martedì 27 settembre 2016

Sulle ingerenze storiche e sociologiche nella Biografia

di Giuseppe Bagnasco

   C’è una espressione nella lingua siciliana che alla solennità unisce la drammaticità del momento in cui viene pronunciata: “ Chi s’avissi a perdiri u me nomu si ..”( che si possa perdere la memoria del mio nome se ..) ecc. ecc..Un giuramento terribile se si pensa che viene messa in gioco forse la parte più essenziale del dopo-vita: la memoria. E non a caso nella mitologia greca, a madre delle Muse, cioè delle Arti che sono quelle che qualificano una civiltà, è posta Mnemosine (la Memoria). Senza di essa nessun popolo avrebbe la propria storia e le proprie radici, rappresentando essa il tramite tra il passato e presente. Senza di essa nessun uomo celebre sarebbe stato ricordato e di conseguenza mai sarebbe nata la biografia. E questo vale, con diversa valenza anche per l’uomo comune a cui soccorrono i parenti sia con l’ avvalersi del  necrologio su un qualunque giornale, sia con il potere fare pronunciare il nome dell’estinto durante l’Ufficio della santa Messa. Oppure, e questa è la soluzione di gran lunga più comune, il riportarlo sulle lapidi delle sepolture con tanto di foto.
  Ciò non vale per le cappelle monumentali dove sugli architravi viene riportato solo il nome del casato, mentre in quelle di ceto borghese, cosiddette gentilizie, si erge spesso una colonna di solito spezzata con l’effigie e il nome accompagnato da titoli più o meno nobili. Più giù la massa. E con ciò non intendiamo “massa” in senso dispregiativo, ma perché gli epitaffi sono massificati dal momento che riportano spesso sempre la solita frase commemorativa: “Sposo affettuoso, padre esemplare” o per la donna “ Sposa integerrima, madre virtuosa” o la frase già predisposta su targhette di ceramica e uguale per tutti: “Resterai per sempre nei nostri cuori”. Ma, incediamo noi, perché questo bisogno? Perché il sottolineare questi valori quando spesso non corrispondono alla realtà vissuta, cioè sono inventati? Soltanto, interpretiamo noi, perché detto sentire è inteso come un mezzo col quale nel tempo, venga ricordato al meglio. Solo qualche volta le parole hanno e danno un senso tali da offrire la possibilità di intravedervi come una microbiografia. Così è quando accade di leggere: “Stupì il coraggio, condusse con lealtà, vestì l’onore”. Eccoci di fronte ad un epitaffio in cui, come avverte Tacito, si può esprimere tanto con tanto poco.
     Per gli uomini illustri la Biografia non ha questo compito meta-spirituale giacchè rappresenta  non soltanto un tramite, ma un mezzo, con cui descrivere insieme alla vita, le loro opere e con esse un pezzo di storia patria. Infatti quando si narra la vita di un uomo illustre, inevitabilmente si narra e in un certo senso si glorifica anche la terra dei suoi natali. Natali che a volte vengono vantati da più di una nazione. Si pensi ad esempio alla querelle portata avanti per anni  da parte della Spagna per attribuirsi quelli di  Cristoforo Colombo. All’invenzione della scrittura, ultimo tratto di un percorso che dalla pittografia condusse prima alla ideografia e poi alla scrittura sillabica o monoconsonantica fonetica fino ad arrivare a quella alfabetica, si attribuisce la nascita della narrazione (con Esiodo) a cui  seguirono le leggende sui  miti e gli eroi (per attestare la nobiltà originaria del popolo greco), e l’inizio, non senza un accento agiografico, delle biografie “De viris illustribus”. Ed è su questo che Tommaso Romano, in “La colonna e il mare” (ISSPE- Palermo 2009) si sofferma quando afferma che “bisogna rifiutare ogni presupposto agiografico, ideologico o morbosamente scandalistico, giacchè è la persona umana che, cercando un senso alla sua esistenza, dà un senso alla Storia”.
   Qui, in questa sede, non vogliamo riproporre la sequela dei biografi degli uomini illustri, da Nepote a Svetonio, da San Girolamo a Petrarca, che nei vari campi, dal filosofico al militare, dal letterario allo scientifico, hanno dato l’alloro alle proprie Patrie. Tuttavia notiamo come ogni nazione, in senso più o meno agiografico, a volta sciovinistico, ha vantato biografie di propri figli valorizzando loro e se stesse. E così nel mondo antico, da Ione di Chio agli Alessandrini, comincia a fiorire uno stuolo di biografie che nel tempo confluiranno nella universale Biblioteca tolemaica di Alessandria. Scrigno e tesoro incommensurabile del sapere delle civiltà mediterranee e asiatiche, fu distrutta la prima volta dai romani che vedevano in essa una supremazia culturale su Roma, e in seguito dai conquistatori arabi. Due fatti esecrabili della cui portata ancora oggi non conosciamo appieno l’enorme danno arrecato alla conoscenza. Si pensi soltanto alle possibili notizie riguardanti la costruzione delle piramidi o alla chirurgia cranica e di cui ancora oggi ignoriamo i progetti e le attuazioni.
   Le biografie, come la Storia, devono essere spurie da tutto ciò che non può valere per comprendere le gesta di un grand’uomo, e soprattutto, al contrario, non devono ignorare o peggio ancora storpiare la verità dal momento che esse costituiscono una costola importante della Storia. E questo perché, al di là dell’evento storico, certo importante e definitivo, assume rilevanza il personaggio che l’ha determinata. Infatti, giusto per riprendere il leit-motiv della agiografica celebrazione dei 150 anni dell’avventura dei Mille, non possiamo non vedere come le innumerevoli biografie su Garibaldi, Bixio, Cavour e quant’altri, non ci sembra siano obiettivamente corrette. Nelle biografie dove nel tempo accanto agli eventi, si è dato via-via spazio alla centralità dell’uomo, sono stati messi in luce sia il tessuto sociale dove i futuri illustri vissero fin dalla giovinezza sia le particolari vicende che vi si inserirono. È dunque l’aspetto sociale, finanche di carattere familiare, che viene messo in relazione alle conseguenti azioni che essi intrapresero. Si pensi, ad esempio, a Giulio Cesare. Se non fosse stato oppresso dai debiti contratti per la scalata al potere, sarebbe partito per le Gallie nelle quali emerse il suo genio militare ma da dove portò via cinquantamila prigionieri da vendere come schiavi? E Alessandro di Macedonia, se non fosse stato convinto dalla madre Olimpia d’essere il figlio del supremo dio Ammon, per la qual cosa si riteneva  invincibile e destinatario dell’unificazione di tutti i popoli del mondo, sarebbe partito alla conquista dell’impero persiano con quarantacinquemila uomini contro un milione? e il giovane Napoleone avrebbe avuto dal Direttorio il comando dell’Armata d’Italia senza l’intercessione che la consorte Giuseppina de Beauharnais fece presso il suo ex amante Barras? o per tornare su Garibaldi, se da massone non avesse avuto il sostegno economico e politico delle varie logge italiane, europee e americane, avrebbe assunto la direzione di quell’accozzaglia di quei mille ladroni ( li definì così nelle sue memorie)  contro i centoventimila regolari dell’esercito borbonico?. E ancora, l’incorruttibile Robespierre educato alle idee del Rousseau, se non avesse avuto quel delirio d’onnipotenza giustizialista, avrebbe dato vita al “Terrore” fino alla decapitazione della “Nemica”, la regina Maria Antonietta, figlia dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria, senza tema di emulare Enrico VIII d’Inghilterra? e Martin Lutero, se non ci fosse stata la peccaminosa corruzione della Curia romana e del Clero con la vendita delle indulgenze, avrebbe mai affisso alle porte della cattedrale di Wittemberg le sue 95 tesi teologali e dato inizio a quella Riforma che provocò lo scisma della Chiesa a cui poi seguirono le funeste guerre di religione? .E che dire delle epurazioni naziste degli ebrei che costrinsero gli scienziati da Fermi a Szilard, da Wigner a Teller, ad emigrare negli Stati Uniti per i quali ad Alamogordo costruirono quella bomba atomica che traumaticamente pose fine alla guerra col Giappone?. E Mosè, senza la persecuzione del faraone Ramses II, fino a quando sarebbe rimasto in Egitto?. Quando avrebbe condotto verso la Terra Promessa il suo popolo e ricevere da Dio le Tavole della Legge ?. Cosa veramente sarebbe accaduto se la peste non avesse falciato Pericle nel bel mezzo della guerra con Sparta?. E senza la caduta di Costantinopoli nel 1453, Cristoforo Colombo quarant’anni dopo, avrebbe cercato per mare la via delle Indie senza il probabile ausilio delle antiche carte nautiche arabe?.
   Tanti, come si vede sono i motivi per cui un uomo non è mai il semplice e l’unico artefice di straordinari eventi. Quali biografie sarebbero state scritte su questi interpreti e attori della Storia senza il verificarsi delle tante ingerenze e dei presupposti qui ricordati?. Pertanto quando uno storico si accinge a scrivere la biografia di un illustre, non può tenere conto, come prima avveniva,  solo delle sue azioni sia pure eccezionali, ma soprattutto di quanti ne ebbero a condizionarne la vita e le imprese, finendo con ciò finanche per influire sui suoi tratti comportamentali. Per questo non si possono escludere a priori quegli avvenimenti positivi o negativi che hanno inciso sul suo trascorso non trascurando il campo spirituale o quello  dell’indottrinamento. Così, ad esempio per i filosofi, sullo sviluppo delle loro teorie, non fu certo estranea alla loro formazione l’essere stati discepoli di una data scuola filosofica.
   Per quel che riguarda la biografia di un illustre nel campo militare, questa da sempre ha avuto maggiore risonanza e ridondanza rispetto a quella di un letterato o di un musicista, poiché un avvenimento politico-militare, naturalmente insito nella semiologia della Storia, finisce ineluttabilmente per incidere sul destino di un intero popolo. Ma anche l’illustre condottiero non conduce le sue gesta solo con l’istinto del suo genio poiché mai nessun uomo decide da solo e, se anche lo ignora, lo fa nel contesto di ciò che accade attorno a lui  o che è accaduto. Di ciò hanno fatto tesoro gli strateghi della guerra che si sono avvalsi dell’esperienza dei loro predecessori. E così dalla “falange” di Alessandro o dagli elefanti di Annibale è derivata la strategia della “marcia in colonna” dei battaglioni di Napoleone o 140 anni dopo quella delle divisioni corazzate tedesche nello spezzare lo schieramento nemico, agendo in profondità come una “force de frappe”. O, per rifarci ad una storica genialità strategica, all’ “ordine obliquo” del tebano Epaminonda che allo scontro frontale preferì la manovra accerchiante e di cui farà tesoro ancora Napoleone nel manovrare la cavalleria del Murat supportandola col movimento fulmineo dell’artiglieria come non si era mai visto o concepito prima. E che dire degli scienziati ? Non si servirono di esperienze maturate da chi prima di loro cercò senza successo un’invenzione o ci arrivò per pura casualità, come per la scoperta della penicillina o della pila elettrica? E degli architetti? La cupola a doppia volta del Brunelleschi non fece da battistrada a quella del Michelangelo?
    Di tanto e di tutto si servono i biografi nello stendere una biografia riguardante un illustre. Il dato che se ne ricava è che dal nulla non si crea nulla, ma da un piccolo evento, perfino da una curiosità si può aprire la strada per la scoperta di qualcosa di grande.  Ma al di là delle ingerenze fin qui esaminate e che costituiscono i paletti dentro cui si muove la storiografia, non possiamo escludere da questa analisi gli eventi interni, quei “moti personali” che incidono e condizionano la vita di un illustre. Parliamo dei sentimenti,  come motore della vita o della propria creatività artistica. Ci chiediamo: Giacomo Leopardi avrebbe scritto “A Silvia” se non si fosse innamorato della Teresa Fattorini e, se non ci fossero state quella siepe o quella antica torre, il Vate di Recanati avrebbe scritto ugualmente “L’infinito” o “Il passero solitario”?. E che dire di Cleopatra?. Di cosa si sarebbero occupati i suoi biografi al di là delle lotte sostenute col fratello Tolomeo per la conquista del trono, se non fossero entrati nella sua vita sentimentale quel certo Giulio Cesare o quel tale Marco Antonio?. E della contessa di Castiglione chi mai  ne avrebbe scritto se non fosse stata l’amante di Napoleone III, contribuendo col suo “sacrificio”, com’ella affermò più volte, all’unità d’Italia?.
   Possiamo quindi concludere che le biografie non sono il semplice racconto di una vita, ma assumono vastità e nobiltà nel momento in cui  si prendono in considerazione le “ingerenze” storiche e sociologiche che ne hanno condizionato il percorso. Ingerenze che riguardano sia i contesti sociali che politici in cui si svolsero. Ci riferiamo ad esempio alle guerre sociali tra Mario e Silla o tra Crasso e Spartaco per non citare quella siciliana tra Euno e le legioni di Publio Rupilio, spacciate queste ultime per guerre servili (cioè contro schiavi ribelli) come nel 1861 il governo piemontese spacciò per brigantaggio la resistenza opposta dai contadini e dai soldati rimasti fedeli alla monarchia borbonica. E a riguardo del contesto politico, la guerra civile inglese del 1642, quella americana del 1861 o quella messicana del 1911 o la russa del 1917 o spagnola del 1936 o ultima, in ordine di tempo, la guerriglia partigiana antitedesca del ’43-‘45 nell’Italia settentrionale, giusto per restare su quelle classiche. Altro sono le ingerenze riguardanti i contesti familiari. Un esempio per tutti: Se Santippe fosse stata una Aspasia, Socrate avrebbe trascorso gran parte del suo quotidiano fuori casa a meditare e dare vita a quella scuola di pensiero da anticipare concetti che apparterranno alla dottrina cristiana? E Raffaello, richiamando la dottrina filosofica, avrebbe mai dipinto nella “Scuola di Atene”  la disputa di Platone con Parmenide?
   Prima di finire queste note non può rimanere esclusa da queste la componente meteorologica. Le condizioni del tempo hanno spesso influito sull’esito di un avvenimento militare e pertanto sul destino dei suoi protagonisti e questo, sia che si trattasse di pioggia, di burrasche o di nebbia. Qualche accenno a memoria. Nel 1529 l’Europa di Carlo V rischiò di venire attaccata dai turchi se Vienna fosse caduta nelle loro mani. Ma le artiglierie pesanti di Solimano il Magnifico, a causa delle abbondanti piogge, rimasero impantanate nel fango e vennero pertanto abbandonate così da non permettere il loro impiego contro le spesse mura della città, con la conseguenza che il Sultano dovette ritirarsi dopo due mesi di inutile assedio. Nel 1588 l’ “Invencible Armada” navale del cattolico Filippo II, dopo scontri con la flotta inglese,  fu dispersa nel Canale della Manica da violenti venti avversi e da due tempeste, non permettendo così alle truppe del duca di Parma Alessandro Farnese (suo bisnonno era il Papa Paolo III  e sua zia paterna la “bella” Giulia amante di Papa Alessandro VI), stanziate nelle Fiandre, di imbarcarsi per invadere l’Inghilterra della protestante Elisabetta. Nel 1776, dopo la battaglia di Long Island, la nebbia salvò l’esercito di George Washington permettendogli di ritirarsi nell’isola di Manhattan e di costruirvi un muro nel luogo oggi chiamato Wall Street. Per non parlare della neve che decise il ritiro dell’armata napoleonica dalla Russia o della pioggia che a Waterloo ìmpedì per tre ore l’entrata in linea dell’artiglieria francese ritardando l’inizio della battaglia e di conseguenza a non poterla finire per tempo consentendo così al prussiano Blucher di raggiungere Wellington sul campo prima che calasse la sera (A me la notte! invocherà il Corso) e cambiare la Storia. Evento negativo questa volta per Napoleone che fece da  contrappasso a quel “Sole di Austerlitz” che quel giorno dissolse la nebbia permettendo all’artiglieria francese di sbaragliare gli austro-russi. E c’è una massima, a compendio delle tante battaglie, che fa dire a Napoleone: “ Non ho bisogno di bravi generali ma di generali fortunati”.  E per finire, per le ingerenze meteorologiche, in epoca più recente, la Battaglia delle Ardenne nel dicembre del ’44 che vide vincente la Wehrmacht finchè la nebbia non permise agli americani di fare intervenire l’aviazione.
   Al termine di queste note ci sembra doverosa una conclusione. L’uomo ha bisogno della memoria per sopravvivere a sé stesso. Essa è il deposito delle azioni della vita e la biografia ne rappresenta la sua estensione. In fondo la memoria non è che un mezzo per colloquiare col passato, al pari di una immagine sacra che al credente fa da tramite per colloquiare col suo Santo protettore. La biografia, lo ripetiamo, quale soltanto descrizione o elencazione temporale di fatti pur anche eccezionali, non può leggersi, né può comprendersi  se non nell’ambito delle situazioni storiche, sociali, ambientali, familiari in cui un illustre è vissuto. Non è vero, come si è sempre affermato, che l’uomo è il solo artefice del suo destino. Questo è  accettabile limitatamente alla parte che lui interpreta. Ma dal momento che l’uomo da sempre è un animale sociale, un avvenimento che lo vede protagonista, non si verifica solo per la sua azione, come  sarebbe per il naufrago Robinson Crusoe o per quel soldato giapponese che visse trent’anni nella giungla non sapendo della fine del conflitto e questo Emile Durkeim nella sua analisi sociologica, lo spiega molto bene quando afferma che l’uomo è un prodotto (corrotto) della società dove tutti sono in relazione con tutti e pertanto interdipendenti. Quindi, concludiamo noi, le biografie degli uomini illustri non possono essere considerate come una vetrina monorappresentativa che una comunità offre ai passanti della Storia, ma come una galleria o meglio come un novello Foro romano dove sui piedistalli del tempo si innalzano le statue di quei cittadini illustri che nei diversi contesti storico-sociologici, ne hanno segnato il cammino.   

