quella di Agostino d’Ippona cui competé l’onere, suo malgrado, dell’episcopato, strappato alla solitudine della contemplazione perché si prendesse cura dei suoi sudditi. Afflitto dal peso che su di lui è ricaduto, il Re Ramingo procede guidato da un’invisibile forza che tutto dispone, anche il male, per il maggior bene dei giusti.
“Deus, qui humanæ substantiæ dignitatem mirabiliter condidisti, et mirabilius reformasti: da nobis per huius aquæ et vini mysterium, eius divinitatis esse consortes, qui humanitatis nostræ fieri dignatus est particeps, Jesus Christus Filius tuus Dominus noster”. Una tale commistione di acqua e di vino, di humus et divus, costituisce la ricapitolazione della creazione e della redenzione perfettamente concluse e sintetizzate nell’unica Persona al contempo umana e divina del Cristo, perfetto Dio e perfetto Uomo, la cui doppia natura soltanto poteva procurare a noi la salvezza; in quanto Dio ci ha meritato una salvezza eterna ed efficace, in quanto Uomo ha ricostituito in giustizia la razza umana perché fosse resa atta a ricevere tale salvezza e riabilitata a prendere parte alla divinità come e più che non al Principio.
Ma c’è un’altra nota molto bella e significativa che distingue la figura di Aragorn, ossia quella definizione che nel libro suona quasi come una profezia secondo cui “le mani del re sono mani di guaritore”. Il fatto che un re cristiano, consacrato con un rito d’incoronazione che costituiva un sacramentale era, nell’evo cristiano, considerato come la condizione per cui il re, in virtù della sua regalità, possedesse poteri taumaturgici, ossia di guarigione e di esorcismo. E questo si è dimostrato vero non poche volte nelle vite di re santi, di regine e principesse sante. Certo la regalità non agiva ex opere operato come un sacramento ma, appunto, come un sacramentale cioè ex opere operantis. Una tale concezione la ritroviamo in Aragorn, figura e immagine di Cristo Re “il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui” (At 10,38). Un aspetto questo che ritengo la versione cinematografica abbia reso abbastanza fedelmente ed efficacemente, ossia la capacità di Aragorn di guarire le ferite del maligno e dei suoi emissari oscuri in quanto eletto e consacrato re già dal suo sangue. La facoltà che egli possiede di guarire le ferite inferte dall’Oscuro Signore, utilizzando per giunta l’atelas, non a caso «foglia di re», è un segno chiaro della sua unzione regale da cui si può cominciare a riconoscere in lui l’erede di Isildur, un po’ come Nostro Signore attraverso il suo potere di guaritore ed esorcista svela progressivamente la sua natura divina.
La regalità assoluta di Aragorn si mostra però non solo sul regno dei vivi ma anche su quello dei morti. Perché nel Suo nome ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; il suo sangue è il lascia passare per il regno dei morti, la via del Dimholt, il sentiero sotto la Montagna, un regno di sofferenza e di attesa, quasi un purgatorio dove coloro che non saldarono i conti a tempo dovuto, finché erano in vita, ora devono pagare fino all’ultimo spicciolo la loro infedeltà e vigliaccheria. In una discesa anastatica al limbo, il Rex omnium hominum promette a quelle ombre tristi e prigioniere libertà e pace, il riposo delle anime loro ma solo dopo che avranno contribuito al bene dei vivi. Una sorta di trasposizione fantasiosa della comunione dei santi in cui le anime sante e sofferenti del purgatorio le quali, nulla potendo più per se stesse, possono però molto per i vivi e, tramite la riconoscenza e carità di questi, abbreviare la loro permanenza sotto la dantesca montagna che conduce attraverso un’ascesa catartica alle prime sfere dell’Empireo. Un circolo di carità che unisce i vari strati dell’essere e i differenti livelli della vita in tempore et in aeternitatis, tenuti insieme dal solo sangue del Re dei vivi e dei morti, al cui giudizio né gli uni né gli altri potranno sottrarsi: “et iterum venturus est cum gloria iudicare vìvos et mòrtuos”.
E come non parlare, infine, di quell’amore tra il Nostro Re e quella donna immortale, figlia di una stirpe non umana, superiore e sacra, cioè separata, che porta il malinconico nome elfico di «Undòmiel», la Stella del Vespro. Nessun nome è casuale in Tolkien e il fatto che questa figlia di elfi sia chiamata «Stella del Vespro», richiama alla mente una luce che comincia a splendere nella notte mentre il suo chiarore si confonde col crepuscolo del sole ormai quasi scomparso dietro la linea dell’orizzonte. La razza degli elfi è al tramonto, il loro scopo in questo mondo è terminato ed ora questi primogeniti dei Valar lasciano il posto agli uomini, ma non abbandonano il mondo senza lasciare traccia del loro passaggio. Lasciano all’umanità nientedimeno che una luce del loro popolo, una gemma preziosa si offre spontaneamente: resta per amore di un uomo, per amore del Re rinunciando ai privilegi della sua razza, una personificazione dell’amor cortese che esprime, allo stesso tempo, anche il Mistero dell’Incarnazione nell’Emmanuele, il «Dio con noi». Arwen ed Aragorn in definitiva rappresentano un’unità indissolubile, un connubio ossia una commistione umano-divina che prolunga nel mondo la grazia degli elfi, la bellezza, la saggezza, la luce e quell’immortalità dei figli di Dio che costituisce il segno dell’origine e del destino di beatitudine eterna non più riservato ai soli elfi, che escono di scena, ma ora, grazie ad Aragorn e al suo matrimonio con Arwen, anche agli uomini.
Prepariamoci, dunque, al Ritorno del Re perché Egli avanza seppur nascosto qual ramingo, giusto samaritano, disprezzato dagli uomini e desiderato dalle genti, si avvicina e non tarderà. Porta con sé il premio, ma lo precedono i quattro cavalieri dell’Apocalisse, Fame, Morte, Guerra e Pestilenza. Soltanto dopo l’estrema battaglia alle soglie del Nero Cancello al termine di questa nostra breve vita, se avremo perseverato con Cristo, meriteremo di essere accolti nel sala del Trono ed ammessi, quali commensali, al banchetto dei cavalieri che hanno condiviso con il Re la fatica della lotta, il dolore delle privazioni insieme al piacere della sua compagnia, che allora non sarà più la Compagnia dell’Anello ma il festante coro dei beati nella cui gloriosa compagnia non dovremo più vergognarci.

