sabato 30 luglio 2016

Pubblichiamo una poesia di Vittorio Riera

Fantasticaria di menzu austu

E nuru m'apparsi re di la notti
un sonnu ntra li vattali di latti
d'un celu fora d'ogni tempu e spaziu
nni l'abbracciu chi l'arma scunvulgia
di stiddi e planeti supra trazzeri
rutulanti astrali a l'aspettu mutu.
E tu, tu t'adumbravi picciotta
a li sguardi vugghiusi viaggiaturi
di stiddi ncerca e terri mistiriusi
ntra li to' trizzi scuri a suppurtari
l'affannu cuntinu di lu camminu.
Minzogna lu to chiantu tardivu 
lu to duluri e l'orgasmu to privu 
è d'ogni nobbilitati, caruta
nni la luci cavura di la notti
vutti incuta di vinu divinu
a lu surgiri lentu di li forzi.
E fora chiovi nni sta notti d'austu,
stiddi chiovinu a milli faiddi
d'argentu nni lu celu scuru e mutu
specchiu di terri e timpi stirminati
chi lu suli assula comu tavula di mari
quannu manca na vava di ventu.
Avvampa allura lu viola cu l'arsizzi
spini di li cardi chi sparanu culura
ni lu disertu vivu di li corpi
sfatti di ciumi chini di lurdia.
E vidia l'occhiu me vidia tunnu
suli addumari lu scuru vacanti
di celi unni orbi abbruciati di gelu
prieri gridavanu chi nuddu sinteva.
Taliava la luna annacannusi giarna
isati nta l'aria manu stuccati
di lu focu di lu duru travagghiu.
Rivugghiu jocu di focu di stiddi
nto 'n celu mutu spiranzusu biancu
comu pisci saittanti ni lu biveri.
A peri caminava lentu e straccu
'n arcudinuè acchianava pittatu
d'un sulu culuri un culuri novu
c'a l'impruvisu tuttu si rumpeva
si disfacia e iu careva comu
dintra un pozzu nivuru e senza funnu
la testa sbattuliannu contru un muru 
lippusu e cu spuntuna chi mi sfardavanu
li carni d'unni nveci chi sangu
vermi niscevanu a milli bavusi.
Poi fu lu novu suli chi di luci
cummigghiò lu novu iornu.

mercoledì 27 luglio 2016

L'informazione missionaria di Asianews.