venerdì 16 settembre 2016

Narnia: un Vangelo per i piccoli (e per i grandi)

di Luca Fumagalli

«Se vuoi costruire una nave non devi per prima cosa affaticarti a chiamare la gente, a raccogliere la legna e a preparare gli attrezzi; non distribuire i compiti, non organizzare il lavoro. Ma invece prima risveglia negli uomini la nostalgia del mare lontano e sconfinato». La citazione, una delle più belle e note de Il piccolo principe, può essere impiegata anche per descrivere il cuore pulsante del messaggio cristiano che si cela dietro le pagine delle “Cronache di Narnia”. Chiunque si sia avventurato nel mondo fantastico descritto da C. S. Lewis non può infatti non aver avvertito un senso di pienezza, di soddisfazione, come solo pochi romanzi sanno donare.
Le mirabolanti imprese dei fratelli Pevensie, sorvegliati costantemente dallo sguardo paterno del leone Aslan, testimoniano nella prosa immediata della fiaba quanto di più vero possa esistere: la bellezza della vita, che rimane tale anche dopo cedimenti e tradimenti, delusioni e inganni. La certezza di un Dio benevolo che accompagna i propri figli verso un destino di felicità eterna è la solida roccia su cui ognuno dei protagonisti è chiamato a fondare il proprio essere: «Il racconto esiste non tanto per trasmettere un significato quanto per ridestare un significato» ricordava George MacDonald, lo scrittore scozzese tanto amato da Lewis. 
Lo stesso invito travalica il testo per penetrare nel cuore del lettore, incapace di fuggire, attratto in un vortice empatico che lo spinge ogni volta a paragonarsi ai tanti personaggi che si avvicendano sotto i suoi occhi: è l’esaltazione degli umili, quel miracolo per cui persino i più piccoli – schiavi o topi poco importa – si scoprono in grado di compiere gesti straordinari e, soprattutto, di indicare anche ai più grandi ed esperti la strada da percorrere. In questo senso Peter, Edmund, Susan e Lucy sono segni, presenze rivelatrici di una realtà ancora più autentica che, per usare un’espressione platonica tanto cara a Lewis, si cela dietro l’ombra dell’esistenza terrena.
Per compiere grandi opere, però, come da tradizione cavalleresca, sono indispensabili due cose: una mappa, in grado di indicare la via, e una compagnia, un manipolo di fidati amici con cui condividere le gioie e i dolori di un destino da realizzare. 
Il bellissimo saggio “Narnia. La teologia dell’armadio”, a cura del sacerdote salesiano Antonio Carriero, è mappa e al contempo compagnia. Il volume, agile e godibile, è una panoramica introduttiva al mondo fantastico partorito dalla penna dell’accademico irlandese, costruito come una galleria di sguardi in cui i vari interventi che raccoglie donano una profondità in grado di soddisfare anche il lettore più smaliziato. Gli articoli, firmati da noti studiosi italiani di fantasy del calibro di Edoardo Rialti, Carlo M. Bajetta, Mariarosa Bosco, Ives Coassolo, Erica Gazzoldi, Paolo Gulisano, Carlo Meneghetti, Chiara Nejrotti e Luisa Paglieri sono un trampolino di lancio per tuffarsi nei segreti dei romanzi e nella biografia del loro autore, rivelando come Narnia sia fondamentalmente qualcosa di non molto dissimile dal Vangelo. Del resto nelle numerose lettere di risposta a quelle dei giovani lettori che corrispondevano con lui, lo stesso Lewis non mancava mai di ribadire come le Cronache avessero per oggetto ultimo Cristo. 
I sette libri che compongono il ciclo, però, per quanto possa sembrare paradossale data la fitta rete di rimandi teologici che li caratterizza, non furono l’esito di una programmazione a tavolino, studiata nei minimi dettagli, quanto lo sviluppo di un’intuizione giovanile che poté germogliare solo quando la semente della fede attecchì nel cuore indurito di un ateo recalcitrante: «L’immagine di un fauno con un ombrello e dei pacchi in un bosco innevato. Ho avuto in mente questa immagine dell’età di sedici anni; poi, un giorno, quando ne avevo circa quaranta mi sono detto: “proviamo a scriverci sopra una storia”». Lewis riuscì a trovare la forza di mendicare una risposta a Dio, e Dio si fece riconoscere. Quando per la prima volta, nel 1929, lo scrittore cadde in ginocchio per pregare, intuì che l’esistenza è dono peculiare, che acquista ancora più valore se si è disposti a offrirla agli altri.
Lewis svela al lettore il fascino di una vita spesa a verificare come la pretesa cristiana sia l’unica chiave di lettura coerente della realtà, l’unico strumento per poter mettere insieme i cocci rotti di giornate governate in apparenza dal caos. Per lui tutto questo prese a valere ancora di più quando Joy Gresham si spense nel 1960, dopo una lunga malattia: l’unica donna che aveva amato, sposata in una stanza d’ospedale, gli era stata sottratta ingiustamente. Il dolore che provò il novello Giobbe in quell’occasione si trasformò lentamente da disperazione a provvidenza, uno scossone benefico che gli fece prendere coscienza di come, al netto delle tante parole spese, la sua fede fosse in realtà un castello di carte, pronto a disfarsi al minimo imprevisto.
I libri che vanno a comporre le “Cronache di Narnia”, seppur scritti anni prima, tra il 1950 e il 1956, anticipano tra l’altro, con piglio profetico, le riflessioni che l’autore affronterà all’approssimarsi della morte. Il compendio della dottrina cristiana si sposa in essi con l’esperienza viva di un uomo, con la carne e il sangue che scorre nelle sue vene. 
Sbaglia dunque chi confonde i romanzi di Lewis per un manualetto dottrinale sotto mentite spoglie o, peggio ancora, per un vile mezzo per sfuggire alla realtà; tutt’altro, come “Narnia. La teologia dell’armadio” dimostra, quello di Lewis è uno degli inviti più commoventi promossi dalla letteratura del XX secolo a ritornare al reale dopo decenni di finte filosofie e menzogne istituzionalizzate. Come scrisse Tolkien, la fuga non è per forza qualcosa di negativo: provate a proporla a un prigioniero …