mercoledì 13 aprile 2016

Darwinismo e Dottrina Cattolica

Il fisico padre Paolo De Lisi, sacerdote missionario di Maria, espone le te­si di fondo della teoria evoluzionista di Darwin e del neodarwinismo, a partire dalla «selezione naturale», accompagnandola con le af­fermazioni più recenti di scienziati di varie branche della biologia che, con­tro l’opinione comune che ritiene ormai assodate e vere le concezioni dar­winiane, ne evidenziano i punti deboli e superati, intendendo l’evoluzione come dovuta a fattori interni agli organismi più che ambientali. L’autore richiama poi il fatto che anche la Chiesa condanna il darwinismo, ma non l’idea di evoluzione, che sul piano scientifico, conclude lo studio,resta pe­raltro una mera ipotesi probabile.
Dai documenti del Magistero risulta chiaro questo principio: esclusi alcuni punti inaccettabili – che niente hanno a che fare con la vera scienza – non c’è contraddizione tra la dottrina della creazione e le tesi evolutive, purché rettamente insegnate. Attualmente, rileva De Lisi, i reperti fossili non con­sentono di stabilire se l’evoluzione della specie umana sia monogenetica o poligenetica (da una sola coppia o da un gruppo di individui), sicché non viene meno il valore di verità della dottrina tradizionale cattolica del pec­cato originale commesso dal primo uomo e trasmesso ai discendenti per propagazione genetica. Del resto, l’analisi del genoma umano e del Dna mitocondriale ha offerto indizi scientifici a favore del monogenismo. Clicca qui per continuare a leggere.