Leggendo il corposo saggio“Il Settimanale cattolico”di don Giorgio Zucchelli sui settimanali cattolici edito dalla Libreria Editrice Vaticana (2014), il giornalista per rilanciare i periodici cattolici, associati al FISC (Federazione italiana settimanali cattolici) scriveva che rispetto ad altre testate giornalistiche, questi possono utilizzare le notizie dei tanti missionari sparsi nel mondo, che diventano informatori di prima mano. Pertanto questi settimanali possono avere notizie che altri giornali non hanno.
E' una sacrosanta verità, basta sfogliare, il mensile “Asianews”, del Pontificio Istituto Missioni Estere, diretto da padre Bernardo Cervellera. Ma soprattutto per conoscere tempestivamente cosa succede in Asia, basta visitare il sito internet di Asianews.it, aggiornato giornalmente. Non per niente padre Cervellera è stato ampiamente intervistato dai tg della televisione, dopo il grave attentato jihadista nell'Holey Artisan Cafè, di Dhaka nel Bangladesh, che ha causato la morte di nove italiani.
Per quanto riguarda il giornale cartaceo, che ricevo puntualmente ogni mese, nell'ultimo numero di giugno-luglio 2016, si possono leggere servizi che certamente la grande stampa, spesso ignora volutamente.
Nell'editoriale, padre Cervellera racconta del pellegrinaggio del 24 maggio scorso, dei fedeli cinesi al santuario della Madonna di Sheshan. Dal 2008 in poi, nel timore di vedere radunate troppe persone unite nella stessa fede, il governo comunista ha permesso di partecipare al pellegrinaggio soltanto alla diocesi di Shanghai. “Il punto è che il governo cinese vede ancora il cristianesimo (e tutte le religioni) come qualcosa di negativo, da controllare, e non si accorge che la dimensione religiosa è parte dell'esperienza umana e anzi, grazie ad essa si può costruire una moralità nella società che l'ideologia non riesce a garantire”.
Nelle rubriche in breve del mensile del Pime, apprendiamo che le città asiatiche sono le più inquinate del pianeta. Secondo l'Oms, otto cittadini su dieci nel mondo vengono affetti dall'inquinamento atmosferico, la maggior parte dei quali si concentra nelle capitali del continente asiatico. Sembra che la città più inquinata sia Peshawar, nel nord-est del Pakistan.
Nelle Filippine, Rodrigo Duterte è il nuovo presidente.“Sarò il dittatore contro tutti gli uomini cattivi e malvagi[...]Giudicatemi – ha detto – non dai titoli dei quotidiani, ma alla fine del mio mandato”. Duterte è stato sindaco per 22 anni di Davao City (sud Mindanao), città che ha trasformato – scrive Asianews – da luogo arretrato e malavitoso a 'città più sicura d'Asia'. Con la politica del pugno di ferro, il politico ha sradicato la criminalità nel territorio[...]”La lotta alla criminalità, dalla spaccio di droga e al terrorismo islamico, è stata il cavallo di battaglia della sua campagna elettorale”. Bisogna andare nelle Filippine per capire come risolvere certi problemi delle città italiane?
Mentre in Giordania con il denaro raccolto dal padiglione della Santa Sede in occasione dell'Expo 2015 di Milano, è stato creato un “Giardino della Misericordia”. Si tratta di un appezzamento di terreno, dove sono stati piantati alberi da frutto che garantirà lavoro per alcuni cittadini in fuga dalla guerra. Altra notizia, in Pakistan succede che un gruppo di musulmani finanzi la costruzione di una piccola chiesa cristiana.
In India, una donna indiana ha dato alla luce il suo primo figlio all'età di 72 anni grazie alla fecondazione in vitro. Il dott. Pascoal Carvalho, membro della Pontificia  Accademia per la vita, intervistato da Asianews, ha detto: “La nascita di quel bambino è frutto della globalizzazione dell'indifferenza e solleva serie questioni etiche e morali. La professione medica si è ridotta ad una guerra lampo di marketing”. Nel servizio viene denunciata l'abituale pratica del turismo medico in India dove facilmente si ottengono i trattamenti in vitro o la maternità surrogata. Nel paese ci sono più di 500 cliniche. E' una fiorente industria medico-tecnologica, oltre che deplorevole e pericolosa, senza regole formali o preoccupazioni di carattere legale, morale ed etico, scatena la corruzione e i raggiri.
In questo numero il giornale del Pime presenta il testo del messaggio di Papa Francesco sulla Giornata Missionaria Mondiale del 2016. Il Papa ci invita ad “uscire”,“come discepoli missionari, ciascuno mettendo a servizio i propri talenti, la propria creatività, la propria saggezza ed esperienza nel portare il messaggio della tenerezza e della compassione di Dio all'intera famiglia umana”.
Nel Vietnam viene denunciato un disastro ambientale da monsignor Paul Nguyen Thai Hop, che protesta con il governo di Hanoi di non fare nulla per risolvere la grave questione. Ogni giorno vengono riversati da un'industria taiwanese 12mila metri cubi di liquido tossico nelle acque sotto costa. Questo causa la morte di centinaia e migliaia di pesci e mettendo in ginocchio i pescatori delle province centrali del Vietnam. Chi manifesta per denunciare questo crimine viene arrestato e percorso a sangue.
Per quanto riguarda la situazione della Siria, il vicario apostolico dei latini di Aleppo, monsignor Georges Abou Khazen e diverse personalità della Chiesa siriana e del Medio Oriente, tra cui monsignor Pierbattista Pizzaballa, lanciano la campagna contro le sanzioni al popolo siriano. E' importante sostenere questa e altre iniziative, perché le sanzioni, “finiscono per colpire solo la gente povera, non toccano i grandi”, e soprattutto esse “non servono per far cessare la guerra”. Quando leggo notizie sulla Siria, non posso non ricordare gli anni 90, quando il governo siriano di Hafiz al-Assad, il padre di Bashar, spadroneggiava tenendo in scacco il popolo cristiano libanese che combatteva per l'indipendenza del Paese.
Dario Salvi per Asianews propone un diario di due settimane di guerra da Aleppo. Cittadini sotto shock, scuole e negozi chiusi, ospedali e case bombardate, universitari costretti nei sotterranei, centinaia di morti. Intanto la Chiesa locale ha deciso di consacrare la città al Cuore Immacolato di Maria, per “illuminare le menti di chi semina violenze e odio”.
In Pakistan si registra una storia di ordinaria persecuzione nei confronti dei cristiani, Michael Masih è stato oggetto di un attentato perchè aveva difeso i cristiani.
Dalla Corea del Sud, arriva invece una bella ed edificante notizia, due suore, Marianne e Margaret, austriache, hanno speso una vita per curare i lebbrosi della Corea.“Non ho mai accettato di farmi intervistare, perché non c'era nulla di speciale nella mia vita. Non ho fatto nulla di straordinario nei miei anni sull'isola di Sorok”. Risponde così suor Marianne Stoeger a chi le chiede come mai non abbia accettato di farsi conoscere prima dall'opinione pubblica e perchè abbia rifiutato onorificenze e sovvenzioni. La loro vita quotidiana, “non sarebbe nulla senza Dio. Lui ci è sempre vicino, e lo ha dimostrato con il dolore di Cristo sulla croce”. Conclude suor Marianne. “Lui è morto nel dolore, e grazie a questo noi possiamo vivere con gioia la nostra vita e la nostra fede. Se capisci che Gesù vive in ognuno di noi puoi amare ogni essere umano, non importa quanto non ti piaccia”. Sembra di sentire Madre Teresa di Calcutta.
Per quanto riguarda la rubrica sull'islam, Asianews intervista il patriarca caldeo Mar Louis Raphael Sako che invita i politici irakeni ad adottare “saggezza e calma” per dar vita a una “vera riconciliazione”, in grado di mettere fine a “questo degrado economico, istituzionale e della sicurezza”. “Basta divisioni, serve un progetto condiviso per la rinascita dell'Iraq”.
Pierre Balanian, nonostante le maglie della censura e dei blocchi messi in atto dai miliziani fondamentalisti, ci racconta cosa succede nell'inferno di Raqqa, governata da Daesh, fra stato di emergenza, fratture interne e diserzioni.
Sembra che la condanna a morte di un bambino musulmano siriano, di nome Muaz Hassan, di appena sette anni, abbia aperto una breccia anche all'interno dell'Isis. “Molti si sono chiesti come possa un bambino di sette anni pensare ad insultare l'essenza divina o che cosa possa aver detto che sia interpretabile in tal senso”.Inoltre pare i carcerati in mano all'Isis vengono uccisi per risparmiare denaro e ridurre le spese, in un periodo in cui i proventi derivanti dalla vendita del petrolio e di reperti archeologici segnano il passo.

Infine come al solito il giornale dedica ampio spazio alla Cina. Padre Cervellera riflette sul silenzio dei governanti cinesi sui 50 anni della Rivoluzione Culturale in Cina e in Occidente. Il sacerdote ricorda il Grande Balzo in Avanti del leader Mao Tze Tung, che ha portato alla morte almeno 35 milioni di persone. All'estero molte università studiano questo periodo determinante per la storia della Cina, mentre all'interno del Partito comunista cinese non si permette alcun studio approfondito e alcun dibattito pubblico.