Il libro: Antonio Carriero (a cura di), Narnia. La teologia dell’armadio, Padova, Edizioni Messaggero, 2016, 192 pagine, 15 euro.

da: www.radiospada.org

giovedì 15 settembre 2016

XXIV Convegno Tradizionalista della Fedelissima Città di Gaeta


L’angolo di Gilbert K. Chesterton – Grandezza e attualità di uno scrittore cattolico

di Fabio Trevisan

Nelle ultime righe del volume, dal titolo: “Quello che ho visto in America”, contenente le riflessioni dopo il viaggio negli Stati Uniti del 1921, Chesterton si interrogava sul futuro della democrazia. Egli poneva i pilastri di un’autentica democrazia con un esplicito riferimento soprannaturale:“Non esiste un fondamento per la democrazia eccetto che nel dogma sull’origine divina dell’uomo. Questo è il fatto assolutamente semplice che sempre di più il mondo moderno scoprirà essere un fatto”. Chesterton considerava seriamente la regalità divina e la chiamata alla dignità umana come figli di un Padre, Re del creato.
Il suo concetto di “democrazia” non aveva nulla a che fare con l’agire politico secolarizzato; egli non intendeva affatto prescindere da Dio, in nome di una “laicità” mondana, ma poneva il concetto di democrazia a stretto contatto con quello di tradizione, con quella che nel saggio Ortodossia aveva chiamato la democrazia dei morti. Egli ravvisava i pericoli di questa confusione e li indicava perentoriamente, utilizzando con maestria il paradosso e analizzando da vicino la società americana: “L’uomo d’affari americano ha fretta perché è sempre in ritardo”. Questa “fretta” era riconducibile, secondo il pensatore londinese, all’incapacità di pensare approfonditamente; la fretta poteva mascherare l’essenza di questo apparente trambusto. I reali pericoli di una democrazia in collegamento con la tradizione del passato potevano sintetizzarsi in alcune frasi emblematiche: “Il pericolo che corre una democrazia è la convenzione…il progresso è la provvidenza senza Dio”.
A chi gli faceva notare i pericoli del bolscevismo, egli, pur riconoscendoli, invitava a riflettere su quella che allora chiamava la “standardizzazione verso il basso”, l’omologazione, la convenzione: “L’Uomo Moderno (con le maiuscole, in quanto categoria della modernità) ha fatto una grande quantità di errori. Davvero, di fronte a questo modello progressista e all’avanguardia, uno sarebbe tentato di dire che l’uomo non ha fatto altro che errori”. Il pericolo della democrazia erano quindi la convenzione, la monotonia: “Ed è riguardo a tutto ciò che tutte le mie esperienze hanno accresciuto la mia convinzione che gran parte di ciò che viene chiamato emancipazione femminile è semplicemente un aumento della convenzionalità femminile”. Identificava quindi l’illusorio progresso di liberazione, in questo caso dell’emancipazione della donna, come un aumento della convenzione, anziché un’esaltazione, come avrebbe voluto, della specificità femminile.
La democrazia, com’egli la pensava legata alla tradizione, arricchiva e non normalizzava in una piatta e squallida convenzione le giuste istanze delle donne. In altre parole, non era un falso egualitarismo quello che avrebbe dovuto propugnare la reale democrazia, ma, al contrario, una rivendicazione delle forti diversità tra maschio e femmina. In questo senso va letta un’altra sua famosa frase che spesso viene citata senza comprenderne il reale significato: “Se una cosa vale la pena di essere fatta, vale la pena di farla male”. Questa paradossale ed umoristica frase va letta riguardo lo specifico femminino, in quanto le donne, essendo meno specializzate in un determinato lavoro rispetto all’uomo, e dovendo svolgere parecchie opere in casa, con i figlie e fuori casa, non possono pretendere la perfezione in tutto. Il futuro della democrazia si giocava quindi, secondo Gilbert Keith Chesterton, nel capire e valorizzare le distinzioni reali, comprendendo quindi la vera natura della persona creata da Dio. Il futuro della democrazia non solo aveva a che fare con la regalità di Cristo Re, ma anche con un ineludibile collegamento con il passato: “Possiamo essere sicuri di sbagliarci riguardo il futuro se ci sbagliamo riguardo il passato…non c’è senso in tutto se l’universo non ha un centro di significazione e un’autorità in colui che è l’autore dei nostri diritti”.
A distanza di oltre novant’anni stiamo ancora chiedendoci non solo quale sia il futuro della democrazia nella quale siamo inseriti, ma anche verso quale fine siamo diretti. Credo che Chesterton abbia ancora qualcosa da dirci ed argomenti attraverso i quali riflettere adeguatamente.

da: www.riscossacristiana.it

mercoledì 14 settembre 2016

Bisogna fare gioco di squadra, senza chiudersi in difesa, andare avanti cercando la vittoria sempre!

di Domenico Bonvegna

In questi giorni oltre ai campionati di calcio per professionisti iniziano quelli per i dilettanti. Dedico queste riflessioni soprattutto ai gruppi dilettanti che ogni anno si preparano per affrontare al meglio ogni competizione sportiva. C'è una preparazione agonistica del corpo, ma anche dello spirito, anche se questa spesso viene trascurata. Molto si è scritto sul significato e l'importanza dello sport, delle attività sportive, spesso si rischia di fare i soliti discorsi retorici su come si dovrebbe affrontare la pratica sportiva. Ma capita anche dimenticare facilmente quali devono essere i comportanti essenziali, elementari di una sana partecipazione ad un gruppo, a una squadra di calcio.
Per chi è cattolico e per giunta insegnante, occuparsi di sport non è un puro esercizio mentale. Da tempo si parla di emergenza educativa, in una società che ha perso ogni riferimento ai veri valori, lo sport può avere un ruolo decisivo soprattutto per gli adolescenti, per ricostruire una società migliore.“Lo sport è importante in questa opera di ricostruzione soprattutto per due motivi:1. Perché si fonda sul concetto di 'ordine'. 2. Perché si fonda sul concetto di 'agonismo'(C. Gnerre, “Cristiano, cioè sportivo. Sportivo, cioè cristiano”, giugno 2014, Il Timone)
L'ordine nello sport non è un optional, al contrario è fondamentale. Ogni sport ha le sue regole ben precise, che devono essere oggettivamente rispettate.“Altro che relativismo e soggettivismo! Altro che uomo che si crede fondamento di tutto!”. Praticamente, “l'uomo impara dallo sport che cos'è la vita. Impara un reale che gli si impone e che non può ricostruire a piacimento. Impara ad accettare un giudizio al di sopra di sè”.
Per quanto riguarda l'agonismo, esso è qualcosa che rimanda alla “gara” e alla “vittoria”. Certamente nello sport devono partecipare tutti, nessuno si deve sentire escluso, però alla fine uno vince e l'altro perde, come nella vita, c'è chi si realizza e chi fallisce.
Pertanto, l'esperienza della vittoria e della sconfitta, sono il paradigma della nostra vita. Infatti lo sport ci educa alla gioia misurata nella vittoria, sapendo che è solo  un momento e, nello stesso tempo, a non deprimerci eccessivamente nella sconfitta proprio perché la vita può riservarci altre possibilità.
Il cristiano sa che deve combattere nella vita,“non si può essere cristiani senza il desiderio di affrontare coraggiosamente l'avventura della vita, che è poi avventura della prova”. Infatti il Cristianesimo è la religione che meglio di altre ha capito il valore dello sport per l'educazione,“perché è la religione che più si fonda sul concetto di 'agonismo'”. Tuttavia lo sport non ammette deleghe: è l'atleta che deve gareggiare, è lui che deve sentire il peso e l'onore della gara, è lui che deve raggiungere il traguardo. La stessa cosa accade nella vita, è l'uomo con la sua libertà che sceglie il bene o il male.
Ma perché la Chiesa si interessa allo sport? L'educazione è il motivo centrale, e lo dimostrano realtà come le parrocchie, gli oratori, la storia delle stesse associazioni promotrici, oltre al Magistero dei Papi e dei Vescovi che nel corso dei decenni hanno variamente parlato dell’importante valenza educativa dello sport per la crescita integrale della persona. «Che cosa è lo“sport” se non una delle forme della educazione del corpo? Si interrogava Pio XII,“Ora questa educazione è in stretto rapporto con la morale. Come potrebbe la Chiesa disinteressarsene?».
Pio XII, percepiva lo sport come educazione della persona, un efficace antidoto contro la mollezza e la vita comoda, risveglio “del senso dell'ordine, educazione all'esame e alla padronanza di sé”. Ma il Papa sportivo per eccellenza è stato San Giovanni Paolo II; infatti per lui,“il senso di fratellanza, la magnanimità, l'onestà e il rispetto del corpo – virtù indubbiamente indispensabili a ogni buon atleta – contribuiscono all'edificazione di una società civile dove l'antagonismo si sostituisca all'agonismo, dove allo scontro si preferisca l'incontro ed alla contrapposizione astiosa il confronto leale”.
Mentre per papa Ratzinger, lo sport, in particolare il calcio è una scuola di fraternità e di amore. Il gioco,“soprattutto nei minori, ha un carattere di esercitazione alla vita. Anzi, simboleggia la vita stessa e la anticipa, in una maniera liberamente strutturata”. Inoltre,“costringe l'uomo a imporsi una disciplina da ottenere con l'allenamento e la padronanza di sé”. Sempre per quanto riguarda il calcio, Benedetto XVI, insegna un disciplinato affiatamento. Infatti, in quanto gioco di squadra per eccellenza, costringe all'inserimento del singolo nella squadra e unisce i giocatori con un obiettivo comune: il successo o l'insuccesso di ogni singolo giocatore stanno nel successo o nell'insuccesso dell'intera squadra”. Quindi, questo sport, rappresenta“una scuola importante per educare al senso del rispetto dell'altro”.
Infine papa Francesco anche se non ha mai praticato discipline sportive, al contrario del dinamico papa Wojtyla, è abbastanza sensibile all'universo sportivo; infatti é tifoso della squadra argentina, del "San Lorenzo de Almagro".
Papa Francesco, in occasione del 70.mo anniversario del Centro Sportivo Italiano, ha apprezzato l'impegno e la dedizione nel promuovere lo sport come esperienza educativa. Egli crede che per avere una società a misura di uomo, occorra intraprendere per le giovani generazioni tre strade: quella dell'educazione, dello sport e del lavoro.“Se ci sono queste tre strade, io vi assicuro che non ci saranno le dipendenze: niente droga, niente alcol. Perché? Perché la scuola ti porta avanti, lo sport ti porta avanti e il lavoro ti porta avanti. Non dimenticate questo. A voi, sportivi, a voi, dirigenti, e anche a voi, uomini e donne della politica: educazione, sport e posti di lavoro!”
Un altro fattore importante nello sport, forse decisivo è la presenza di un buon allenatore-educatore, per papa Francesco questo fattore“si rivela provvidenziale soprattutto negli anni dell’adolescenza e della prima giovinezza, quando la personalità è in pieno sviluppo e alla ricerca di modelli di riferimento e di identificazione; quando si avverte vivamente il bisogno di apprezzamento e di stima da parte non solo dei coetanei ma anche degli adulti; quando è più reale il pericolo di smarrirsi dietro cattivi esempi e nella ricerca di false felicità. In questa delicata fase della vita, è grande la responsabilità di un allenatore, che spesso ha il privilegio di passare molte ore alla settimana con i giovani e di avere grande influenza su di loro con il suo comportamento e la sua personalità. L’influenza di un educatore, soprattutto per i giovani, dipende più da ciò che egli è come persona e da come vive che da quello che dice”. (Messaggio del Santo Padre al Presidente del Pontificio Consiglio per i Laici in occasione del Seminario Internazionale di studio “Allenatori: educatori di persone”, Vaticano,14.5.2015)
Papa Francesco invita tutti a mettersi in gioco, senza paura, con coraggio ed entusiasmo:“Mettervi in gioco con gli altri e con Dio; non accontentarsi di un “pareggio” mediocre, dare il meglio di sé stessi, spendendo la vita per ciò che davvero vale e che dura per sempre. Non accontentarsi di queste vite tiepide, vite “mediocremente pareggiate”: no, no! Andare avanti, cercando la vittoria sempre!Il papa conclude dicendo di non chiudersi indifesa, ma di andare all'attacco“a giocare insieme la nostra partita, che è quella del Vangelo”. E' bello continuare a citare papa Francesco, che anche in questa occasione sa essere convincente.
“Invito tutti i dirigenti e gli allenatori ad essere anzitutto persone accoglienti, capaci di tenere aperta la porta per dare a ciascuno, soprattutto ai meno fortunati, un’opportunità per esprimersi. E voi, ragazzi, che provate gioia quando vi viene consegnata la maglietta, segno di appartenenza alla vostra squadra, siete chiamati a comportarvi da veri atleti, degni della maglia che portate. Vi auguro di meritarla ogni giorno, attraverso il vostro impegno e anche la vostra fatica. Vi auguro anche di sentire il gusto, la bellezza del gioco di squadra, che è molto importante per la vita. No all’individualismo! No a fare il gioco per se stessi. Nella mia terra, quando un giocatore fa questo, gli diciamo: “Ma questo vuole mangiarsi il pallone per se stesso!”. No, questo è individualismo: non mangiatevi il pallone, fate gioco di squadra, di équipe”.
Spesso per vincere occorre il gioco di squadra, essere alleati anche con chi ha un altro stile, strategia, o gioca un altro ruolo. A questo proposito, Monsignor Camisasca, ex cappellano del Milan, ora vescovo, sostiene che in una squadra di calcio, è necessario “ accogliere l'altro per i suoi doni e saper mettere a frutto i doni in un concerto reciproco in cui ciascuno, come uno strumento diverso, suona per far echeggiare un'unica melodia”. In conclusione possiamo fare nostra la “buona battaglia” di San Paolo; del resto lo sport deve sempre rimandare chiaramente a Dio, nostro Creatore. In tal senso, l’apostolo Paolo ricorre all’immagine della competizione sportiva per ricordare la più alta vocazione dell’uomo:“Non sapete che nelle corse allo stadio tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo! Ogni atleta però è disciplinato in tutto; essi lo fanno per ottenere una corona che appassisce, noi invece una che dura sempre” (1Cor 9, 24-25).