martedì 12 aprile 2016

Resurrexit, un capolavoro di Arte e Cultura Religiosa

di Domenico Bonvegna

Il 2 e 3 aprile scorso al Teatro “Val d'Agrò”, di Santa Teresa di Riva, nella riviera jonica messinese si è tenuta una spettacolare opera teatrale, Resurrexit,“Il mistero pasquale di Cristo”, un recital sulla Passione, Morte e Resurrezione di Gesù. Protagonisti e autori di questo interessante spettacolo sono stati la Compagnia teatrale Sikilia (Teatro, Musica, Danza), diretta dalla prof.ssa Cettina Sciacca, la Corale Theotokos, guidata da Sergio Micalizzi e un gruppo di musicisti solisti della Banda Musicale, “V. Bellini”, guidati dai maestri Carmelo Garufi e Antonio Pizzi.  Poi ci sono i tecnici che hanno curato la scenografia, con il direttore Christian Martorana, i costumi, la sartoria e i video. Il tutto è stato coordinato da don Roberto Romeo.
L'opera teatrale è nata da un incontro singolare fra padre Roberto Romeo, artefice del recital insieme al giovane Micalizzi e l'artista Cettina Sciacca, che ha accolto la proposta del sacerdote che tra l'altro è anche uno studioso e autore di testi di storia greco-bizantina. In pratica afferma don Roberto, Resurrexit è nato tra la sacrestia della parrocchia santateresina di Portosalvo e il teatro Val d’Agrò”.
Per portare il capolavoro artistico in scena c'è voluto un duro e serio lavoro di ricerca, di studio e di preparazione, il progetto ha avuto dei costi notevoli, basti pensare che sono stati coinvolti tra attori, cantanti, musicisti e tecnici, ben 62 persone.
La Resurrezione al centro del mistero pasquale.
Per don Romeo,Resurrexit, a differenza delle altre numerose rappresentazioni delle Passio, è tutto costruito in funzione della Resurrezione. I fatti della Passione e Morte costituiscono una grande introduzione al momento della Risurrezione abitualmente tralasciato, forse a motivo della difficoltà di coglierne i caratteri fisici come pure i tratti teologici ed antropologici. Il merito del lavoro che qui si presenta è proprio questo: cogliere la dimensione resurrezionale, inscindibilmente legata a quella della Passione, come il culmine del manifestarsi di Dio all’uomo, completezza della rivelazione biblica”.“Resurrexit, perciò, - continua il sacerdote -, non è un concerto sic et simpliciter e neppure una rappresentazione teatrale; vuole essere piuttosto un modo originale di presentare il mistero pasquale di Cristo mediante il ricorso a diverse discipline artistiche: musica, canto, prosa, poesia, omiletica, arte figurativa”.
Peraltro la sacra rappresentazione è stata arricchita dall’inserimento di alcuni brani in dialetto siciliano (Ah sì, versate lacrime! e Preghiera alla Vergine) e di significative immagini a tema di artisti locali: Antonello da Messina (Crocifissioni e il Cristo morto sostenuto da un angelo) ed Enico Salemi (Croce biblico-teologica della parrocchia Santa Maria di Portosalvo in Santa Teresa di Riva). Queste raffigurazioni, insieme alle numerose altre immagini appositamente selezionate, tratte da pittori e scultori fiamminghi, rinascimentali e moderni, hanno dato colore e spessore artistico-culturale a Resurrexit. Ugualmente si può dire della proiezione di alcuni tratti di note produzioni cinematografiche: Gesù di Nazaret di Franco Zeffirelli, The Passion di Mel Gibson e altri lavori.
Resurrexit nel solco della traditio cristiana.
Il recital si apre proprio con la lettura (il prologo) di padre Roberto di un passo dell'”Omelia sulla Pasqua di Melitone di Sardi (II secolo), mentre sullo sfondo scorrono le immagini dell'agnello immolato.
Poi inizia il recital che si divide in quattro momenti: il 1° l'Ora della Passione; il 2°, l'Ora della Morte; il 3°, l'Ora di Maria; il 4°, l'Ora della Pasqua. Certo non intendo proporre il copione di Resurrexit, ma credo sia doveroso presentare in sintesi alcuni momenti della splendida manifestazione. Scene e narrazioni si svolgono tutte sul Palco del teatro. L'introduzione viene fatta da Maria, magistralmente interpretata da Cettina Sciacca, la madre di Gesù, che squarcia il silenzio e inizia a narrare i fatti della passione del Figlio. La Sciacca in pratica svolge il ruolo di guida che introduce i vari momenti dell'opera, ma nello stesso tempo recita e interpreta il personaggio dominante che è Maria. Chiaramente tutti gli altri personaggi, tutti appartenenti alla Compagnia, da Pietro a Pilato, interpretati da Alfredo Scorza e Maurizio Leo, compreso lo stesso Gesù, ruotano intorno a Maria. L'Ora della Passione inizia con il canto, E lo credemmo abbandonato da Dio”. Siamo all'Ultima Cena, sul palco ci sono gli apostoli e Gesù, ben interpretato da Diego Cucuzzella. Il 2° momento inizia con la musica del canto,“l'orme sanguigne”, dopo il processo a Gesù, Pilato, ordina ai soldati di flagellarlo.
In questo frangente viene proiettato il video sulla crocifissione e morte di Gesù, con la deposizione, realizzato sulla collinetta (il Calvario) che domina l'artistica cittadina di Savoca che si presta molto per queste manifestazioni, la musica di sottofondo è“La via dei martiri”. Tra la fine del 2° e l'inizio del 3°momento, Maria con il sottofondo musicale, di un coro greco, con veli e mantelli neri, recita la preghiera a Gesù Crocifisso, tratta dal Rosario al “Patri ri li grazij” di Ciminna (PA). Gesù miu appassionatu, a la Cruci fustivu ‘nchiuvatu lu me cori è accussi ‘ngratu ca ‘un chianci lu me peccatu. Jò ti vegnu a visitari, Redenturi ‘un m’ abbannunari. E lodamu lu Redenturi. E lodamu sempri e spissu, a Gesù lu Crucifissu”.
Poi viene portato in scena Gesù morto, avvolto in un lenzuolo, e deposto sulle ginocchia di Maria. Nel momento del canto“Lodi a Cristo”, scorrono le immagini della “Pietà” di Michelangelo. Con la statua dell'Addolorata e la Croce sul palco su tre leggii, Maria, Gesù e il Nunzio eseguono la drammatizzazione del testo Donna de Paradiso” di Jacopone da Todi (XIII secolo). Nel video scorrono alcune frasi chiave del testo di Jacopone, tradotte in italiano corrente.
Alla fine della drammatizzazione, gli attori introducono i segni della Passione e li consegnano a Maria, seduta ai piedi della croce, che li depone ai piedi del patibolo. Nel frattempo scorrono delle immagini relative alla Deposizione e a Maria. Inizia, intanto, il canto “Stava Maria dolente”.