lunedì 25 luglio 2016

Legolas, gli elfi e la morte

di Isacco Tacconi

Nell’addentrarci fra le «sub-creature» e le antichità della Terra di Mezzo non possiamo non imbatterci in un colossale paradosso: gli elfi. Devo ammettere che la mia idea originaria era di trattare in un unico saggio Legolas e Gimli insieme, ma mi sono dovuto subito ricredere in quanto sia l’uno che l’altro, più che essere dei personaggi “gravidi di significati”, mi sono parsi dei pretesti e delle occasioni per dire qualcosa sulle loro razze.
Partiamo dal dato assodato che queste creature non sono un’invenzione di John Ronald Reuel Tolkien o, quanto meno, non nominalmente giacché appartengono in generale al patrimonio mitologico e religioso nordico e, in modo particolare, alle culture germanica e celtica. Creature leggendarie con il nome di «elfi» popolavano abbondantemente le tradizioni e i racconti trasmessi oralmente nell’Inghilterra pre-cristiana, anche se in inglese i termini «elf» e «gnome» molto spesso indicano le stesse creature e, di fatto, sono quasi sinonimi. Eppure, se approfondiamo la mitologia norreno-scandinava scopriremo che essa deriva a sua volta dalla più antica e, quasi post-diluviana, mitologia indoeuropea comune a molti popoli antichi del bacino mediterraneo, dalla penisola iberica fino al mar baltico. Gli elfi perciò sono creature presenti, anche se con nomi e forme diversi, in tutte le culture e civiltà del ceppo indoeuropeo. Molto spesso considerati degli spiriti buoni assimilabili alle ninfe o agli angeli, guardiani dei boschi, depositari di un sapere soprannaturale sconosciuto agli uomini. Diversamente gli gnomi, nelle tradizioni leggendarie di un tempo, erano più spesso rappresentati come piccoli uomini barbuti abitanti nelle regioni sotterranee, considerati lavoratori di miniere e custodi di tesori. In questo alcune tradizioni sovrappongono indistintamente nani, elfi e gnomi. In effetti, la tradizione, per così dire, “elfica” dei popoli nord-europei si è trasmessa e arricchita, è d’uopo dirlo, grazie al cristianesimo e principalmente attraverso l’opera di recupero e conservazione dei monaci. Basti citare il celebre poema epico del nord conosciuto come “Edda”, frutto dell’opera filologica e poetica dello scrittore islandese cristiano Snorri Sturluson (1178-1241). Scritto in lingua islandese medievale che formava un unico idioma con il norvegese antico, l’Edda costituì per Tolkien, insieme ad altri manoscritti delle antiche civiltà nordiche, una copiosa fonte d’ispirazione.
Tuttavia, anche se il concetto di «elfo» è mutuato dalle tradizioni mitologiche norrene, certamente gli elfi («eldar») di Tolkien costituiscono delle creature del tutto originali con le quali si è aperto un modo del tutto nuovo di concepirli e rappresentarli.
Ma prima di entrare nel vivo della presente trattazione vorrei, ancora una volta, palesare il mio intento. A scanso di equivoci vorrei precisare che questi brevi saggi tolkieniani non hanno la benché minima pretesa di porsi come autorevoli e infallibili interpretazioni dell’opera di J.R.R. Tolkien né, tantomeno, di intraprendere un’opera rigorosa di studio e comparazione dei suoi testi di tipo “scientifico”. Personalmente trovo le analisi manualistiche di testi spirituali (perché le fiabe sono racconti eminentemente spirituali) profondamente noiose e astruse, nonché affette da una certa vena di razionalismo psicologista. Un po’ come avviene nella pseudo-esegesi biblica contemporanea in cui i testi ispirati della Sacra Scrittura vengono affrontati e letti con le stesse intenzioni con cui un grafologo si accosterebbe a una romantica lettera d’amore inviatagli dalla propria amata. Questo è semplicemente disumano, perché svuota la realtà della sua essenza profondamente spirituale cioè metafisica, riducendo ogni conoscenza a mero fenomeno empirico da possedere, manipolare e archiviare. Assumere un atteggiamento del genere nei confronti dei racconti fiabeschi o delle leggende (come d’altra parte della Sacra Scrittura) è, come dicevo, disumano perché ignora ciò che di eterno ed immutabile c’è in essi, relativizzandone le singole peculiarità in un flusso storicistico ed evoluzionistico contingente e sempre mutevole. Una tale visione è obiettivamente “esanime” cioè senz’anima, è materiale o meglio materialistica ed impedisce di scorgere la verità, alla quale non si può arrivare con l’enciclopedia e il microscopio ma solo con l’umiltà.
Pertanto la mia personale prospettiva è quella di considerare i manoscritti di Tolkien un po’ come la mappa di Thorin nella quale ci sono alcune cose che si leggono ad occhio nudo (le rune visibili), ed alcune altre che si possono scorgere solo «in trasparenza» cioè alla luce della luna, come le rune lunari. Queste lettere lunari “non le si può vedere – disse Elrond – non quando le si guarda direttamente. Si può vederle soltanto quando la luna brilla dietro di esse”[1]. Ricercare ciò che a prima vista non è visibile, infatti, non significa cercare ciò che non esiste inseguendo le proprie vane illusioni, bensì contemplare l’intima consistenza della realtà sotto la luce discreta e delicata della grazia, per scoprire la causa prima della bellezza, della bontà e della verità che essa manifesta velatamente come il motivo di un canto antico che, per qualche recondita ragione, risuona nel nostro cuore come se, in fondo, l’avessimo sempre conosciuto.
Inoltre, non vorrei ripetere nulla di quanto autori ben più autorevoli del sottoscritto hanno affermato su Tolkien e le sue opere ma, ad imitazione dell’Apostolo San Giovanni, vorrei dire, se possibile, qualcosa che non è stato ancora detto. Personalmente amo la Passione di Cristo secondo San Giovanni più di tutti gli altri racconti evangelici, poiché il pathos che attraversa ogni sua singola pagina è la palpitante espressione di quell’agàpe che il giovane discepolo visse così intensamente tanto da meritare di essere amato dal Cristo più degli altri apostoli. Ma il tema della relazione tra conoscenza e amore lo abbiamo già affrontato precedentemente perciò non ci tornerò sopra in questa sede.
Insomma, per dirlo con un’altra metafora, per scorgere quella che definirei la «metafisica tolkieniana» bisogna inforcare le lenti soprannaturali, e intravedere così ciò che dietro la natura delle cose si cela animandone le fibre più intime e vitali. Ogni personaggio tolkieniano è portatore di valori e simboli diversi, ma nessuno di essi è riducibile ad una banale equivalenza del tipo «Gandalf corrisponde a Gesù», o «Saruman è Caifa», o «Galadriel rappresenta la Vergine Maria», no, non è così, e spero di non aver ingannato i lettori dando loro questa falsa e presuntuosa impressione. D’altra parte, lo stesso Tolkien ha più volte tenuto a prendere le distanze da qualsiasi forma di allegoria razionalista. Al contrario un uomo con una visione così penetrante della realtà come il nostro Professore di Oxford disse: «c’è una morale, suppongo, in ogni storia che valga la pena di essere raccontata» e in ogni storia vera «gli attori sono individui: ognuno di loro, naturalmente, contiene l’universale, altrimenti non vivrebbero affatto, ma non si rappresentano mai come universali»[2]. Vale a dire che in un hobbit, come in ognuno di noi, “c’è molto di più di quanto non colpisca la vista”.