domenica 11 settembre 2016

Luigi Calabresi nel clima acido del ‘68’, un uomo giusto per il nostro tempo.

di Domenico Bonvegna

 A cosa può servire raccontare la vita e le opere di un uomo tutto di un pezzo come il commissario Luigi Calabresi, martire negli anni di piombo. Ricordo che quando ero adolescente, in tv e sui giornali del tempo appariva con maglioni dolcevita, le basette lunghe, lo sguardo fiero e mediterraneo. E poi la sua “500”, le spranghe e le catene, i poliziotti, i cortei, gli insulti, il linciaggio a mezzo stampa, l’assassinio. Siamo negli anni del “68”, gli anni dell’ubriacatura ideologica, della lotta politica che degradava nella lotta armata, nelle stragi. Le premesse di una stagione di contestazione e rivolta erano in incubazione e che il 1968 portò alla luce segnando l’inizio di un periodo che porterà negli anni successivi anche alla lotta armata con la creazione di diversi gruppi e movimenti che si muoveranno all’interno della cosiddetta “sinistra extra-parlamentare”. Scrive Enzo Peserico, uno studioso milanese prematuramente scomparso, in “Gli anni del desiderio e del piombo. Sessantotto, Terrorismo e Rivoluzione”, Sugarcoedizioni (Milano 2008) “La preparazione e l’avvio della lotta al sistema cominciò con l’occupazione di alcune università: in particolare a Trento, presso la facoltà di sociologia nacque quella che sarà la “fucina della rivoluzione” e questo grazie al contributo di studenti di area cattolica, convinti che la sintesi tra cristianesimo e rivoluzione fosse che il Regno di Dio doveva corrispondere al regno dell’uguaglianza teorizzato dal marxismo. Tra questi studenti di formazione cattolica il più importante fu Renato Curcio, uno dei fondatori delle Brigate Rosse. Questa “meglio gioventù” - o gioventù bruciata - aprì lo scenario del terrorismo di sinistra in Italia ed è in questo modo che cominciarono a muoversi gruppi e sigle nel contesto dello stesso filone marxista-leninista. Comunque le BR costituiranno il “nucleo d’acciaio” di rivoluzionari che spenderanno la propria vita per il successo della Rivoluzione in perfetta sintonia con il ‘Che fare?’ di Lenin, «in cui s’ipotizza [...] un gruppo di rivoluzionari di professione, che consacrano la loro vita alla rivoluzione e che operano interpretando le istanze del proletariato affinché esso prenda coscienza”.
 In questo clima inacidito si erge la figura di “un uomo che aveva il senso dello Stato, che credeva al decoro delle istituzioni e alla dignità del suo ruolo, che aveva la responsabilità di uomo d’ordine”. Luigi Calabresi, con un’espressione antica, demodè, si definiva, “servitore dello Stato”, proprio in questo restò fedele fino alla morte per solo 270mila lire mensili, uno stipendio medio per quei tempi.
 Il commissario Luigi Calabresi era un fervente religioso, aveva scelto di lavorare nella polizia per vocazione, non tanto per lo stipendio, poteva fare benissimo altri lavori magari più remunerativi; nelle difficoltà, spesso ripeteva di essere nelle mani di Dio. In una discussione registrata del 1964, rispondendo a delle domande, aveva detto: “Se volessi intascare e magari spendere medaglie come questa non andrei in polizia, dove si resta poveri. Non andrei coltivando ideali buffi di onestà e di purezza. Purtroppo sono fatto in un certo modo, appartengo a un gruppo neanche tanto scarso di giovani che vuole andare controcorrente (…) In questo mondo neopagano, il cristiano continua a dare scandalo, perché il fine che persegue, lo scopo che dà alla sua vita non coincide con quello dei più”.
 Un libro racconta in maniera dettagliata la vicenda Calabresi, “Gli anni spezzati. Il Commissario. Luigi Calabresi”, di Luciano Garibaldi, Edizioni Ares, Albatross Entertainment S.P.A (2013). Peraltro da questo testo è tratta la fiction televisiva “Gli anni spezzati. Il Commissario”, andata in onda su Rai 1 ai primi di gennaio di quest’anno.
 “Luciano Garibaldi – scrive Marcello Veneziani nella prefazione – fu il primo giornalista che riuscì a far parlare in un’intervista su “Gente” la vedova di Luigi Calabresi, Gemma Capra(…)Garibaldi seguì negli anni la vicenda Calabresi con passione civile e rigore di cronista, ne fece una battaglia di principio e di verità storica. Anche grazie a testimonianze come la sua, a Calabresi fu data dal presidente Ciampi, con trentadue anni di ritardo la medaglia d’oro al valor civile. Un riconoscimento postumo, che si insinuava come una piccola parentesi nel fiume di parole, interventi, pressioni per la grazia a Sofri e Bompressi. Nell’immaginario collettivo del Paese, i martiri erano diventati loro, non Calabresi”.
 Veneziani evidenzia il grave episodio degli 800 intellettuali che hanno firmato un manifesto pubblicato da L’Espresso per delegittimare Calabresi. In pratica tutto l’establishment culturale, accademico, editoriale e giornalistico italiano, tra questi Alberto Moravia, Norberto Bobbio, Umberto Eco, Margherita Hack, nel manifesto-lettera, Calabresi veniva definito “commissario torturatore” e “responsabile della morte di Pinelli”. A tutti questi si aggiunse “(…)il Movimento nazionale giornalisti democratici, sorto nei pensatoi controllati dai partiti comunista e socialista, fonte inesauribile di autentica disinformazione e di ricostruzioni arbitrarie dei fatti, basate sulle fantasie più assurde e indimostrabili, vera sorgente alla quale si abbeveravano giornalisti che scrivevano sui quotidiani e sui settimanali più diffusi”. Per Garibaldi  gli “Ottocento” sono i veri mandanti (im)morali, dell’uccisione del commissario, come vengono definiti in un capitolo del libro. Peraltro “costoro condannarono Calabresi senza disporre di un benché minimo indizio, dopo che la magistratura lo aveva prosciolto in un regolare processo, senza assolutamente chiedersi, prima di firmare, chi veramente fosse l’uomo che accusavano di assassinio, che indicavano – con l’autorevolezza dei loro nomi – al pubblico ludibrio e al linciaggio dei fanatici dell’estrema sinistra”. Poi bisogna anche dire che le istituzioni, come bene evidenzia la fiction televisiva,  per certi versi hanno abbandonato al suo destino il povero commissario. Pertanto si può senz’altro sostenere con Garibaldi che “Lo Stato disertò. Gli “ottocento” firmarono. E, sulla base di quelle firme, Lotta Continua uccise”.
 Garibaldi racconta con passione, attento anche ai dettagli e alle sfumature, documentando la vicenda Calabresi. Ma soprattutto mostra con chiarezza la vera figura di Calabresi, la sua vocazione, la sua professionalità, “una fedeltà non a una carta, ma a uno stile, a una patria, a uno Stato. Che li mandava allo sbaraglio e poi si dimenticava di loro; e ciononostante, i cavalieri come Calabresi partivano alla carica”. Il libro inizia con una polemica nei confronti delle istituzioni che non hanno fatto abbastanza per i tanti caduti sotto la violenza politica negli anni di piombo, poliziotti, carabinieri, guardie carcerarie, che non hanno ottenuto giustizia. “sono ricordati con memore gratitudine da tutto il popolo italiano? Le loro famiglie hanno ricevuto sostegno che spettava loro? E lo stesso Luigi Calabresi, nonostante la generosità del figlio Mario che, con voce coraggiosa, scrivendo il libro “Spingendo la notte più in là. Storia della mia famiglia e di altre vittime del terrorismo”, edito da Mondadori nel 2007(…) ha davvero ottenuto giustizia?” Difficile affermarlo – scrive Garibaldi – se si pensa alle scritte ‘Calabresi Assassino’ comparse sui muri di Torino dopo la nomina di Mario Calabresi a direttore de ‘La Stampa’”.
 Probabilmente per alcuni è un passato che non vuole passare. Il commissario Calabresi fu assassinato da un commando di “Lotta Continua”, organizzazione comunista, il 17 maggio 1972 in Via Cherubini, proprio sotto casa a Milano, fu la prima vittima degli “anni di piombo”. Per questi rivoluzionari il commissario, era l’assassino di Giuseppe Pinelli, arrestato e interrogato per la strage della bomba presso la Banca Nazionale dell’Agricoltura di Piazza Fontana a Milano del 12 dicembre 1969. In occasione del trentennale della sua morte, nel corso di una commemorazione, monsignor Francesco Salerno, segretario del Supremo Tribunale della segreteria Apostolica, diede lettura di un messaggio fattogli pervenire dal santo padre Giovanni Paolo II. Nel messaggio Papa Wojtyla definiva Calabresi “generoso servitore dello Stato e fedele testimone del Vangelo”, e ricordandone “la costante dedizione al proprio dovere pur fra gravi difficoltà e incomprensioni”. Il Papa auspicava che il suo esempio potesse diventare “uno stimolo per tutti ad anteporre sempre all’interesse privato la causa del bene comune”. In conclusione Wojtyla assicurava per lui “particolari preghiere e invocando da Dio Padre misericordioso sostegno per la sua famiglia”.