Dopo il canto, Maria si alza, sale sulla pedana, sveste gli abiti della Madre di Gesù assumendo quelli di una donna del popolo; si avvicina alla statua dell’Addolorata, l’abbraccia e prega la Vergine. Mentre il coro continua ad eseguire, ma a bocca chiusa, il canto “Stava Maria dolonte”. A questo punto, Maria recita la “Preghiera alla Vergine”:“Santa Virgini, vui matri puru fustivu d’un figghiu, chi vulennulu lu Patri cu la manu e lu cunsigghiu da l’artigghiu di la morti libirau l’umanità. Chissu vostru figghiu duci fu di spini ‘ncurunatu. Supra un troncu riu di cruci lu vidistivu oltraggiatu e ammazzatu. Ma, a la fini, si muriu, risuscitò. Iddu o’ matri avvinturusa, vivu ancora avi ‘à turnari Chista grazia purtintusa di lu so’ risuscitari S’avi a fari!!! O lu figghiu, o ‘n mi movu cchiù di ccà!! O lu figghiu, o ‘n mi movu cchiù di ccà!!”.
Il recital si conclude con il 4° momento, la Resurrezione del Signore dove viene introdotta la musica della sequenza “Victimae Paschali”. Intanto viene proiettato il video sul momento della Resurrezione, realizzato a Savoca. Gli ultimi momenti del recital sono dedicati a Gesù che parla con i due discepoli di Emmaus.
Il Teatro uno strumento per evangelizzare.
Naturalmente la visione di questo straordinario spettacolo storico culturale e religioso si presta a delle considerazioni e riflessioni, soprattutto per chi è impegnato nella nuova evangelizzazione. E' possibile attraverso il teatro veicolare il messaggio evangelico? Dopo la visione di Resurrexit di sabato sera a S. Teresa, rispondo di si. Tra l'altro il recital ha avuto un successo clamoroso, seguito da un numeroso pubblico che ha ringraziato gli attori con applausi prolungati, erano presenti  alcuni sacerdoti. A questo proposito sarebbe una buona cosa poter replicare il recital nelle parrocchie, magari nelle feste patronali estive, invece di scervellarsi per trovare cast più o meno adatti alle feste religiose.
Del resto la Chiesa nella sua lunga storia ha sempre utilizzato varie forme di comunicazione sociale per evangelizzare, penso soprattutto all'arte, alla musica, al cinema, allo sport, ma anche al teatro. La Chiesa nonostante le calunnie avanzate da certi gazzettieri più o meno illuminati, è stata sempre all'avanguardia, per esempio,Vittorio Messori, scrittore cattolico, sostiene che quando Gutemberg scoprì i caratteri mobili della stampa, il papa di allora mandò subito dei monaci a Magonza in Germania per apprendere il nuovo metodo di scrittura. Le manifestazioni teatrali sono stati utilizzati sempre dagli uomini di Chiesa, fin dal Medioevo, dove fiorirono forme teatrali spontanee, con gruppi di attori o di interessati alla trasmissione del messaggio evangelico. La Chiesa intuì la grande capacità comunicativa e coinvolgente di queste forme di comunicazione.
Esempi di spettacoli teatrali che portano a Cristo.
Mentre preparavo questo intervento su Resurrexit, ho trovato un interessante studio sull'argomento, di una docente dell'Università per Stranieri di Perugia, Dianella Gambini, (Il Teatro come strumento dell'evangelizzazione francescana). La studiosa dà conto di come i francescani iberici utilizzavano abbondantemente le rappresentazioni teatrali per evangelizzare gli indios della Nuova Spagna, in Messico. Si intendeva trasmettere in forma piacevole il dogma religioso e gli insegnamente della Morale cristiana. Naturalmente oltre agli altri momenti della Storia di Gesù, come la Natività, si prestava molto la Passione di Nostro Signore Gesù e la sua Resurrezione.
Seguendo il modello di S. Francesco impiegavano il dialogo e la visualizzazione di immagini come mezzi per imprimere nella memoria degli ascoltatori il messaggio religioso. Del resto già S. Francesco, scrive la Gambini,aveva compreso che la predicazione non poteva esaurirsi nell'omelia pronunciata dal pulpito; allo scopo di stabilire una piena comunicazione con gli ascoltatori, egli utilizzò diversi mezzi fra i quali la musica, il canto e l espressione drammatica. Il poverello d Assisi compose e musicò delle laude che chiedeva ai frati di cantare per preparare le persone all'ascolto della parola del Vangelo fra i primi eventi spettacolari del medioevo si annovera la ricostruzione drammatizzata della Natività a Greccio, la notte di Natale del 1223, ideata proprio dal santo”.
Molti furono i santi che utilizzarono le forme teatrali, il grande S. Giovanni Bosco puntava molto sul teatro come azione educativa privilegiata. Don Bosco addirittura vedeva il teatro come scuola di santità.E tuttavia il teatro promuove ancora altri valori: fa emergere qualità che gli stessi giovani non sanno di possedere; abitua a lavorare con sacrificio; mette gomito a gomito giovani e adulti coinvolti nello stesso progetto; è esercizio d’arte, di lingua, di dizione, di controllo e gestione del corpo; è esperienza di gioco, di attività sociale, controllo autocontrollo di emozioni; costruisce appartenenza, fondamentale per una crescita identitaria di ogni giovane; accumula ricordi belli, emozioni forti che accompagneranno i giovani per moltissimo tempo [...]Educando il giovane al teatro d’insieme, lo si educa alla socialità, alla collaborazione, al lavoro di gruppo. Non si può recitare “insieme” se non c’è volontà di accettazione degli altri e un corretto orientamento della propria aggressività. È attraverso la drammatizzazione che il ragazzo riesce a superare il complesso dell’altro che ascolta o che vede. In alcuni casi invece viene ridimensionato: le sue ingiuste pretese o l’individualismo vengono disciplinate dal gruppo o dal regista per raggiungere lo scopo d’insieme”. (Michele Novelli, Il Teatro “educativo” di don Bosco, Quaderni cannibali, maggio 2012, donboscoland.it)
Sul tema si è espresso anche Concilio Vaticano II con l'Istruzione Pastorale, “Communio et Progressio”, del 23 marzo 1971, che diede le direttive teoriche e pratiche sugli strumenti della comunicazione Sociale, tra questi gli spettacoli teatrali. Al paragrafo 4 dopo aver sottolineato l'importanza comunicativa del teatro, si sottolinea che“La Chiesa segue con simpatia e attenzione l'arte scenica, che nelle sue origini era strettamente legata a temi di carattere religioso. Questo antico interesse per i problemi del teatro deve animare anche i cristiani di oggi, per ricavarne tutto l'arricchimento possibile. Gli autori di teatro devono essere sostenuti e incoraggiati a portare sul palcoscenico la problematica religiosa moderna; questo è spesso un efficace incentivo a una ulteriore diffusione attraverso gli altri strumenti della comunicazione”.