Dunque. Da dove cominciare? Ah sì! …gli elfi!
Questi esseri fatati, nell’accezione antico-inglese di fatato cioè «faërie», non sono solo espressione della fantasia di popoli superstiziosi o, come ci ha abituato una visione evoluzionistica della storia del mondo, creazioni di una primitiva ed ingenua “età infantile” dell’umanità. No, gli elfi sono in qualche modo dentro di noi e intorno a noi giacché sono una rappresentazione plastica, ossia uno dei tentativi di dare un volto e un’identità ad uno degli aneliti più profondi e intimi dell’uomo: il desiderio dell’immortalità. Ma, a questo proposito, vorrei lasciare parlare direttamente il nostro Anfitrione di Oxford: “Elfi e uomini sono solamente due diversi aspetti dell’umanità, e rappresentano il problema della morte così come viene vista da persone finite ma consapevoli e di buona volontà. In questo mondo mitologico elfi e uomini sono affini nelle loro forme incarnate, ma nel rapporto dei loro spiriti con il mondo rappresentano esperimenti diversi, ognuno dei quali ha il suo naturale sviluppo e le sue debolezze. Gli elfi rappresentano l’aspetto artistico, estetico e puramente scientifico della natura umana ad un livello più elevato di quanto non si possa in realtà trovare negli uomini. Cioè: hanno un amore infinito nei confronti del mondo fisico, e il desiderio di osservarlo e di capirlo per la propria e l’altrui salvezza — in quanto realtà derivata da Dio così come loro stessi derivano da Lui — e non come materiale che può essere utilizzato per acquistare potere. Essi possiedono anche elevate capacità artistiche o «subcreative». Sono inoltre immortali. Non «per l’eternità», ma all’interno del mondo creato, finché questo dura. Se uccisi, perché la loro forma incarnata viene ferita o distrutta, non sfuggono al tempo, ma rimangono nel mondo, benché disincarnati, oppure rinascono. Tutto questo finisce per diventare un grave fardello man mano che le epoche si allungano, specialmente in un mondo in cui esistono malizia e distruzione”[3].
Ho già accennato qua e là nei precedenti saggi che il tema centrale di tutto il Signore degli Anelli, e direi di tutto il «corpus tolkienianum», è proprio la Morte. In questo sfondo tutt’altro che melanconicamente romanticista ma anzi profondamente realista, Tolkien crea e inserisce i suoi elfi. In effetti, a ben pensarci, la realtà che più ci fa presente il valore e la consistenza della vita è proprio la morte. Costoro sono i primogeniti di Ilùvatar l’unico Dio che fa da sfondo alla sua cosmogonia, e al quale fa dire: “i Quendi [gli elfi n.d.r.] saranno le più leggiadre di tutte le creature terrene, e possederanno e concepiranno e produrranno più bellezza di tutti i miei Figli; e godranno della maggiore beatitudine di questo mondo. Agli Atani [gli uomini n.d.r.] però concedo un dono nuovo“. Ma al di là della loro oggettiva bellezza, della loro superiorità nell’arte e in ogni forma di scienza la loro condizione esistenziale non è per nulla invidiabile. Essi sono, come diceva, condannati ad una immortalità terrena cioè ad essere legati per sempre alla terra che d’altra parte essi amano ma che, a lungo andare, non riescono più a sopportare. Perciò, paradossalmente, questi esseri non rappresentano una condizione “ideale” né una proiezione del desiderio frustrato dell’uomo di non morire mai e di restare per sempre giovane sulla terra. Al contrario, essi sono l’espressione di quell’anelito profondissimo acciocché questa vita prima o poi abbia fine e ci traghetti in uno stato diverso, superiore e più perfetto fatto di requie e stabilità. “Le storie umane sugli elfi sono senza dubbio piene di Evasione dall’Immortalità”. E prosegue: “poche lezioni vengono impartite in esse più chiaramente del fardello di questo tipo di immortalità, o piuttosto di una serie senza fine di vite, da cui il “fuggitivo” vorrebbe scappare. Perché la fiaba è particolarmente adatta a insegnare cose di questo genere, di molto tempo fa e anche di oggi”[4]. Il mostruoso mito del «forever young» destinato alla frustrazione, paradigmaticamente riassunto nel celebre “Ritratto di Dorian Gray”, ha sedotte e inebriate le anime di uomini, donne e ragazzini dal secondo dopo guerra in poi. Esso rappresenta proprio la sovversione di questo intimo desiderio dell’uomo di ricongiungersi al suo Creatore, scegliendo invece di radicarsi per sempre (così credono) su questa terra (di Mezzo). Potremmo dire che l’odierna «somatolatria», come la definì acutamente Romano Amerio, è la formulazione esistenziale e sociale dell’«aversio a Deo et conversio ad creaturas» cioè del peccato, consistente nel volgere le spalle all’eternità per attaccarsi spasmodicamente e in maniera disperata alla mutevolezza e caducità delle creature finite. D’altra parte la corrente gnostica che ricerca l’elisir di lunga vita o vuole risalire, per impadronirsene, all’albero della vita accompagna come un filo rosso, o un fiume sotterraneo, tutta la storia dell’umanità. Tolkien invece, da buon cattolico, aspirava “alle cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio”, pur non disprezzando quanto di buono, vero e bello c’è nella vita presente non aspirava ad altro che “alle cose di lassù, non a quelle della terra”[5].
Gli elfi, invece, sono in un certo senso un peso a se stessi, la loro esistenza è avvolta da una segreta invidia della condizione mortale degli uomini che possono invecchiare e spegnersi per transire, attraverso la morte, ad un altro stato dell’essere: l’eternità. E questo è un sentimento profondamente presente nella vita cristiana ossia la percezione che questa esistenza nella carne sia un peso, un fardello da portare ma che, alla fine, troverà la sua consolazione sulle sponde della Gerusalemme celeste. Scrive sant’Agostino: “quando Dio ti libera da te stesso, ti libera dal male”[6]. E se questa pericope del grande dottore della Chiesa rimanda forse più alla dimensione morale dell’uomo cioè al peccato e all’«uomo vecchio», certamente credo si possa applicare anche alla caducità della vita presente che al contempo è via e ostacolo alla visione di Dio. La vita mortale è cioè sia tempo propizio per meritare ed accrescere, attraverso la carità, il grado della gloria futura ma anche una barriera che ci trattiene dall’accedere alla visione beatifica. Questa vita mortale è in un certo senso caratterizzata da un desiderio bruciante e insopprimibile che potrà essere appagato soltanto dopo che essa si sarà consumata e, terminato il suo corso, approderà alla meta. È questa prospettiva d’eternità che manca agli elfi i quali pur sperimentando questo anelito non ne intravedono il compimento.