 La vita di Calabresi rappresenta una storia esemplare, tanto che il suo ex confessore e padre spirituale, don Ennio Innocenti insieme all’organizzazione religiosa “Sacra Fraternitas Aurigarum Urbis”, hanno avanzato la richiesta di un procedimento canonico di verifica dell’eroismo delle virtù del commissario Calabresi in considerazione della sua fede cristiana. Peraltro una proposta che ha trovato consensi ad alti livelli ecclesiastici. Garibaldi riporta il giudizio del cardinale Camillo Ruini: “Il suo sacrificio è degno della Chiesa di Roma, nel cui seno egli è stato educato. La fama dell’eroismo cristiano di lui, lungi dall’appannarsi in tutti questi anni, si è estesa e si è consolidata con testimonianze, studi e ripetute argomentazioni di laici, di sacerdoti e di Vescovi”.
 Peraltro, qualche giorno dopo l’assassinio del commissario, padre Virginio Rotondi, il fondatore del movimento “Oasi”, al quale il giovane Calabresi aveva aderito, fa una straordinaria  testimonianza: “(…)E’ stato uno dei migliori giovani da me incontrati. Non l’ho mai sentito dire una parola ostile contro qualcuno; e quando sorprendeva me a dirla, mi guardava con aria di rimprovero. Nel vivo della polemica condotta contro di lui da una parte della stampa che lo accusava di aver ucciso l’anarchico Giuseppe Pinelli dopo la strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969, gli dissi più volte: ‘Ma perché non vai, per esempio, alla redazione di qualche giornale cattolico a farti conoscere personalmente, affinchè qualcuno prenda le tue difese e proclami l’inattendibilità assoluta delle accuse mosse contro di te?. ‘Non ce n’è bisogno’ mi rispose: ‘io sono tranquillo. Sono nelle mani di Dio. Faccio il mio dovere’ E quando don Innocenti chiamandolo al telefono, lo invitava ad essere prudente, tra l’altro, il commissario girava sempre disarmato, perché non intendeva rispondere alla violenza con la violenza, soprattutto quando si trattava di difendere la sua persona, gli disse: “Preferisco affidarmi solo a Dio”.
 Tra le tante testimonianze interessanti, c’è quella di Achille Serra, che era allora giovane collaboratore di Calabresi, successivamente diventerà questore di Milano, prefetto di Roma e deputato in Parlamento. Il Serra ha sempre ammesso di aver ricevuto gran parte della sua professionalità dal grande insegnamento di Luigi Calabresi: “Era un uomo colto, allegro, molto religioso, altruista”. Ancora dirà di lui: “(…)Rimasi affascinato dal suo modo di rapportarsi con i suoi uomini e con gli interlocutori. Di lui mi colpirono il carisma particolare, la voce bassa ma risoluta di chi non ha bisogno di urlare per essere ascoltato (…)Con i manifestanti, poi, Calabresi cercava sempre di instaurare un dialogo (…) Cercava di evitare sempre, finché possibile, lo scontro. Mi sembrava un eroe, un modello da prendere come esempio, un uomo di una umanità e di un coraggio come se ne vedono pochi. Concepiva la professione con la consapevolezza di doversi confrontare con persone che, per quanto colpevoli di azioni criminose, avevano comunque sempre una possibilità di riscatto”. Soprattutto in questi tempi di decadimento dei valori fondamentali, la figura di Calabresi potrebbe diventare “un punto di riferimento e un modello di comportamento. La sua è stata una parabola di un uomo che ha sacrificato la propria vita per difendere la società civile e il sistema democratico, con coerenza e coraggio”.
 Il libro di Garibaldi nelle Appendice & Documenti oltre alla prima intervista di Gemma Calabresi, pubblica l’articolo uscito su “La Nazione” che ha scritto Enzo Tortora, amico di Calabresi, proprio il giorno dopo l’uccisone del commissario. “Luigi Calabresi era un ragazzo di incredibile bontà, di un rigore morale, di uno scrupolo e di una umanità che lo allontanavano le mille miglia dal ruolo di ‘sbirro’ che certuni, per vile calcolo o per comoda polemica, gli avevano appiccicato addosso(…)Quando una volta gli chiesi, nel periodo più buio delle accuse, degli attacchi, degli insulti, come faceva a resistere, senza mai un cedimento di nervi, senza uno scatto, a quell’autentico linciaggio morale al quale era sottoposto, mi rispose sorridendo: ‘E’ semplice. Credo appunto in Dio. E credo nella mia buona fede. Non ho mai fatto nulla di cui io possa vergognarmi. E non odio nemmeno i miei nemici. Ho angoscia per loro, non odio. E’ una parola, ‘odio’, che non conosco”.
 Come si può dedurre il commissario è un santo, un eroe, un soldato cristiano, peraltro con queste caratteristiche è stato descritto in un altro testo che negli anni scorsi ho letto e recensito, “Luigi Calabresi. Un profilo per la storia”, di Giordano Brunettin, pubblicato da Scuola d'Arte "Beato Angelico"di Milano Sacra Fraternitas Aurigarum Urbis, Milano - Roma 2008). "Luigi Calabresi ha vissuto in pieno le 'assurdità' cristiane - scrive monsignor Angelo Comastri nella prefazione - non si è preoccupato del potere ma del dovere, non si è preoccupato della carriera ma della fedeltà alla coscienza, non ha cercato onori ma ha cercato di far onore alla verità e all'onestà. Per questo è stato ucciso; e, dopo l'uccisione, è stato più volte crocifisso da una campagna di menzogne che, finalmente, ora si stanno sciogliendo come la nebbia al sole". Calabresi conoscendo bene l’esortazione di Gesù: "Se qualcuno vuol venire dietro di me, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua"(Lc 9, 23), di fronte alle alluvioni di ingiurie e minacce, confida solo in Dio.
 Qualcuno gli suggerisce il trasferimento in qualche altra città, ma lui risponde, che l'attacco è rivolto allo Stato non a me, quindi, "lo Stato non può fuggire. Non voglio che domani a qualcuno dei miei figli possano dire: tuo padre è fuggito"
 Mario Càristo, paragona la vicenda Calabresi a quella di don Andrea Santoro, il sacerdote ucciso in Turchia, "entrambi rigorosi e pacifici testimoni di Cristo in ambienti fortemente ostili e aggressivi, entrambi colpiti alle spalle dall'odio cui essi contrapponevano la civiltà dell'amore". Sia per don Santoro che per Calabresi era difficile stare in quegli ambienti, ma bisognava stare era il Vangelo che l'imponeva.
 Il cardinale Fiorenzo Angelini definisce Calabresi una figura esemplare di servitore dello Stato, di marito e di padre, di credente convinto e credibile, e per chi non lo ha conosciuto, egli è un personaggio che è doveroso scoprire nella sua straordinaria levatura morale e spirituale. 
 Il libro di Brunettin, ha un particolare merito per il cardinale, "presentare il Commissario Calabresi quale modello ideale anche per le giovani generazioni, che oggi, travolte da un vortice di informazioni approssimative che si riversano in tempo reale sugli schermi informatici, sono costrette, loro malgrado, ad ignorare il passato, sia pur recente, nel quale possono scoprire le radici di valori autentici degni di essere abbracciati e vissuti fino all'eroismo". E in una stagione di emergenza educativa come la nostra, mi sembra un invito da prendere in considerazione.
 E un altro cardinale, Andrea Cordero L. di Montezemolo, dopo averlo indicato come esempio eroico del compimento del dovere e come testimone del Vangelo, si augura che il profilo fatto in questo libro, "venga letto da sempre più vaste cerchie di giovani, specie se essi sono a servizio della Legge e dello Stato, a dimostrazione dei perfetti fondamenti dell'educazione civile e delle ragioni indefettibili della speranza cristiana in qualunque situazione storica". Anche se bisogna obiettare che probabilmente un lavoro del genere meritava essere pubblicato da case editrici più conosciute e presenti nel grande mercato dell'editoria.
Qualche anno fa monsignor Giovanni D'Ascenzi sollecitava di valutare tutti i documenti e verificare se siamo di fronte ad un credente che ha vissuto la fede e l'amore del prossimo in maniera eroica e quindi si augurava che l'autorità ecclesiastica avviasse un processo canonico, perché sia riconosciuta l'eroicità delle virtù del commissario di Polizia Luigi Calabresi.
Il professore Giuseppe Maria ha scritto che Calabresi ha "vissuto la vita nella imitazione di Cristo (...)il mondo, anche oggi, ha bisogno più di santi che di eroi. E Calabresi, uomo del nostro tempo, ha vissuto come sacrificio la sua vita, che è appunto l'eroismo della santità".

 Pertanto mi sembra doveroso ripensare la straordinaria figura del commissario Calabresi, per riflettere sulla sua vita professionale, l'apostolato, la sua spiritualità ignaziana, la vita matrimoniale, come ha affrontato le insidie del mondo.

sabato 10 settembre 2016

L’Empire International Club celebra solennemente a Palermo il 30 settembre 2016 il suo Quarantesimo Anniversario di fondazione

L’Empire International Club celebra solennemente a Palermo il 30 settembre 2016 il suo Quarantesimo Anniversario di fondazione (Pescara, 1976) a Villa Niscemi ricordando l’evento, con la consegna di Premi alla Cultura dedicati al suo secondo Presidente Internazionale, il grande storico dell’antichità e Accademico dei Lincei Prof. Mario Attilio Levi (1902 -1998). Verrà anche presentato il volume del socio Pasquale Attard “Dal Califfato al Regno”. La memoria del grande intellettuale torinese, che fu più volte a Palermo, viene ora messa in luce in questa occasione con il profilo che segue da Tommaso Romano fra i superstiti fondatori dell’Empire, che fu amico ed editore con Thule di due suoi libri, con questa breve memoria biografica e personale, con un inedito e la riedizione di un suo testo.