E San Giovanni Paolo II dinanzi al "dramma della nostra epoca", cioè della frattura, fra Vangelo e cultura, ci invitava a portare il messaggio cristiano "nella cultura dei media". I mezzi di comunicazione sociale, infatti, hanno raggiunto una tale importanza da essere per molti il principale strumento di informazione e di formazione, di guida e ispirazione per i comportamenti individuali, familiari e sociali (Cfr. R.M., n. 37).

lunedì 11 aprile 2016

L'Isis a Palmira come i giacobini a Notre Dame

di Domenico Bonvegna

La Storia si ripete. Ci siamo indignati l'anno scorso quando abbiamo visto i miliziani jihadisti dell'Isis abbattere le statue e i resti archeologici di Palmira, nello stesso tempo abbiamo esultato quando le truppe del presidente Assad assistiti dai russi di Putin hanno riconquistato il sito archeologico. Molto si è scritto sui danni impressionanti che ha subito il sito archeologico, ad una settimana dalla fine dei combattimenti si contano i danni, lo ha fatto La Repubblica intervistando Mahmud, uno dei figli di Khaled al Assad, l'anziano archeologo ed ex direttore del Museo e del sito di Palmira, ucciso dai jihadisti per essersi rifiutato di rivelare dove erano state nascoste parte delle statue e gli oggetti preziosi. “[...]Un viaggio doloroso quello che comincia dalla piazza del Museo archeologico, centrato ripetutamente da colpi d'artiglieria (qui tutti assicurano che l'aviazione russa ha di proposito evitato di bombardare le zone, come questa, vicine al sito per evitare danni collaterali irreparabili alle vestigia), devastato e saccheggiato”. (A. Stabile, A Palmira con il figlio del martire del museo, 7.4.16, La Repubblica)
Si è scritto molto anche sui motivi religiosi o meglio ideologici per cui i jihadisti cercano sempre di cancellare il passato. Il Foglio a questo proposito ha intervistato Remi Brague, studioso medievista, erudita e poliglotta con cattedra alla Sorbona e a Monaco di Baviera, per cercare di capire l'odio islamista per la civiltà occidentale. Il professore ha risposto che è “Un odio che si riferisce a tutto ciò che non è islam”,“Tutto ciò che lo ha preceduto si chiama ‘ignoranza’, ‘gahiliyya’. Lo  Stato islamico ha così distrutto le statue del Museo di Mosul perché testimoniano uno stato precedente all’islam o diverso dall’islam. Gli islamisti, arrivati in Italia, distruggerebbero San Pietro; in Francia raderebbero al suolo la cattedrale di Chartres. Secondo il professore francese, “Si inizia con la consapevolezza di una schizofrenia in cui vivono i musulmani. La loro religione è intesa, secondo il Corano, come completamento delle precedenti religioni che andrà a sostituire. La loro comunità è ‘la migliore comunità’. (G. Meotti, La barbarie dell'Occidente, 6.4.16, Il Foglio)
Ergo il passato va cancellato, come hanno fatto i padri della furia iconoclasta, i giacobini della Rivoluzione Francese, che oltre a fare un bagno di sangue, hanno distrutto tutti i simboli del passato monarchico e cattolico. E' interessante ricostruire il percorso storico dei rivoluzionari francesi, c'è uno studio degli anni 80' del compianto Marco Tangheroni, storico, medievista, “Il ritorno dei re”. A proposito di una mostra fiorentina”, pubblicato dalla rivista Cristianità (Anno VIII, n. 66, ottobre 1980) che ha magistralmente descritto, quello che è successo in Francia. Il professore pisano parte dal ritrovamento casuale in Francia nel 1977, durante i lavori per l'ampliamento di una banca, di ventuno teste, insieme ad altri frammenti scultorei. Erano le teste delle statue dei re di Giuda, da Jesse a Giuseppe, situate sulla facciata di Notre Dame, decapitate dai giacobini nel 1793, subito dopo aver decapitato il re Luigi XVI.
La Mostra occasione provvidenziale per raccontare la verità storica.
Le statue sono state esposte nei chiostri di Santa Maria Novella a Firenze, sotto il titolo: “Notre-Dame de Paris. Il ritorno dei re”. La mostra per il professore Tangheroni diventa una provvidenziale occasione, non tanto per fare commenti specialistici, ma soprattutto per fare“emergere la verità storica rispetto ai due periodi forse più stravolti dalla storiografia rivoluzionaria: il Medioevo e la Rivoluzione francese. Il professore è convinto che il gesto dissacratore dei giacobini non fu “privo di grande significato, come si potrebbe credere, se paragonato agli orrori e al sangue di quel terribile periodo”. Infatti occorre evitare di fare la figura di chi è pronto a levare alte grida per qualche danno al patrimonio storico-artistico o ecologico e poi tace di fronte ai massacri dei cristiani nel mondo o dei bambini nel ventre materno, grazie alle leggi repubblicane in tutto il mondo. Invece,“il gesto distruttore permette di comprendere, nella sua intima essenza – che è essenza di odio – la Rivoluzione francese, la quale, a buon diritto, voleva essere, ed è considerata, la Grande Rivoluzione, la Rivoluzione per eccellenza, salto di qualità rispetto alle rivolte del passato e madre feconda di tutte le rivoluzioni a venire”.
Per il professore Tangheroni la decapitazione delle statue non fu un gesto casuale o isolato, ma fu“l'esecuzione di una precisa e burocratica decisione parlamentare”. Fu un gesto poi imitato in tutta Parigi, in tutta la Francia e successivamente in tutta Europa, nei territori raggiunti dalle armate rivoluzionarie e napoleoniche. Tra l'altro, “non mancheranno singolari riprese di quest'abitudine rivoluzionaria anche nell'epoca del Risorgimento italiano”, come hanno fatto in San Michele a Lucca, sostituendo alcuni capitelli con le immagini dei padri fondatori della Patria.
I giacobini francesi odiarono il sacro e la regalità, rappresentati dal cattolicesimo e dall'istituzione monarchica. Furono i rivoluzionari stessi a spiegarlo, del resto lo stesso architetto francese Viollet-le-Duc il grande restauratore dell'Ottocento, poteva mettere in bocca al protagonista di un suo romanzo, le motivazioni dei rivoluzionari: “Non dobbiamo lasciare allo sguardo del popolo, ormai liberato dalla tirannia e dalla superstizione, gli emblemi che gli ricordano la schiavitù sotto la quale ha tanto a lungo gemuto[...]il popolo intende sfigurare tutto ciò che gli rammenta un passato esecrabile, [...]Finchè resteranno in piedi un castello e una chiesa, i nobili e i preti avranno la speranza di riprendere il possesso di questi covi dell'oppressione. Finchè resterà un'immagine dei re di prima, o di santi di prima, resterà una traccia delle loro infame dominazione[...]la nazione deve dimenticare i re e i preti, questa vergogna dell'umanità[...]”
La Rivoluzione odia il passato.
“La Rivoluzione non odia soltanto un determinato e concreto passato, ma odia tutto il passato, cioè la memoria storica dei popoli”. E la distruzione “delle memorie visibili del passato nasce dall'assurdo e tragico desiderio di far tabula rasa [...] Si tratta di un desiderio assolutamente coessenziale all'utopismo rivoluzionario che, tendendo alla creazione di un mondo nuovo e di un uomo nuovo, deve necessariamente tentare di partire da zero”.  
Tuttavia secondo quanto ha sottolineato anche lo storico Francois Furet, i rivoluzionari francesi dell'epoca, quanto gli storici di tradizione giacobina, in particolare quelli marxisti, hanno visto e seguitano a vedere nella rivoluzione francese,“un avvento, come un tempo di un'altra natura, omogeneo come un tessuto nuovo”, è un concetto di inizio della storia, che si è visto con la rivoluzione comunista e ora si vede con il jihadismo islamista dell'Isis.
Chi si oppone alla Rivoluzione dev'essere annientato, vale per il popolo che per le città,“Tutto ciò che resiste e non vuole entrare nella macina repubblicana è condannato a scomparire”. E' successo per l'eroica popolazione vandeana, deportata in massa e per la deportazione di centinaia di preti. Per quanto riguarda le città, Tolone e Lione furono rase al suolo, si sono opposte alla Rivoluzione, quindi non devono più esistere. Peraltro proprio nel periodo della rivoluzione si sono manifestati quei tratti specifici della rivoluzione dell'arte moderna, che implicano, una “totale rottura con il passato: l'aspirazione alla purezza, il riconoscimento del dominio della ragione geometrica e tecnica, l'esaltazione sfrenata della libertà”.
“Rigenerazione” e terrore nei rivoluzionari.
I rivoluzionari giacobini francesi intendevano rigenerare il Paese, ecco perchè spesso utilizzano parole come purgare”, purificare”. Secondo Robespierre – il 'puro' della mitologia storiografica rivoluzionaria - occorreva assolutamente far scomparire 'l'orda impura' degli 'uomini perversi e corruttori”. Quante analogie con  gli ultra fondamentalisti islamisti a Raqqa nel Daesh. E' una rigenerazione che sfocia inevitabilmente nel Terrore, così come è stato per la Rivoluzione francese, come per quella russa, o per altre rivoluzioni. Per Tangheroni,“E' l'inesorabile fine totalitaria del liberalismo anticristiano”, a questo proposito cita la fondamentale opera dello storico Augustin Cochin, “Meccanica della Rivoluzione”, che descriveva in modo illuminante il totalitarismo giacobino:“Il popolo, servo sotto il re nel 1789, libero con la legge nel 1791, diventa padrone nel 1793 e, giacchè è lui che governa, sopprime le libertà pubbliche che erano solo garanzie a suo favore contro coloro che governavano. Sono sospesi il diritto di voto perchè il popolo che regna; il diritto di difesa, perché è il popolo che giudica; la libertà di stampa, perché è il popolo che scrive; la libertà di opinione, perché è il popolo che parla;limpida dottrina di cui i proclami e le leggi del Terrore sono soltanto un lungo commentario”.
Sostanzialmente chi tenta di realizzare il progetto utopico-rivoluzionario, siano essi i giacobini, i comunisti, ora i jihadisti, vede negli ostacoli sia umani che materiali solo degli avversari e così la“ghigliottina diviene lo strumento che separa i buoni dai cattivi, i rigenerati o rigenerabili dai non rieducabili, gli amici del popolo dai traditori”. Ecco che vengono inventati i complotti in rapida successione, per comodità:“è più facile ghigliottinare un nemico del popolo che un nemico di Robespierre o un avversario della nuova filosofia”. Dunque vengono ghigliottinate le statue dei re, sicuramente non rieducabili e degni di essere ghigliottinati.
L'odio rivoluzionario contro la cattedrale.
Alla fine dello studio, il professore Tangheroni, si pone una domanda abbastanza interessante: “perchè tanto odio proprio contro le cattedrali?” Indubbiamente perchè sono al centro del culto cristiano, sentito come potentissimo ostacolo alla Rivoluzione. Ma per Tangheroni si possono fare ulteriori considerazioni:“la cattedrale è il segno dell'unità perduta del corpo sociale intorno alla Verità cristiana e alle istituzioni cristiane”. Peraltro in uno dei testi di allora, della Mostra fiorentina si spiegava cos'era e cosa rappresentava un cantiere per la costruzione di una cattedrale come Notre-Dame: dopo aver spiegato la complessità che comportava la costruzione architettonica di una cattedrale, con il cantiere da predisporre, con centinaia di operai, decine di artigiani-artisti, tutti lavoravano insieme“ sotto la direzione del potere politico o religioso di cui i capomastri o gli architetti, laici o ecclesiastici che fossero, erano l'espressione più diretta”.
In pratica, il cantiere offriva,“un paradigma di quel sistema corporativo e gerarchico che caratterizzava l'intera struttura della civiltà del Medio Evo, in cui si integravano armonicamente precisi vincoli religiosi e sociali e una innegabile libertà individuale”.
Interessante anche la citazione di Sanpaolesi che fa Tangheroni, lui cittadino pisano, di uno studio proprio sulla cattedrale di Pisa.“Qui una intera civiltà ha collaborato, senza esclusione di gruppi e di classi, a dar vita ad una testimonianza collettiva, seppur differenziata, del grado altissimo di se stessa [...]”. In pratica Notre-Dame era la metafora splendida di una società articolata e vitale, in cui la monarchia, nobiltà feudale, clero, borghesia artigiana e mercantile stavano realizzando un corpo, una struttura statuale armoniosa”. La cattedrale medievale era lo “specchio di una società, ma anche specchio di una concezione ordinata e armoniosa del mondo”, si comprende perchè l'odio decapitatore e demolitore della Rivoluzione nei confronti di  questa ben ordinata società.  

mercoledì 6 aprile 2016

Il Premio della Tradizione "Antonino D'Alia" al Duca Generale Dr. Alberico Lo Faso di Serradifalco

Verrà consegnato il 7 Aprile 2016 il Premio Internazionale della Tradizione "Antonino D'Alia", nella sede della Fondazione Thule Cultura di Palermo al Duca Generale Dr. Alberico Lo Faso di Serradifalco, massimo storico di Vittorio Amedeo II Re di Sicilia e di Sardegna, noto araldista e Presidente della S.I.S.A. - Società Italiana di Studi Araldici - con sede a Torino. Il Premio Internazionale insieme a quelli Nazionali, fu assegnato lo scorso anno a Julio Loredo per il suo volume edito a Cantagalli sulla  Teologia della liberazione. Il Premio, presieduto da Tommaso Romano, Cancelliere Antonino Sala del Colle San Nicolò, segnala ogni anno dal 1994 Studiosi, Artisti, Ricercatori italiani e stranieri. 