Si potrebbe pensare che questa visione «liberante» della morte abbia un so che di neoplatonico, al contrario essa è profondamente cristiana. Infatti, dopo la morte in Croce del Figlio di Dio, dopo il Sacrificio consumato dall’Amore sostanziale ed eterno, dopo che la Vita stessa si è lasciata vincere dalla morte sconfiggendola così in æternum la condanna che pesava sugli uomini si è tramutata in grazia, e l’amaro in dolcezza. Ciò che prima appariva (e lo era realmente) una maledizione che incuteva terrore agli “uomini mortali che la triste morte attende” è divenuta per loro la ianua coeli, porta d’accesso alla vera Vita. Solo la consolante rivelazione di Gesù Cristo agli uomini ha potuto far cantare a San Francesco d’Assisi “tanto è il bene che m’aspetto, c’ogni pena m’è diletto”. Solo una speranza che supera infinitamente le attese della umana natura poteva fargli invocare la morte come una devota «sorella» il cui arrivo è atteso non più con paura ma con incontenibile trepidazione.
A questo punto, senza rinnegare quanto detto finora, vorrei spingermi un poco oltre prendendo le distanze dalla predetta spiegazione simbolica della natura degli elfi per guardare a queste magnifiche creature anche da un’altra angolatura. «Elfi e uomini – spiega Tolkien – sono rappresentati come biologicamente affini nella storia, perché gli elfi nel mio piccolo mondo rappresentano alcuni aspetti degli uomini, e le loro doti e i loro desideri, incarnati. Hanno possibilità e poteri che anche noi desidereremmo avere, e la bellezza e il rischio e il dolore che si accompagnano al possesso di queste cose si leggono nella loro storia. […]»[7]. Non voglio sminuire il valore di questa spiegazione di Tolkien, eppure credo che essa non dia del tutto ragione dell’identità degli elfi e che possano anzi significare anche qualcosa di più di una semplice tendenza o aspirazione dell’animo umano. Infatti portando alle estreme conseguenze questa lettura del loro ruolo e della loro natura, gli elfi apparirebbero figure sostanzialmente effimere e negative poiché poco più che sventurati prigionieri di un mondo che “gli sta stretto” e da cui non possono veramente uscire se non una sorta di “lunga vacanza”: il solo pensiero dell’eterna reincarnazione mortale è terrificante. A questo proposito, per tentare di salvare gli elfi da un fato così insopportabile, mi riallaccio a quanto detto al principio di questa trattazione ossia alla presenza degli elfi in tutte le più antiche culture occidentali.
Spiriti buoni che popolano i boschi, custodi di fonti proibite, depositari di un arcano sapere, compassionevoli verso i deboli ma vendicatori terribili verso gli uomini empi. Questi elfi ricordano molto da vicino il ruolo di quelle creature spirituali, quei puri spiriti invisibili ma reali che portano il nome di “angeli”. Ma chi sono gli angeli? La Scrittura Sacra li descrive come “potenti esecutori dei suoi [di Dio] comandi, pronti alla voce della sua parola. Benedite il Signore, voi tutte, sue schiere, suoi ministri, che fate il suo volere”[8].
La dottrina mirabile di San Tommaso ha il merito di aver definito la distinzione metafisica fondamentale tra «essentia» e «actus essendi» ovvero tra ciò che conferisce ad un ente particolare la sua propria natura specifica (il quid), e ciò che la fa esistere, o meglio «sussistere», realmente (l’atto d’essere). Sappiamo che tra gli enti creati sono più perfetti quelli che più assomigliano a Dio, ossia quelli che posseggono una natura totalmente spirituale cioè incorporea. In questo senso gli elfi rappresentano il divino nel mondo, non solo per la loro natura essenzialmente superiore alla umana ma anche perché essi sono, al pari degli angeli, i primogeniti della creazione. Gli elfi a giudizio dello stesso J.R.R., lo abbiamo visto, sono nel mondo ma in qualche modo non gli appartengono completamente e rimandano costantemente ad un’altra dimensione dell’essere che nel suo immaginario si chiama Valinor cioè “le terre di là dal mare”.
È questo un appiglio ermeneutico che da tempo mi ha persuaso della somiglianza secundum quidtra gli elfi e gli angeli. È pur vero che nella cosmogonia tolkieniana i Valar e gli Ainur sembrerebbero, prima facie, ciò che più si avvicina agli angeli e agli arcangeli della Rivelazione biblico-cristiana. Tuttavia, stando alle parole di Tolkien, ritengo che essendo gli elfi l’incarnazione di quanto di più nobile c’è nell’uomo, cioè l’anima spirituale, ed essendo ad ogni modo degli esseri distinti dagli uomini, essi siano per certi aspetti, e solo da un certo punto di vista, simili agli angeli.
Inoltre la pietas della fede cattolica ci ha insegnato che ci sono angeli preposti alla custodia di luoghi, popoli e persone specifiche. Anzitutto ognuno di noi è assegnato alla custodia di un singolo angelo guardiano. Ed è qui che entra in scena il nostro Legolas. Per chi fosse interessato alle genealogie elfiche ci sono pile di libri consultabili ma, per quanto mi riguarda, tenterò di guardare a questo protagonista con un occhio da “inesperto”.
Gli elfi tolkieniani, dicevo, sono avvicinabili, a mio avviso, agli angeli, anche se il paragone non è assolutamente sovrapponibile giacché i puri spiriti della Rivelazione biblico-cristiana sono creature al contempo bellissime e luminose quanto terribili e a volte spaventose per la loro potenza. Purtroppo siamo stati a lungo abituati ad immaginare questi emissari celesti o come ridicoli bambini paffutelli o con sembianze eccessivamente femminee, morbidamente in carne. «Ricorda iltuo angelo custode. Non una signora grassoccia con ali di cigno! Ma – almeno così penso e credo – in quanto anime dotate di libero arbitrio siamo fatti in modo da affrontare (o essere in grado di affrontare) Dio.
Ma Dio è anche (si fa per dire) dietro di noi, sostenendoci, nutrendoci (dato che siamo creature sue). Quel luminoso punto di potere dove il cordone della vita, il cordone ombelicale dello spirito termina, là è il nostro angelo, che guarda in due direzioni: a Dio dietro di noi, senza che noi possiamo vederlo, e a noi. Ma naturalmente non stancarti di contemplare Dio, nel tuo libero arbitrio e nella tua forza (che entrambi ti arrivano “da dietro”, come dicevo). Se non riesci a raggiungere la pace interiore, e a pochi è dato raggiungerla (men che mai a me) nelle tribolazioni, non dimenticare che l’aspirazione a raggiungerla non è inutile, ma un atto concreto. Mi dispiace di doverti parlare così e in modo così incerto. Ma non posso fare niente di più per te, carissimo. […][9]. Trovo queste parole che un padre rivolge al proprio figlio ormai uomo, estremamente toccanti poiché mostrano la fragilità e l’umiltà di un uomo segnato, in tutta la vita, dalla sofferenza e dalla morte e che proprio per la sua provata esperienza si trova a dover confessare, con onestà e franchezza, la propria impotenza. Eppure sa additare l’aiuto, il soccorso e il sostegno, potremmo dire “il vincastro che dà sicurezza” quando nella vita di ogni uomo arriva il momento di attraversare la valle oscura di Mordor. Questo vincastro, questo compagno fedele è il nostro angelo custode.