Mario Attilio Levi:
Memoria di un grande Storico e di un uomo coerente

di Tommaso Romano


Mario Attilio Levi al Convegno del 1980 delle EdizioniThule.
da sinistra Pietro Gerbore, Costantino Vassillakis e Tommaso Romano. 
Scorrendo la copiosissima bibliografia di Mario Attilio Levi (Torino, 12 Giugno 1902 –Milano, 28 Gennaio 1998) non si può non registrare il colpevole oblio che circonda questa straordinaria figura di studioso, di storico  e di uomo. Malgrado le ascendenze ebraiche chiare della propria stirpe, protagonista della Guerra di Liberazione e della presa di Imola, medaglia d’argento al valor Militare, professore emerito e direttore dell’Istituto di Storia Antica dell’Università di  Milano e stimato professore di molte Università straniere (Cornell, Berkeley, Haverford, Puerto Rico) e fra i massimi storici dell’antichità, presidente di centri scientifici di alto livello, accademico dei Lincei, Mario Attilio Levi portò impresso il sigillo dell’uomo libero e coerente,  apertamente  a favore  dell’istituto monarchico, della sua storia e della tradizione nazionale e imperiale, di contro alle egemonie culturali straripanti ieri e oggi in Italia. Non è neppure ricordato  come dovrebbe dall’ambiente umano e socio-politico che pure lo ebbe fra i protagonisti, assai stimato, a cominciare fra gli altri , da S.M.  Umberto II, che lo volle vicino nei raduni legittimisti accanto a Sergio Boschiero (come a Beaulieu sur Mer il 4 Giugno 1978), nella Consulta dei Senatori del Regno (nominato il 20 Gennaio 1973) e nell’Unione Monarchica Italiana quale vicepresidente nazionale e insignito  dallo stesso Sovrano esule a Cascais, con le massime onorificenze tra cui l’Ordine Civile di Savoia per merito culturale. Destino che ha segnato, peraltro,  le “fortune “ di altri storici di quella parte e temperie, basti ricordare Gioacchino Volpe,  Francesco Cognasso, Niccolò Rodolico, Rodolfo de Mattei, Giovanni Artieri ed ora, fra i pochi storici veramente illustri operanti, Aldo Alessandro Mola. Clicca qui per continuare a leggere


domenica 4 settembre 2016

Dorian Gray

di Luca Fumagalli

Dorian Gray, per la regia di Oliver Parker, è un raffinato adattamento cinematografico del grande classico di Oscar Wilde, Il ritratto di Dorian Gray (1891), uscito nelle sale nel 2008.
Nella Londra vittoriana arriva il timido Dorian Gray (Ben Barnes), un giovane di straordinaria bellezza che ha appena ereditato una grande fortuna. Presto conosce Basil Hallward (Ben Chaplin), pittore omosessuale che si invaghisce di lui, e Lord Wotton (Colin Firth), uomo carismatico ma incallito fedifrago che lo inizia ai piaceri della mondanità. Quando Basil termina il ritratto di Dorian a cui stava lavorando da diverso tempo, il ragazzo pronuncia il desiderio di restare giovane per sempre. Inizia così per lui un tour de force tra bordelli e teatri, libertinaggio e tradimenti, senza che il suo volto patisca il segno del vizio. A sfigurarsi e a insozzarsi è la sua anima, il ritratto che un disgustato Dorian ripone in soffitta, chiuso a chiave, lontano dallo sguardo indiscreto dei gentiluomini e delle nobildonne che affollano la sua esistenza e i suoi salotti. Gli anni passano, gli amici invecchiano, mentre lui rimane sempre quello di sempre, fresco e bello grazie al patto diabolico. Nella sua vita, però, inizia a farsi largo un senso di noia e insoddisfazione che si accompagna al crescente sospetto degli amici. Solo l’amore per la dolce Emily (Rebecca Hall), figlia di Lord Wotton, pare in grado sottrarlo al baratro della disperazione.
Oliver Parker, che già sul grande schermo aveva portato due perle del teatro wildiano come Un marito ideale (1999) e L’importanza di chiamarsi Ernest (2002), confeziona questa volta una pellicola più gotica, sostanzialmente fedele al romanzo, che conduce lo spettatore in una dimensione cupa in cui il vizio ha il suo correlativo oggettivo negli squallidi bassifondi londinesi. Il mito di Faust rivive nel mondo vittoriano attraverso lo sguardo colto e profondo di Wilde, che non lesina inchiostro per addentrarsi nella psicologia del suo protagonista. Parker decide di puntare su una regia illustrativa, che si accontenta di riproporre Il ritratto di Dorian Gray – sfrondato solo di qualche dettaglio ancillare – senza tentare di scavare alla ricerca di ulteriori interpretazioni. Una posizione forse troppo prudente, ma che quantomeno non rovina una storia che poteva facilmente prestare il fianco alle folli e improbabili rivisitazioni a cui la cinematografia sta purtroppo sottoponendo diversi classici della letteratura inglese (Orgoglio e pregiudizio zombie è solo il caso limite di una lunga schiera).
Dorian Gray, nel complesso, è un prodotto riuscito, capace di cogliere i turbamenti del giovane protagonista, costantemente tentato dagli inviti peccaminosi di Lord Wotton. A nulla valgono gli appelli di Basil all’onestà, Dorian viene presto risucchiato nella spirale del vizio che non solo lo consuma, ma che rovina inevitabilmente le vite di coloro che gli stanno vicino, fino all’epilogo del sangue. L’abiezione in cui si trova a sguazzare, è uno stagno d’iniquità così profondo che persino lo spregiudicato Wotton alla lunga ne è disgustato.
Parabola del male che sfigura l’anima, delle catene del peccato che lacerano le carni e il cuore, il film è un apologo morale, un invito a considerare la vita come un dono, una possibilità preziosa che non è bene sprecare.

sabato 3 settembre 2016

Famiglia – Intervista a Paolo Gulisano su Tommaso Moro

di Teresa Moro

Proponiamo oggi un approfondimento sulla figura di Tommaso Moro, celebre umanista inglese nato sul finire del Quattrocento e morto martire, che si fece portavoce di un pensiero sulla famiglia di profonda attualità e che merita di essere conosciuto, in quanto condivisibile a livello razionale anche da coloro che non abbracciano la fede cattolica.
Nel fare questo abbiamo intervistato il medico e scrittore Paolo Gulisano, che è recentemente tornato in libreria con un interessante testo dal titolo Un uomo per tutte le utopie (Ancora Editrice, 2016).
Dottor Gulisano, potrebbe innanzitutto dettagliarci brevemente la figura storica di Tommaso Moro e il contrasto socio-politico nel quale si muoveva?
Thomas More, italianizzato come Tommaso Moro, è una delle più straordinarie figure della storia della Chiesa. Visse a cavallo del XV e del XVI, in un momento di transizione drammatico per la sua Inghilterra e per il mondo, che conobbe in quegli anni le terribili fratture della Cristianità operate da Calvino e soprattutto Lutero. Moro fu un avvocato, un padre di famiglia, un grande studioso, un raffinato pensatore, un uomo che viveva intensamente la propria fede. Quando Erasmo da Rotterdam venne a Londra per incontrare questo suo illustre collega, trovò un uomo che non trascurava assolutamente nulla nella vita quotidiana: il lavoro, la famiglia, gli amici, gli impegni pubblici, e tantomeno Dio. Tanto che Erasmo definì l’amico con un’affermazione che ha attraversato i secoli: “Omnium Horarum Homo”, un uomo per tutte le ore. Secoli dopo questa definizione si trasformò in “un uomo per tutte le stagioni”, secondo il titolo che Robert Bolt, uno dei maggiori poeti statunitensi del XX secolo, diede ad una sua opera teatrale che conobbe anche fortunate trasposizioni cinematografiche. La definizione “un uomo per tutte le stagioni” ha finito così per descrivere, nel lessico corrente, esattamente il contrario dell’etica di Moro: allude alla capacità di restare a galla a tutti i costi, ad attraversare varie stagioni politiche, magari attraverso la pratica opportunistica del compromesso.
Si diceva in apertura dell’importanza di Tommaso Moro nella difesa della famiglia naturale. Appena trentenne, il fine umanista aveva dato alle stampe un divertente poema Come scegliere una moglie, nel quale emergeva già il concetto che l’unione sponsale è “per sempre” e che è necessario costruire delle basi solide per poter vivere assieme…
Spesso la vicenda di Tommaso Moro è stata presentata come il conflitto tra un uomo virtuoso e intransigente contro un sovrano volubile e crudele. Una questione personale tra lui e Enrico VIII. In realtà Tommaso si trovò ad affrontare anche un pensiero, quello protestante, che era arrivato anche in Inghilterra, che si proponeva di demolire la visione cattolica dell’uomo e della società. Enrico VIII apparteneva a una dinastia, i Tudor, che si erano impossessati del potere al termine di una guerra civile sanguinosa, condotta senza scrupoli e senza pietà. Con la stessa determinazione il sovrano perseguì il proprio disegno di ottenere l’annullamento del proprio matrimonio per poter impalmare legittimamente la propria amante. Opponendosi a questa pretesa, Tommaso realizzò una insuperabile difesa del Sacramento del Matrimonio, che andrebbe riscoperta oggi in tempi di pericolosi ondeggiamenti dottrinali da parte di certi settori della Chiesa.
Nel 1516 Tommaso Moro diede invece alle stampe Utopia, creando ad hoc una parola per indicare – letteralmente – un “luogo felice inesistente”. Qual è lo scopo di questo libro e quali sono le critiche (create con la sottile arma della satira) che l’umanista muove alla società in cui vive?
Cinquecento anni fa Moro pubblicò un’opera destinata ad essere non solo un capolavoro immortale, ma anche a costituire un vero e proprio paradigma in campo letterario, filosofico e politico. Utopia era uscita dalla sua fervida mente due anni dopo che Machiavelli aveva scritto la sua opera più celebre, Il Principe, la cui morale è rissunta nella celebre espressione “il fine giustifica i mezzi”. Moro è l’anti Machiavelli per eccellenza: il fine non giustifica mai mezzi sbagliati. In Utopia – un termine inventato da Tommaso stesso che derivò il termine dal greco antico con un gioco di parole fra ou-topos (cioè non-luogo) ed eu-topos (luogo felice, vediamo descritto un luogo inesistente ma possibile, anzi: desiderabile) – il grande umanista dipinse un opposto idealizzato della società sua contemporanea, che invece sottopose a una satira sottile. La parola “utopia” da allora entrò nel lessico comune con il significato di sogno, di progetto, di immaginazione proiettata sul futuro.
Eppure Moro era tutt’altro che un sognatore, che un uomo in fuga dalla realtà. Era un uomo estremamente concreto, abituato ad affrontare l’esistenza propria e degli altri, le persone della sua famiglia, coloro i cui casi giudiziari gli erano affidati e che per lui erano sempre prima di tutto persone, e non appunto “casi”.
Utopia è un mondo migliore non per le sue strutture, ma per le sue persone, che vivono con coerenza e fedeltà le virtù umane naturali. A differenza di quanto hanno poi elaborato le ideologie della modernità, non è ponendo determinate strutture societarie che si migliora l’uomo, ma esattamente il contrario: uomini più giusti, retti e virtuosi possono creare società migliori.
Per quanto ha potuto approfondire della figura di Moro, come immagina che potrebbe egli commentare la situazione attuale di crisi del matrimonio e, dunque, della famiglia?
È interessante leggere quanto Moro scrive proprio in Utopia: «Non esiste il divorzio, se non per colpa grave», che Moro precisa essere l’adulterio oppure «comportamenti intollerabili da parte di un coniuge». Talvolta delle situazioni critiche in una famiglia vengono portate alla discussione del Senato, che può eventualmente decidere per lo scioglimento del vincolo. Tuttavia, precisa Moro, «il permesso non è accordato con troppa leggerezza, perché sanno che non c’è nulla di più pericoloso per la stabilità dell’amore coniugale della facile speranza di un nuovo matrimonio». Un’osservazione di una saggezza straordinaria.
Il matrimonio è un bene prezioso, individuale e comunitario, e pertanto va tutelato da tutto ciò che può minacciarlo. Per questo, anche se è permesso uno scioglimento del vincolo “per giusta causa”, le leggi utopiane sono molto severe nei confronti dell’adulterio e sono puniti anche tutti gli atti sessuali commessi fuori dal matrimonio, perché gli utopiani «sono convinti che, se non si frenano le libertà sessuali, pochi si uniranno nell’amore del matrimonio, nel quale si deve trascorrere l’intera vita con la stessa persona, condividendo serenamente anche dolori e disgrazie».
Nel concludere, allarghiamo lo sguardo. Sul tema della famiglia è possibile definire un fil rouge tra diversi autori di lingua inglese, quali Tommaso Moro, John Henry Newman, Gilbert Keith Chesterton, Clive Stapes Lewis, o lo statunitense Fulton Sheen?
Gli Autori che lei cita, e che personalmente mi sono tutti molto cari e dei quali ho scritto, erano uomini appassionati alla Verità, difensori della Fede e della ragione, e vissero tutti in una dimensione di gioia cristiana autentica. Oggi vige il mito della ricerca della felicità, vengono inventarti addirittura degli “assessorati alla felicità”. Una ricerca che tuttavia è essenzialmente di tipo emotivo: faccio ciò che mi piace, che mi fa star bene, che è utile a me. La proposta di Tommaso Moro, così come di Chesterton, Newman e altri grandi cattolici inglesi vaccinati nei confronti dei virus delle ideologie, consiste nel cercare prima di tutto il Bene, cercare la risposta autentica al desiderio umano profondo di felicità e, in ottica cristiana, questa risposta non può essere altro che Cristo.