Breve nota Biografica
Alberico Lo Faso di Serradifalco è nato a Bologna nel 1935 e vive a Torino. Già ufficiale dell’Esercito e funzionario della Presidenza del Consiglio, è dal 2004 presidente della Società Italiana di Studi Araldici. Studioso di storia, è autore dei volumi 5 mesi sul Don. Ricordi della campagna di Russia di un ufficiale della Sforzesca (Roberto Chiaramonte Editore, Torino, 2003), basato su scritti e ricordi del padre Domenico; Palermo 1713 (Ilapalma, Palermo, 2004) sul censimento di Palermo; Parabola di una rivoluzione. Giovanni Maria Angioy tra Sardegna e Piemonte (Fondazione Istituto Storico Giuseppe Siotto, Cagliari, 2008), raccolta di documenti sui moti in Sardegna fra il 1793 ed il 1796.
Ha inoltre pubblicato Piemontesi in Sicilia. La lunga marcia del Conte Maffei (Studi Piemontesi, novembre 1999, vol. XXVIII, fasc.2), L’assedio di Messina: Luglio-Settembre 1718 (Studi Piemontesi, dicembre 2003, vol.XXXII, fasc.2),Siciliani al servizio del Regno di Sardegna nel XVIII secolo (Studi Piemontesi, novembre 2000, vol. XXIX, fasc. 2), Il ruolo della nobiltà piemontese nelle campagne di guerra 1703-1706 (Memorie ed attualità dell’Assedio di Torino del 1706 tra spirito europeo ed identità regionale. Atti del convegno, Torino 29 e 30 settembre 2006, edito dal Centro Studi Piemontesi, Torino, 2006), La cripta della basilica Mauriziana di Torino, cappella dell’Immacolata Concezione di Maria Santissima (Studi Piemontesi, dicembre 2007, vol. XXXVI, fasc.2), Scorci di guerra in Sicilia, luglio 1718-maggio 1720(Archivio Storico Siciliano, Serie IV, Vol. XXX, 2004 Palermo), La nobiltà Italiana nella seconda guerra mondiale(UNI.VO.CA. Quaderno del volontariato culturale. n. 2, aprile 2002 Torino), Siciliani alla corte piemontese nel 700. Don Emanuele Valguarnera (Spiragli, anno XIX, 2007, Palermo).
Altri suoi lavori sono reperibili on line sul sito della Società Italiana di Studi Araldici (www.socistara.it), nella rubrica “Studi”:
- I Sardi di Vittorio Emanuele I e Carlo Felice (anno 2005); Vittorio Amedeo II: un anno in Sicilia (anno 2005); Grandi di Spagna Italiani (anno 2006); I viaggi in Sicilia di Ferdinando II nel 1838 (anno 2006); Ordine in cui intervennero li bracci del Parlamento stabilito in Messina nell’anno 1639 (anno 2006);
e nel notiziario “Sul Tutto”:

- Principe di Butera, primo titolo del Regno (n.0, anno 2005); I Reggio, principi di Campofiorito (n.3, anno 2005); Nota sulle famiglie nobili ammesse all’officio di Senatori ed altre della città di Trapani (n. 6, anno 2006); I principi di Cassaro, Castelli, principi di Torremuzza e marchesi di Motta d’Affermo (n.7, anno 2006); Cavalieri dell’Ordine della Santissima Annunziata Siciliani nel Settecento (n.8, anno 2006); Ricordo del soggiorno della Corte Imperiale Russa a Palermo (n.9, anno 2007).



Nel cuore della provincia palermitana a San Giuseppe Jato (fino a metà Ottocento denominato San Giuseppe dei Mortilli) nasceva il 20 settembre 1875 una singolare e tutta da riscoprire figura di colto diplomatico, storico e scienziato della politica: Antonino D’Alia.