Legolas appare ai nostri occhi una figura semidivina, eterea e nettamente superiore alle esigenze degli uomini, dei nani e degli hobbit. Nella lunga narrazione in cui si concretizza il Signore degli Anelli questo tiratore silvano proferisce poche e sagge parole. Certo la simpatica competizione tra lui e Gimli che li vede intenti in una gara nell’abbattimento dei nemici quasi fosse un tirassegno assai divertente, sembrerebbe poco consona ad una figura angelica. Eppure questi puri spiriti sono realmente dei guerrieri veloci e terribili contro i nemici di Dio e degli uomini, e che, potremmo dire, gareggiano gli uni gli altri per dare gloria a Dio. E non c’è gloria più grande che disperdere ed abbattere i nemici della Croce dando la vita per Cristo. Tra l’altro questa che potremmo definire “santa competizione” diviene, mano a mano che il rotolo del racconto si va svolgendo, il sostrato comune della singolare amicizia tra un elfo e un nano che durerà ben oltre la guerra dell’Anello: dimostrazione che la guerra, quando è santa, porta frutti di giustizia, di pace e di carità. Valga questo argomento, insieme alla passione che lo scrittore ha versato nel raccontare gli episodi dei combattimenti e degli scontri tra gli eserciti degli uomini dell’Ovest e le orde dell’Oscuro signore, una testimonianza dello spirito militante eminentemente cattolico di J.R.R. Tolkien. Bisogna persuadersi, infatti, che l’autore del Signore degli Anelli era tutt’altro che pacifista ma, onorando quello che è un autentico codice cavalleresco, riconosceva chiaramente la necessità di dover combattere per coloro che si amano e difendere il buono che c’è in questo mondo anche a costo della guerra, anche a costo di uccidere.
Gli angeli, perciò, combattono, e così i cristiani al fianco dei loro “elfi custodi”. Difatti l’angelo a cui il Signore ci ha affidati, è quel consigliere prudente e discreto che mentre ci avventuriamo nei sentieri nevosi del monte Caradhras ci avverte del pericolo che ci conduce verso lo strapiombo. Legolas guarda avanti e più lontano degli altri membri della Compagnia, è lui che possiede quella lungimiranza e quella sensibilità spirituale per distinguere il male che minaccia da lontano i suoi compagni di cammino. È l’angelo custode che ci avverte che, nella tormenta delle preoccupazioni della nostra vita, un’«empia voce», confusa e quasi indistinguibile, ci sta dirottando dal retto sentiero per smarrirci. Voci di guerra nell’aria, voci contrastanti e seducenti, clamori nel fitto del bosco, presenze oscure che incombono sulle nostre teste come orribili e immobili gargolle pronte a carpire le nostre anime e “nell’oscurità incatenarle”.
Il Male è all’opera in questo mondo da quando il peccato di quel primo “Isildur” ha condannato tutti gli uomini, elfi, nani ed hobbit a subirne l’influsso e le vessazioni. Ma ognuno di noi ha il suo Legolas, un potente e letale arciere che colpisce al cuore i nostri nemici. Quante volte le frecce infallibili del nostro “Guardiano” ci hanno difeso dalla morte (dell’anima), allontanandoci le tentazioni? Quante volte i suoi interventi invisibili hanno preservato i nostri piedi dalla caduta? Chissà quante volte il nostro angelo ci ha difeso e difende dai pericoli attuali in cui noi, per inavvertenza od avventura, cadiamo come topi in trappola? Perciò, quanta riconoscenza ed amore dovremmo mostrare noi per questo compagno fedele con il quale, come insegna San Tommaso d’Aquino, condivideremo eternamente, se ne saremo degni, la beatitudine del Paradiso? Solo in Cielo sapremo quanto è stato il bene e la carità che questi nostri sorveglianti ci hanno procurato mentre eravamo viatori in questa vita, fragili portatori del nostro fardello. Essi, poi, non sono solo una guardia armata e degli ottimi consiglieri ma sono anche coloro che provvedono al nostro nutrimento spirituale. Non a caso il lembas è il pan di via elfico similmente al Santo Viatico che la Chiesa loda e adora ammirandolo con queste parole “Ecce panis angelorum!”. Essi perciò ci accompagnano alla Santa Comunione, ci insegnano con quale atteggiamento di profonda adorazione dobbiamo accostarci ad essa e, nelle angustie della vita presente, si preoccupano di provvedercene una scorta sufficiente per il viaggio.
Secondo alcune interpretazioni il primo riferimento agli Angeli nella Sacra Scrittura è subito nel I° capitolo del libro della Genesi nel passo in cui Dio dice: “Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza”. Quel “facciamo” è certamente rivolto propriamente alle Tre Persone Divine, ma in maniera indiretta sembra coinvolgere anche le altre creature già create prima dell’uomo, cioè gli angeli. Personalmente mi immagino l’atto della creazione dell’uomo, vista dalla prospettiva angelica, come una scena ricca di tenerezza, bellissima, animata dallo stupore, nella quale Dio si volge verso i suoi angeli come un Padre ai suoi figliuoli coinvolgendoli con quello straordinario “facciamo”. Non perché gli angeli prendano parte all’atto creativo, come un bambino piccolo non realizza veramente il bel disegno che il padre sta preparando per lui, ma perché essi, con la contemplazione della Divina Sapienza prendono parte a tutto il bene che il loro Padre e Creatore produce dal nulla. Assorti, curiosi e trepidanti come tanti bambini eccitati, gli angeli cercano di vedere cosa il Padre stia preparando e creando in maniera tanto mirabile e sapiente. Mi immagino i “volti” degli angeli radiosi e sorridenti, pieni di meraviglia come i bambini quando davanti ai loro occhi i genitori chinati su di loro svelano per la prima volta il loro nuovo fratellino scoprendone il visino dal panno che lo avvolgeva. E noi battezzati siamo veramente i fratelli adottivi degli angeli, chiamati a condividerne la gloria e la luminosa compagnia. “Eppure l’hai fatto [l’uomo] poco meno degli angeli”[10], cioè realmente inferiore a loro, come gli uomini rispetto agli elfi, ciononostante«Dio è il Signore, degli angeli, e degli uomini – e degli elfi. La Leggenda e la Storia si sono incontrate e fuse. Ma nel regno di Dio la presenza di ciò che è più grande non schiaccia ciò che è più piccolo. L’Uomo redento è ancora uomo. Il Racconto, la fantasia, continuano ancora, e dovrebbero continuare. L’Evangelium non ha abrogato le leggende; le ha santificate, specialmente nel “lieto fine”. Il cristiano deve ancora operare, con la mente come con il corpo, deve soffrire, sperare, e morire; ma ora può percepire che tutte le sue predisposizioni e facoltà hanno uno scopo, che può essere redento. Così grande è stata la liberalità con cui è stato trattato che ora egli può, forse, a ragion veduta supporre che nella Fantasia può effettivamente assistere al germogliare e al molteplice arricchimento della creazione»[11].Cari amici, oggi più che mai sono persuaso che noi hobbit abbiamo ancora una parte, seppur minima, da recitare in questa storia, ma con l’angelo custode al nostro fianco attraverseremo valli oscure e scale tortuose, paludi mortifere e altopiani scoscesi e poi in su, verso il Monte della Morte, verso il luogo del cranio di Adamo, dove la Vita è appesa al Legno della Croce. Lassù, dove circondato da schiere oranti di spiriti angelici il Figlio dell’Uomo giace esanime, gloriosamente crocifisso. Benedìcite Dominum omnes Angeli eius: poténtes virtùte, qui fàcitis verbum eius, ad audiendam vocem sermònum eius (Ps 102,20).