da:www.libertaepersona.org

venerdì 2 settembre 2016

Una storia falsificata sta cancellando l’Occidente

di Agostino Nobile

Di Facebook possiamo dire tutto il bene e il male che si vuole, ma certamente ci può insegnare qualcosa in più sull’ignoranza dilagante, nonché sulla psicologia umana. Si possono individuare all’istante gli individui che con nozioni di storia risibili postano luoghi comuni come verità assolute. Dopo un breve battibecco si viene a sapere che sull’argomento in discussione l’autore del post ha letto sì e no tre o quattro libri, ignorando che prima di leggere un libro di storia è necessario conoscere la tendenza politico-sociale dell’autore e la casa editrice. Così capita spesso che ci troviamo davanti a un muro di gomma. Avete mai sentito dire a un comunista convinto che il nazismo aveva i suoi lati positivi? Come può un ateo-marxista-laicista scrivere in maniera oggettiva sulla storia del cristianesimo? Personalmente, studio perlomeno da trentacinque anni le ricerche storiche scritte sia da agnostici e atei che da credenti cattolici e non, vivendone oltre dieci nei paesi non cristiani, prevalentemente musulmani. Dunque, non sono stato folgorato sulla strada per Damasco, ma dai fatti e dall’evidenze tangibili. E quando ti trovi a discutere nei post con tipi presuntuosi, forti – si fa per dire – di aver letto due o tre libri senza mai vivere nelle altre culture, capisci che le menzogne storiche hanno fatto più danni all’occidente di una guerra atomica. Nessuno voterebbe certi governi se conoscesse la storia, ed è questa ignoranza che ha reso milioni di cittadini allergici alle elezioni. Oltre alla confusione, da queste menzogne nascono le società liquide, il relativismo, il buonismo e il senso di colpa infondato dell’occidente. I giapponesi l’atomica l’hanno avuta, ma grazie al loro senso di appartenenza sono diventati una potenza tecnologica mondiale. Un’Europa che ignora il suo passato baloccandosi sulla sessualità umana variabile, non avrà nemmeno le lacrime per piangere, perché non sa più piangere.
La scuola, gli pseudo-storici anticattolici così come intellettuali, scrittori, giornalisti e TV, hanno divulgato e divulgano mezze verità e menzogne pesanti come montagne. Questi hanno azzerato qualsiasi forma di reattività a un laicismo e ad un islamismo sempre più aggressivi, al punto di cancellare il naturale rispetto per la propria cultura. Mi arrivano post che, assolvendo l’Islam che uccide e sgozza in non pochi paesi del mondo, ripropone le supposte violenze della Chiesa di otto secoli fa. A parte il fatto che questi individui per coerenza dovrebbero fare le valigie e traslocare in Pakistan, Iran o in un altro paradiso come l’Arabia Saudita dove la costituzione è rappresentata dal Corano, che senso ha parlare di ottocento o anche cento anni fa per dare un aspetto consequenziale ai crimini attuali? Lo storico serio, come il lettore più avveduto, contestualizza i fatti nel periodo in cui si sono verificati. Se duemila anni fa i romani crocifiggevano i delinquenti, non significa che la sindaca attuale di Roma ne è corresponsabile, a meno che il Comune non decidesse di legalizzare il supplizio piazzando le croci ai bordi dell’Aurelia. Ma in certi paesi islamici come l’Arabia Saudita, l’Iran e nell’arcinoto califfato dell’Isis, si continua a decapitare e a sgozzare come ai tempi di Maometto. Detto questo, le violenze dei cristiani erano la risposta a un Islam che durante secoli ha massacrato i cristiani e, per divino mandato, era deciso a conquistare e convertire con le buone o con le cattive l’Europa e il resto del mondo.
Oltre ai soliti sprovveduti che postano ingiurie, perché incapaci di esporre un pensiero coerente con dati documentati, o semplicemente perché hanno problemi caratteriali, devo sorbirmi certi individui convinti che la civiltà musulmana sarebbe stata il “faro”, la “luce” che ha arricchito la cultura europea. Se per cultura intendiamo il processo evolutivo della società come noi l’intendiamo, nei paesi non occidentali non esiste. La prima universitas, come oggi è concepita, è stata fondata dalla Chiesa a Bologna nel 1088, ma in altre forme esistevano già nei monasteri fin dall’Alto Evo. Le scuole collegate ai monasteri erano l’unica forma di istruzione per qualsiasi livello educativo. La prima università extra europea è stata fondata in Turchia, a Costantinopoli, nel 1453.
Se per Platone negli ospedali “Sono degni di cura solo i cittadini liberi e soprattutto quelli che possono guarire sicuramente”, i primi ospedali per tutti i sofferenti sono stati creati dalla Chiesa a partire dall’Alto Evo. In Europa si è sviluppata la scienza, la tecnologia, la filosofia, l’arte, l’architettura e la letteratura. È stata creata la forma del libro e del romanzo, la scrittura musicale e l’armonia, il treno, l’aeroplano, il motore, l’auto, l’elettricità, la lampadina, i farmaci che hanno debellato malattie anche mortali, gli occhiali, la penna a sfera, il cinema, la TV, il telefono, il computer, internet, fino alla lavatrice, l’aria condizionata, etc… Tutto importato dalle altre culture.
Molti anni fa, durante i primi viaggi nei paesi non cristiani mi sono posto la domanda che tutti dovrebbero chiedersi: come mai lo sviluppo ha avuto inizio in Europa e non, per esempio nella cultura induista, buddista o islamica? Leggendo i testi sacri di queste religioni ho avuto la risposta. Per i cristiani, l’universo è creato da un Dio perfetto, e come tale non poteva creare un universo irrazionale o buttato lì con nonchalance senza preoccuparsi dell’uomo. Se l’uomo è stato creato a immagine di Dio, significa che attraverso la razionalità può leggere l’opera del suo Creatore. Sono queste le ragioni che hanno spinto la Cristianità alla ricerca e allo sviluppo. Ed è per questo motivo che la Chiesa ha emarginato gli astrologi, gli alchimisti e i maghi, attività con le quali scientificamente e tecnologicamente l’uomo è rimasto al palo per migliaia di anni. Ha invece sovvenzionato e promosso la ricerca scientifica e la filosofia insegnandole nelle sue università fin dal Medioevo.
James Hannam, dottore in Storia e Filosofia della Scienza presso l’Università di Cambridge, autore del saggio The Genesis of Science: How the Christian Middle Ages Launched the Scientific Revolution (2011), selezionato per l’assegnazione del Royal Society Science Book Prize, afferma quello che tutti gli storici seri concordano: «la Chiesa non ha mai insegnato che la Terra fosse piatta e, nel Medioevo, nessuno la pensava così, comunque. I Pontefici non hanno cercato di vietare nulla, né hanno scomunicato qualcuno per la cometa di Halley. Nessuno, sono lieto di dirlo, è stato mai bruciato sul rogo per le sue idee scientifiche. Eppure, tutte queste storie sono ancora regolarmente tirate fuori come esempio di intransigenza clericale nei confronti del progresso scientifico». Fino alla Rivoluzione francese, continua lo storico «la Chiesa cattolica è stata lo sponsor principale della ricerca scientifica. La Chiesa ha anche insistito sul fatto che la scienza e la matematica avrebbero dovuto essere obbligatorie nei programmi universitari. Nel XVII secolo, l’ordine dei Gesuiti era diventata la principale organizzazione scientifica in Europa, con la pubblicazione di migliaia di documenti e la diffusione di nuove scoperte in tutto il mondo. Le cattedrali sono state progettate anche come osservatori astronomici per la determinazione sempre più precisa del calendario».
Allora, un occidente tutto rose e fiori? Nella storia degli ultimi duemila anni gli errori e le tragedie abbondano – come in tutte le culture di tutti i tempi – ma i crimini contro l’umanità, come lo schiavismo e i genocidi, non sono da addebitare alla Chiesa, bensì a quelle culture, sette e lobbies che hanno combattuto e combattono tutt’oggi contro di essa. Senza il cristianesimo l’Europa sarebbe rimasta allo stesso livello delle altre culture, anche quelle che hanno conosciuto la civiltà Greca. Gli arabi, come alcuni paesi asiatici, conoscevano i grandi maestri ellenici, ma come sappiamo hanno dovuto attendere l’occidente per apprendere il concetto di sviluppo o, come lo chiama il mondo moderno, progresso.
Nonostante queste evidenze, le falsità diffuse fino ad oggi in occidente hanno creato un senso di colpa totalmente infondato. Hanno massacrato il buon senso con le menzogne. I nemici dell’uomo ci hanno convinto che coloro che amano veramente l’umanità sono i peggiori nemici. E noi, nonostante la gravità economica e sociale ci trascinano dritti al tracollo, gli crediamo. È per questa ragione che ho scritto (permettetemi la sfacciata autopromozione, ma con quello che circola mi sembra opportuna) il mio nuovo libro “Quello che i cattolici devono sapere- Almeno per evitare una fine ridicola” – Ed. Segno, con la speranza di poter aprire gli occhi a chi non vuole perdere le proprie radici. Per chi non vuole essere costretto, ateo o credente che sia, a vendere per una ciotola di riso se stesso e i propri cari ad una politica laicista che sta cancellando quel cristianesimo che ha stabilito i diritti dell’uomo come la libertà e il rispetto della dignità umana. L’ho scritto per chi crede che senza il cristianesimo il mondo sarebbe migliore, dimenticando che il secolo degli ateismi ha fatto più morti ammazzati in pochi anni di quanti ce ne sono stati in duemila anni. Per informare che le lobbies massoniche e compagnia bella hanno progettato l’impianto di biochip anche sui neonati, per costringerci all’ubbidienza dalla nascita all’eutanasia. Se non riconosciamo al più presto i veri nemici dell’umanità non troveremo nemmeno la strada del ritorno.