Figlio del dottor Marco (il medico dei poveri generosa personalità dell’Ottocento jatino cui il Comune ha dedicato una via cittadina) e di Donna Giuseppina Riccobono (della cui famiglia fece parte il celebre storico e teorico del diritto romano il professore Salvatore Riccobono che sposò la sorella di Antonino, Francesca, e che fu anche Rettore dell'Ateneo Paler­mitano, Accademico d’Italia e Presidente della Provincia di Palermo negli anni Trenta), Antonino D’Alia ebbe ben altri otto fratelli e sorelle. Dopo gli studi liceali conseguì la laurea in giurisprudenza presso l’Uni­versità di Genova il 26 novembre 1899. Con Decreto Ministeriale del 15 novembre 1902, dopo un esame di concorso, nominato applicato volontario nella carriera consolare è destina­to ad Alessandria.
Vice console a San Paolo del Brasile nel 1904, l’anno seguente venne trasferito a Barcellona e nel 1906 a Smirne. Con Regio Decreto 5 agosto 1907 fu promosso Vice Console di prima classe. Dal 1914 venne trasferito a La Canea.
Richiamato sotto le armi prestò servizio al Ministero degli Esteri e poi alla presidenza del Consiglio dei Ministri. Divenne quindi capo dell’Uf­ficio Politico presso il Governatorato della Dalmazia dal novembre 1918 all’aprile 1919.
Nominato console Generale il 19 gennaio 1923 e Consigliere di Lega­zione nel 1924, in questi anni fu a Bruxelles e a Francoforte sul Meno.
Inviato straordinario e Ministro Plenipotenziario, fu destinato nel 1925 a Montevideo. Per l’intesa e qualificata attività diplomatica venne insignito dei più alti gradi delle decorazioni di Stato: il re Vittorio Emanuele III, con un motu proprio, gli conferisce il grado di commendatore dell’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro e di Grande Ufficiale dell’Ordine della Corona d’Italia. Molte le decorazioni concesse da stati esteri. Per l’opera prestata in occa­sione del terremoto del 28 dicembre 1908 in Calabria e Sicilia fu decorato con medaglia d’argento. Il 20 aprile 1904 sposò a Palermo Maria Pitrè, figlia del celebre an­tropologo e folklorista professore Giuseppe Pitrè. In occasione delle nozze della figlia, il Pitrè le dedicò Studi di leggende popolari siciliane definendo l’avvocato Antonino D’Alia «uno dei più colti vice consoli d’Italia». Una piccola gemma bibliografica, a questo proposito, è un mio "rinvenimento": in occasione delle nozze D’Alia Pitrè (20 aprile 1904) Maria Pizzuto Amico (la madre dello scrittore Antonio Pizzuto), farà dono a Maria e a Nino, di una delicata raccolta di versi di chiara matrice petrarchesca con echi leo­pardiani Canti dell'anima, pubblicati a Palermo dalla tip. C. Sciarrino già Puccio, nello stesso 1904. Sono diciassette liriche accompagnata da una nota a Maria mia, in cui ira l'altro Maria Pizzuto Amico annota: «Sei stata la gioia del padre tuo, il desio delle amiche, che oggi a profusione sfogliano il tuo candido velo dai lattei fiori dell'arancio, e ti circondano amorose; e t'invocano una felicità duratura, quale meriti tu, così buona e gentile (...). Accetta questi poveri versi, che ho voluto raccogliere per le tue nozze; essi esprimono i sentimenti dell'anima mia ove anche tu hai tanta parte! Tu ed il tuo Nino graditeli con i più felici auguri da me, da Giovannino mio dai bambini miei; e Dio vi prosperi ora e sempre! Maria tua».
Da quel matrimonio nacque il 29 gennaio 1905, a San Paolo del Brasile, l’unica loro figlia Giuseppina, spentasi a Roma il 24 dicembre del 1977, che dedicò l’intera sua esistenza alla memoria del nonno Pitrè e del padre.
Nel 1967 Giuseppina D’Alia donò al Museo Etnografico Siciliano Pitrè di Palermo molti importanti cimeli dei due personaggi (il museo fu fondato dallo stesso Pitrè nel 1909 in un ex convento cittadino e dal 1934 trasferito dal direttore e discepolo Giuseppe Cocchiara alla Palazzina Cinese).
Tramite della donazione fu il valoroso professore Gaetano Falzone, al­lora direttore.
Nella biblioteca del Museo, sistemata a Villa Niscemi, abbiamo trovato un inedito manoscritto sulla vita e le opere di Pitrè opera di Maria, poi me­ritoriamente pubblicato sulla rivista etnostorica di Aurelio Rigoli.
Ma queste note biografiche sarebbero solo un doveroso riconoscimento all’attività di questo diplomatico siciliano e parte della storia del paese natio se non intervenisse a sostegno di una pubblica riscoperta la sua monumen­tale fatica di scrittore.
I filoni dell’opera approfondita del D’Alia sono tre: quello più propriamente storico-geografico, quello biografico e l’ampio interesse per la scien­za politica.
Per ciò che riguarda le ricerche e l’indagine storico-geopolitica, con implicanze metapolitiche e con l’occhio costantemente rivolto alla diploma­zia, Antonino D’Alia si dedica fin dal 1904 con un saggio su Il cotone e la sua industria nello stato di San Paolo, cui fanno seguito numerosi volumi e articoli su Francia, Spagna, Dalmazia, Balcania, Austria-Ungheria, Inghil­terra, Russia, Belgio (su questo stato un volume pubblicato a Bologna nel 1922 da Zanichelli prefazionato da Vittorio Emanuele Orlando e intitolato Il Belgio nei suoi vari aspetti e uno pubblicato a Bruxelles dall’editore Dewit nel 1923 La Belgique intellectuelle, economique, politique).
Analisi e ricognizioni accurate su queste nazioni, in cui il D’Alia tenta, riuscendovi, di coniugare la organica sintesi dei vari popoli nascente da co­muni tradizioni, usi, costumi (mettendo a buon frutto la magistrale lezione del suocero Pitrè) ma anche modernamente affrontando le problematiche legate alle relazioni comuni, a quelle con altri stati, le vocazioni sociali, eco­nomiche (in particolare l’agricoltura e i rapporti commerciali) e le esigenze della difesa. Sono di rilevante interesse, in questo quadro, alcuni studi del D’Alia di sorprendente e perdurante interesse: nel 1917, in piena guerra mondiale, D’Alia scrive, edito a Roma, un volume su Le basi nazionali della nuova Europa ed ancora dedicato al sogno dell’Europa delle Patrie (che De Gaulle non aveva ancora teorizzato!) nel 1934 Confederazione Europea. Sui rap­porti euro-africani e sulla politica coloniale nel 1934 due saggi vengono accolti sulla «Rivista Coloniale» e sulla napoletana «Studi Coloniali».
Mentre è del 1919 l’interesse critico ma non demagogico, che D’Alia riserva al tramonto imperiale russo e al nuovo bolscevismo, studio edito dal Ministero Esteri per la Delegazione italiana della Pace a Parigi: La Russia: l'Impero - la repubblica socialista - le nuove formazioni statali. Nella ricerca bibliografica del D’Alia l’altra problematica che abbiamo prima indicato è quella biografica. Si direbbe un interesse speculare, una sorta di riferimento nel personaggio oggetto di indagine come pretesto di un rispecchiamento, come esempio e ammaestramento. Possono così citarsi Il cardinale Richelieu e lo spirito egemonico francese pubblicato sulla «Nuo­va Antologia» (volume 347, 1930); Leggendo la grande sintesi di Pietro Uboldi in «Verità», 1938; Giuseppe Avezzana nel Risorgimento italiano del 1940, Ludovico Manin, ultimo doge di Venezia sempre del 1940, pubblicato dalla Società Editrice del Libro Italiano a Roma, frutto di frequentazione amicale con la famiglia Manin e con il loro archivio-biblioteca, corredato da preziose tavole genealogiche, e infine Napoleone nel giudizio di contem­poranei e posteri, Roma, 1942. Questi profili e la scelta dei personaggi sono oggetto di riflessione dell’ul­timo quindicennio di vita del D’Alia, conclusa la carriera diplomatica.
Terzo filone degli studi di Antonino D’Alia è la scienza politica. Numerosi gli articoli e saggi fra cui La teoria dei contrari e del giusto mezzo («Verità», 1939), Le tre verticali della terra («Verità», 1942); ma di somma importanza sono Popoli e paesi nella storia dell’umanità, Saggio di scienza politica (740 pagine in ottavo edita da Treves a Roma nel 1932); e due tomi del 1938, editi a Roma da Cremonese, a cui D’Alia aveva dedi­cato molti anni di studio: Massime di arte e dì scienza politica raccolta di massime e aforismi con ampia introduzione, sui più svariati temi e problemi lumeggiati dai maggiori personaggi e interpreti della storia dell’umanità, fino al fondamentale Scienza Politica in cui risalta e si completa la fatica del pensatore jatino. Una sorta di storia dell’umanità, una vera e propria storia universale in cui D’Alia, in questi tre ampi volumi, dà prova non solo di erudizione ma anche di preveggenti proposte risolutive. Alberto Lumbroso ne parla, ad esempio, con una puntuale recensione sul numero 16 del 1932 de «Il Marzocco», intitolata Sono ancora possibili le storie universali?, giustamente accostando, la prima delle tre fatiche dell’ «illustre diplomatico» D’Alia, al grande filone che da Erodoto e Polibio fino a Bossuet, Rollili, Herder, Oucken, Hanotaux arriva al Cantù «con un ardore e una fede degni di Lu­dovico Antonio Muratori». Al volume del 1932 il Lumbroso assegna un ruolo di «guida culturale da Vedemecum soltanto agli Uomini di Stato ed ai Diplomatici di pubblico esiguo per quanto scelto, cui si aggiungeranno tutti i lettori che s’interessa­no alla politica come scienza, e alla storia come guida dell’uomo di stato, del Ministero degli Esteri, dell’Ambasciatore, di tutti coloro che si sobbarcano all’arduo compito di dirigere la politica estera della loro patria». Il primato della storia, e non della semplice innovazione senza radici, è ben presente in D’Alia che unisce metodo critico a metodo volgarizzatore «una scienza dif­ficile e complessa com’è quella investigata dagli uomini politici» da distin­guersi bene da «quelli che fanno e vivono della politica» o «politicanti», che non han diritto all’etichetta di «scienziati». Un’opera riuscita e poderosa, come sottolinea ancora il Lumbroso, un «monumentale e classico libro» di cui si occuperà, anche riferendosi a questa recensione citata, Antonio Gramsci nei suoi Quaderni dal carcere (Einaudi, Torino, 1975, p.l 150). Se in questi tre volumi ve la sicura e com­piuta esposizione dell’idea di scienza del D’Alia, bisognerà pure accennare ad un’altra opera originale del Nostro: L’amore nel secolo ventesimo - cause ed effetti della sua decadenza, pubblicata a Roma nel 1942 che sarà anche il suo ultimo libro. Morirà, infatti, nella capitale il 13 settembre 1944 nella sua casa di Via Basento.Le ricerche già compiute, come una tesi di laurea recentemente discus­sa e il volume su La formazione della diplomazia nazionale (1861-1915) - Repertorio biobibliografico dei funzionari del Ministero degli Affari Esteri, curato dal Dipartimento di scienze storiche e sociali dell’Università degli studi di Lecce (edito a Roma nel 1987 dall’Istituto poligrafico e zecca dello Stato), possono rappresentare l’inizio di un auspicabile e corposo appro­fondimento critico della vita e soprattutto dell’opera del D’Alia e la neces­saria ripubblicazione delle sue maggiori fatiche.                                                      (Tommaso Romano)