giovedì 21 luglio 2016

Riabilitare Lutero?

di Danilo Castellano

1. Si va affermando da qualche tempo che Lutero deve fare da ispiratore alle grandi riforme, spirituali e di governo, che attendono la Chiesa (cattolica) nei prossimi anni. Lo ha detto, per esempio, recentemente il cardinale Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco di Baviera e Frisinga e attualmente presidente della Conferenza Episcopale Tedesca. L’opinione è diffusa. In alto e in basso. Tanto che in qualche Chiesa particolare (italiana) sono già state prese iniziative per «beatificare» Lutero, un tempo considerato eretico ed apostata e contro la cui Riforma la Chiesa (cattolica) ha riunito uno dei suoi principali Concilî, quello di Trento. I tempi – si dice – sono cambiati. Molta acqua è passata sotto i ponti. La stessa verità – si afferma – sarebbe evoluta. Perciò sarebbe giunto il momento di «ripensare» la Riforma e di attuarne una che non sia una «Controriforma» ma una vera Riforma in continuità con quella luterana, non in opposizione ad essa; una Riforma radicale della Chiesa sia sotto il profilo dogmatico (i dogmi – si sostiene – dovrebbero essere abbandonati), sia sotto il profilo istituzionale (la Chiesa dovrebbe essere solo «spirituale» e soprattutto «popolare»), sia sotto il profilo morale (non più la legge ma l’«autenticità» della persona dovrebbe essere promossa; non più i Comandamenti – nemmeno i Dieci consegnati a Mosè – ma la libertà). Non c’è dubbio cheEcclesia semper reformanda. La riforma è una necessità vitale soprattutto della Chiesa militante e della Cristianità. Questa deve tendere al continuo rinnovamento, a cominciare da quello spirituale e da quello morale. Se essa non coltivasse questa esigenza, decadrebbe e alla fine morirebbe. Il rinnovamento, la tensione alla perfezione, non è però il fine perseguito dalla Riforma protestante. C’è, infatti, riforma e riforma. La Chiesa anche nei secoli antecedenti a Lutero ha avuto bisogno di riforme. E le ha realizzate.
Basterebbe pensare, a titolo di esempio, alle riforme per le quali si era impegnato il benedettino Ildebrando da Soana (1020/21-1085), eletto Papa con il nome di Gregorio VII, e a quella realizzata da Francesco d’Assisi (1181/82-1226). L’uno e l’altro si impegnarono nella «restaurazione» della Chiesa; «restaurazione» che non è né conservatorismo né «rivoluzione» gnostico-ideologica, ma «rinascita» come continuo impegno sia alla fedeltà alla Parola sia a una prassi di vita coerente con e conforme all’ordine morale voluto da Dio. La stessa Controriforma – la cosa è stata ampiamente dimostrata – non è una mera e sterile contrapposizione alla Riforma protestante: è piuttosto un programma e un’opera sia di intenso rinnovamento nella fedeltà dottrinale al Deposito ricevuto da Cristo e custodito e tramandato dalla Chiesa sia sul piano educativo. Più recentemente la Chiesa ha goduto di una notevole e fruttuosa riforma, quella voluta da san Pio X, che oggi o viene semplicemente ignorata e respinta oppure, all’opposto, strumentalizzata per giustificare scelte che segnano, per usare una felice espressione di Paolo VI, l’ingresso del fumo di Satana nella Chiesa post-conciliare. Scambiare, pertanto, la Riforma luterana con la sempre necessaria riforma della Chiesa e nella Chiesa è un errore, frutto o dell’ignoranza o della malafede.
2. L’errore più grande di questo scambio/identificazione sta nel non vedere il carattere gnosticodella Riforma. All’origine – è vero – lo gnosticismo luterano non è palese. Meglio: è evidente solo a chi sa portare alle estreme conseguenze il significato delle affermazioni e delle tesi. La Riforma manifesterà nel tempo la sua vera essenza. Il disvelamento dello gnosticismo del luteranesimo sarà fatto da Hegel. Il luterano Hegel, infatti, metterà in luce le opzioni fondamentali della Riforma, che raccoglie e sviluppa germi di pensiero sparsi anche in e da taluni filosofi cristiani e da teologi precedenti a Lutero e dai quali Lutero per taluni aspetti dipende. La Riforma, pertanto, è in ultima analisi una «rivoluzione gnostica», razionalistica. Essa fa dipendere le sue affermazioni da «decisioni originarie» che rappresentano, appunto, opzioni non giustificate dalla realtà, ma solamente affermate, imposte sulla e contro la realtà. Ciò vale, per esempio, per la libertà, intesa come «libertà negativa» che, a sua volta, coerentemente porta al primato della coscienza sull’ordine (la coscienza come sola fonte del bene e del male; quindi, la coscienza soggettiva non è sensibilità nei confronti dell’ordine, ma pretende di essere l’ordine in sé) e al libero esame della Scrittura sia esso inteso come esame assolutamente individuale sia esso inteso come esame «comunitario» (come esame del popolo definito di Dio: è la posizione, in ultima analisi, anche di diversi autori cattolici contemporanei, compreso per esempio il cardinale Kasper).Le «decisioni originarie» della Riforma segnano il primato/affermazione del volere sulla ragione; sono imposizioni di atti di (ritenuto) potere dell’uomo sulla realtà. Esse, pertanto, sono la rinnovata manifestazione dell’orgoglio che caratterizza il peccato originale: l’ordine della creazione è «piegato» alla volontà umana.