da: www.radiospada.org

giovedì 1 settembre 2016

Il Novecento segnato dal totalitarismo comunista .

di Domenico Bonvegna

Ancora oggi non si comprende perchè c'è più letteratura relativa al fascismo che all'esperienza del totalitarismo sovietico comunista. Basta frequentare una qualsiasi libreria per constatare l'evidente disparità. L'ottimo studio di Richard Pipes, “Il regime bolscevico”, Mondadori (1999) cerca di rispondere anche a questo quesito. Intanto perchè per gli storici di sinistra e poi all'interno dell'Urss, il fascismo è stato considerato l'antitesi del socialismo e del comunismo. Un altro motivo per Pipes è perchè per molto tempo agli occidentali rimase nascosta la vera natura del regime comunista e peraltro è stato studiato poco, almeno durante le due guerre. Un terzo fattore che impedì di analizzare l'influenza del bolscevismo su fascismo e nazionalsocialismo,“fu la determinazione con cui Mosca riuscì a bandire dal vocabolario del pensiero “progressista” l'aggettivo “totalitario”, in favore di “fascista”, per descrivere tutti i movimenti e i regimi anticomunisti”. 
Il Komintern decise che si applicava il termine “fascista” a tutte le dittature in Europa, comprese quelle “benigne come quelle di Antonio Salazar in Portogallo e di Pilsudski in Polonia”, sempre secondo il Komintern tutte erano prodotte dal “capitalismo finanziario” e strumenti della borghesia.
Le prime analisi del fenomeno totalitario del regime comunista furono effettuate dagli storici tedeschi, che avevano avuto l'esperienza del nazismo. Anche se poi questi storici sono stati tutti aggrediti verbalmente, ma anche in altri modi come Renzo De Felice, perchè avevano avuto la temerarietà di associare in qualche modo Mussolini o Hitler con il comunismo. 

Mussolini e Hitler simili a Lenin.
Lo storico americano di origini polacche, risponde alla domanda perchè è importante lo studio del fascismo italiano e del nazionalsocialismo tedesco in relazione alla rivoluzione russa. Formula almeno tre motivi.“Innanzitutto, Mussolini e Hitler si servirono dello spettro del comunismo per terrorizzare la popolazione e convincerla a conferire loro poteri dittatoriali. In secondo luogo, entrambi impararono moltissimo dalle tecniche bolsceviche, quando crearono un partito fedele alla loro persona per prendere il potere e instaurare una dittatura monopartitica. Sotto entrambi gli aspetti il comunismo influenzò più il 'fascismo' che il socialismo e il movimento sindacale. E in terzo luogo, la letteratura sul fascismo e sul nazionalsocialismo è più ricca e più sofisticata di quella sul comunismo: conoscerla aiuta a comprendere assai meglio il regime prodotto dalla rivoluzione russa”. 
Certo non si può dire che il fascismo e il nazismo siano stati “provocati” dal comunismo. Però si può sostenere che“tutti gli attributi del totalitarismo avevano antecedenti nella Russia di Lenin: un'ideologia ufficiale onnicomprensiva; un partito unico di eletti, guidato da un 'capo' che dominava lo stato; il terrore poliziesco; il controllo dei mezzi di informazione e delle forze armate da parte del partito dirigente; il controllo centralizzato dell'economia[...]” Pipes è ancora più preciso nelle somiglianze delle ideologie del Novecento:“Nessun eminente socialista di prima della grande guerra somigliava più a Lenin di Benito Mussolini. Come Lenin, Mussolini dirigeva l'ala antirevisionista del partito socialista del suo paese[...]Avrebbe potuto benissimo diventare un Lenin italiano, se non si fosse fatto espellere dal PSI nel 1914[...]”. Mussolini allo stesso modo di Lenin risolse il problema di fare la rivoluzione senza avere dalla loro parte la classe degli operai, vi riuscirono,“ricorrendo alla creazione di un partito elitario che instillasse nei lavoratori lo spirito della violenza rivoluzionaria”. 
Pipes ci informa che Mussolini “non nascose mai la propria simpatia e ammirazione per i comunisti, nemmeno come capo dei fascisti: aveva un'alta opinione dell'energia brutale' di Lenin, e non trovava nulla da obiettare per i massacri di ostaggi compiuti dai bolscevichi”. Addirittura, “riconosceva con orgoglio il comunismo italiano come una propria creatura”. 

Le rivoluzioni di “destra” e di “sinistra”.
Pipes dai suoi studi fa emergere che sbagliano quelli che hanno considerato quella del fascismo e del nazionalsocialismo non rivoluzioni, ma insurrezioni nazionalistiche. Invece sono delle vere rivoluzioni che magari possono essere definite di “destra”, che si scontrano con quelle di “sinistra”, ma“il fatto che i due schieramenti si contrappongo come nemici mortali deriva dalla competizione per la conquista di una massiccia base, non dal disaccordo su metodi e obiettivi”. Sia Hitler che Mussolini si consideravano rivoluzionari, per Rauschining, il nazionalsocialismo era più rivoluzionario del comunismo o dell'anarchismo.
Ma l'affinità più significativa fra i tre movimenti totalitari, secondo Pipes, riguarda l'ambito psicologico:“il comunismo, il fascismo e il nazionalsocialismo esacerbavano e sfruttavano il risentimento popolare di origine classista, razziale ed etnica, per conquistare l'appoggio delle masse e confermare l'idea che fossero loro, e non i governi democraticamente eletti, a esprimere realmente la volontà del popolo. Tutti e tre facevano appello al sentimento dell'odio”. Peraltro secondo il grande storico francese Pierre Gaxotte, nel libro,“La rivoluzione francese” scrive che furono i giacobini per primi a comprendere le potenzialità politiche del risentimento di classe. Poi Marx partendo dallo studio della rivoluzione francese e delle sue conseguenze formula “la teoria della lotta di classe come caratteristica dominante della storia”.
Pertanto, secondo Pipes,“i movimenti rivoluzionari, siano essi di destra o di sinistra, devono avere un bersaglio da odiare, perchè è immensamente più facile indurre le masse a schierarsi contro un nemico visibile che in favore di un'astrazione”.
Pipes descrive come era considerato il partito per le tre organizzazioni totalitarie, i veri partiti tradizionali cercano di accrescere il numero degli iscritti, quello comunista, fascista, nazista “erano elitarie per natura”. L'ammissione non era facile, assomigliavano a confraternite.“Il modo in cui il Partito bolscevico, quello fascista e quello nazista si impadronirono dell'amministrazione nei rispettivi paesi fu praticamente identico”. Certo Pipes fa delle distinzioni, per quanto riguarda la liquidazione degli oppositori dei regimi, benchè Mussolini si pronunciasse a favore della violenza,“il suo regime, rispetto a quello sovietico e a quello nazista, era davvero moderato e non ricorse mai al terrore di massa”. 

La manipolazione delle masse nei regimi totalitari.
Sono interessanti le considerazioni di Pipes sull'espropriazione politica del popolo che in pratica non partecipava a nessuna attività politica, non aveva alcuna voce nelle vere decisioni politiche. Esisteva il surrogato della partecipazione. Questi surrogati per Pipes erano di due generi: “'elezioni' farsa, in cui il partito al potere si aggiudica regolarmente il novanta per cento o più dei voti; e grandiosi spettacoli che creano l'illusione del coinvolgimento di massa”. Infatti si ricorre alle parate, alle adunate, ai spettacoli teatrali all'aperto, cose che hanno fatto per primi i giacobini. 
“Le masse erano manipolate”,“la folla diventava una personalità collettiva specifica”, atti spiegati molto bene dal sociologo Gustave Le Bon in un libro, “Psicologia delle folle”, letto da tutte e tre i nostri capi partito. Pipes riconosce quei metodi, nell'occupazione di Fiume dal poeta-politico Gabriele D'Annunzio,“il susseguirsi dei festeggiamenti in cui D'Annunzio svolgeva il ruolo del protagonista doveva abolire la distanza tra il capo e i suoi seguaci, e i discorsi dal balcone del palazzo municipale alla folla sottostante (accompagnati da trombe) avevano lo stesso scopo”. Sia Mussolini che gli altri dittatori moderni “consideravano questi metodi indispensabili, non per l'intrattenimento, ma come rituali destinati a dare agli oppositori e agli scettici l'impressione di un legame inscindibile fra governanti e governati”. 
Nelle adunate, nei raduni o spettacoli all'aperto, sono stati insuperabili i nazisti, come non ricordare tutti quegli “uomini in uniforme allineati come soldatini di piombo”. 
La distinzione tra regimi autoritari e totalitari.
Concludo il mio studio, che doveva essere un articolo, con la puntuale distinzione dello storico americano, tra l'”autoritarismo” e il “totalitarismo”. Tra i regimi autoritari e quelli totalitari di Lenin, Hitler e Mussolini, anche se quest'ultimo per alcuni studiosi può essere catalogato in quelli autoritari. Pipes riferendosi agli studi di Karl Loewenstein, così distingueva i due sistemi:“[...]Di regola il regime autoritario si limita al controllo politico dello stato senza aspirare alla dominazione totale della vita socioeconomica della comunità...Il termine 'totalitario' invece si riferisce al dinamismo socioeconomico, al modo di vivere di una società statalizzata[...]”.
Tuttavia per Pipes, la distinzione fra i due tipi di regimi antidemocratici è fondamentale per capire la politica del XX secolo. E polemicamente così si pronuncia:“Solo per una persona irrimediabilmente intrappolata nella fraseologia marxista-leninista potrebbe risultare difficile comprendere la differenza fra la Germania nazista e, diciamo, il Portogallo di Salazar o la Polonia di Pilsudski. Contrariamente ai regimi totalitari, che cercano di modificare alla radice la società esistente e persino di rifare l'uomo, i regimi autoritari sono difensivi, e in questo senso conservatori. Nascono quando le istituzioni democratiche, sopraffatte da interessi politici e sociali inconciliabili, non riescono più a funzionare come si deve. In fondo – scrive Pipes – sono degli strumenti per prendere decisioni politiche con maggiore facilità”.
In particolare i governi autoritari per governare fanno riferimento alle “fonti tradizionali di supporto, e ben lungi dal tentare di impegnarsi nell'ingegneria' sociale, cercano di conservare lo status quo”. Infatti scrive Pipes in tutti i paesi, ogniqualvolta i dittatori autoritari sono morti o sono stati spodestati, i loro paesi non hanno avuto grandi difficoltà nel restaurare la democrazia. Si veda il caso Augusto Pinochet in Cile o quello di Francisco Franco in Spagna.
Pertanto e concludo veramente, in base a questi criteri per Pipes, “soltanto la Russia bolscevica all'apice dello stalinismo può essere definita uno stato totalitario pienamente sviluppato”. Forse neanche la Germania nazista, nonostante copiasse i provvedimenti bolscevichi, “non fu all'altezza di quanto Lenin aveva progettato e Stalin realizzato”.
Il libro di Pipes affronta anche la guerra del bolscevismo alla religione, un tema che meriterebbe essere affrontato, lo faremo in qualche altra occasione.