sabato 2 aprile 2016

Bandita la 42ma edizione del Premio Internazionale di poesia “Citta’ di Marineo – 2016”

Pubblicato il bando  della quarantaduesima  edizione  del Premio Marineo, curata  come ogni  anno  dalle Fondazioni Culturali “Gioacchino Arnone”,  42  anni  durante i quali  la rassegna, si è  guadagnata  un  notevole prestigio  nell’ambito letterario  nazionale  ed internazionale.  A testimonianza  dell’affermazione  raggiunta  dal  Premio  valgano i nomi  degli scrittori russi Andrej Siniavskij, ed  Evgenj Evthushenko, del poeta spagnolo  Raphael Alberti,  del fisico Antonino Zichichi, del paroliere  Mogol, del  cantautore Franco  Battiato, degli attori Turi Ferro, Leo Gullotta, Arnoldo Foà, Gianfranco Iannuzzo, Lando Buzzanca, Giorgio Albertazzi, Luigi Lo Cascio e Pamela Villoresi, Sebastiano Lo Monaco, dello scienziato Luc Montagnier che, vincitori delle scorse edizioni, hanno dato  con la loro presenza  nel piccolo centro marinese un determinante contributo alla sua  qualificazione .
In questi 42 anni  il premio Marineo ha interessato circa  diecimila poeti emergenti  e non, rappresentando altresì la voce più  autorevole   per la continuità  della poesia in lingua  siciliana.
Il  Premio si articola in quattro sezioni:
A- poesia in lingua italiana edita
B- poesia  in lingua siciliana inedita
C-  poesia in lingua siciliana edita
D-  sezione speciale internazionale.
 Partecipazione degli autori:
- sezione A - gli autori potranno partecipare mediante l’invio di una raccolta di poesie in lingua italiana pubblicata tra il 1° gennaio 2015 ed il 31 marzo 2016. Le opere concorrenti dovranno essere inviate in dieci copie, unitamente ad una scheda contenente i dati anagrafici e i recapiti postali e telefonici dei poeti.
- sezione B - gli autori potranno partecipare inviando una silloge di 30 poesie inedite in lingua siciliana con traduzione italiana non in versi, e che dovrà pervenire in dieci copie recanti ciascuna in calce generalità, indirizzo e recapito telefonico dell’autore. Allegare anche copia su cd rom.
-  sezione C - gli autori dovranno inviare una silloge edita in lingua siciliana, stampata fra il 1° gennaio 2015  ed il 31 marzo 2016, in dieci copie, unitamente ad una scheda contenente i dati anagrafici e i recapiti postali e telefonici dei poeti.

Gli elaborati non saranno restituiti
Non verranno ammessi poeti che, dal 2011 in poi siano  risultati già vincitori del primo premio nella stessa sezione.
Il giudizio della Commissione giudicatrice è insindacabile.
Le  Fondazioni Culturali, inoltre, nell’ambito della sezione speciale D, indicheranno la personalità a cui assegnare il Premio Internazionale.
Potrà essere attribuita una targa premio ad un’opera straniera tradotta in lingua italiana e pubblicata tra il 1° gennaio 2015 ed il 31 marzo 2016 .
Tutti i concorrenti dovranno trasmettere le opere, improrogabilmente (farà fede la data del timbro postale), entro e non oltre il 31 maggio 2016 alla Segreteria del Premio: presso Fondazioni Culturali “G. Arnone”- Piazza della Repubblica 20 - 90035 Marineo –  tel. 091/ 8726931 -- e  mail: info@fondazionearnone.it
       Il vincitore del Premio della sezione A riceverà una borsa di studio di Euro 1000. Al vincitore  del Premio sezione B la cui  silloge sarà  pubblicata e distribuita nelle librerie da una  nota  casa editrice, con regolare contratto editoriale, verrà inoltre offerta una  targa  Premio. Il vincitore del Premio della sezione C riceverà una borsa di studio di Euro 1000.
Il vincitore del Premio Internazionale riceverà una borsa di studio di Euro 2000.
E’ obbligo dei vincitori presenziare al conferimento dei Premi.
La partecipazione al Concorso implica l’accettazione di tutte le norme del presente bando.

La cerimonia di premiazione avrà luogo a Marineo,   Domenica 4 Settembre 2016.