3. Il risultato, cui arriva la «rivolta» di Lutero contro la Chiesa (cattolica) alla quale apparteneva e alla quale suggerì di rimanere fedele alla madre (anche dopo aver dato vita alla cosiddetta «Chiesa riformata»), è legato a questa impostazione. Può essere stato favorito da errori del Clero cattolico e da esagerazioni. Certamente fu facilitato dalla decadenza della Chiesa del secolo XVI, soprattutto in Germania; decadenza le cui cause secondo, per esempio, il cardinale Nicolò Cusano stavano nell’entrata di molti indegni nello stato ecclesiastico, nel concubinato del clero, nel cumulo di benefici (senza adempiere agli offici) e nella simonia. Ciò non toglie che sia in sé un errore: non è lecito, infatti, tentare di rimediare a un errore sostenendone uno più grave. A eventuali difetti bisogna rimediare tenendo per modello la perfezione dell’essere; gli errori vanno corretti sulla base della verità, non sulla base di altri più gravi errori. Gli errori di Lutero sono molti. Talvolta essi sono evidenziati dalle contraddizioni intrinseche alle sue tesi. Gli errori di Lutero sono principalmente dogmatici, morali ed ecclesiali. Non mancano, però, errori di altro genere. Su taluni di questi richiameremo l’attenzione fra breve. Gli errori di Lutero sono stati messi in luce non solo da coloro che allora vi si opposero «dialetticamente» (in modo particolare dai Domenicani), ma anche e soprattutto dalla Bolla Exsurge Domine di papa Leone X (15 giugno 1520). Con questa Bolla il Papa, operando molti ed opportuni «distinguo», confutò con fermezza gran parte delle proposizioni di Lutero, alcune delle quali furono giudicate eretiche, altre scandalose, altre ancora false, altre infine capaci di offendere particolarmente le anime dei semplici. Soprattutto, però, – come si è accennato – la dottrina luterana fu confutata e condannata dal Concilio di Trento. Qui non è opportuno né elencarle né entrare nel merito di molte tesi che hanno un rilievo notevolissimo sul piano dottrinale e conseguenze gravi sul piano pratico. Basterà ricordare che teorie come quelle della«giustificazione», del «libero esame», del «servo arbitrio» incidono pesantemente sul piano morale. Non meno rilevanti (erronee e dannose) sono, inoltre, le dottrine della«consustanziazione» (elaborata in polemica con la «transustanziazione»), della «sola Scriptura» (con la quale si intendeva negare valore alla «Tradizione»), della illiceità del culto allaMadonna e ai Santi, e via dicendo. Leone X dovette intervenire con una seconda Bolla, la Decet Romanum Pontificem, del 3 gennaio 1521 con la quale scomunicò Lutero dopo aver preso atto delle sue eresie e dopo il suo «gran rifiuto» di presentarsi a Roma.
È stato scritto – fondatamente – che la Riforma è l’innalzamento dello spirito contro l’autorità, dell’energia dell’individuo contro le idee. Non lo fu immediatamente ed esplicitamente, perché Lutero, come osservò un autore dalle molte derive (Maritain), aveva della vita un concetto dogmatico ed autoritario. Ciò non gli impedì, tuttavia, di porre le premesse del radicale immanentismo moderno principalmente attraverso l’istituita opposizione di Fede ed opere, di Vangelo e legge. Lo sviluppo delle «opzioni» luterane porterà, perciò, a una incompatibilità fra autorità e libertà, fra legge morale ed autenticità. Poco importa che lo stesso Lutero abbia favorito, sotto diversi profili e per molteplici occasionali ragioni, la genesi dello Stato moderno, liberale in quanto Stato ma assolutamente illiberale nei confronti dell’uomo singolo. Quello che rileva è il fatto che le dottrine moderne della libertà sarebbero incomprensibili senza Lutero; meglio: non sarebbero nate, non si sarebbero sviluppate e non si sarebbero storicamente affermate. La tesi idealistica, perciò, è a questo proposito descrittivamente fondata, anche se il giudizio di valore di Hegel, di Croce, di Giovanni Gentile e di molti altri su questo processo non è condivisibile.
4. Il modo di intendere la libertà è il nodo dal quale si sviluppano coerentemente tutte le dottrine (dogmatiche, etiche, politiche, giuridiche, ecclesiali, etc.) cui il luteranesimo ha dato vita. Il luteranesimo la intende come assoluta e sola affermazione del volere. La volontà, qualsiasi volontà, che si affermi, che diventi effettiva, è realizzazione della libertà. La volontà, per essere libera, non deve avere guide (non deve essere guidata né dalla ragione né da magisteri) e non deve sperimentare interventi esterni di alcun genere, perché questi segnerebbero limiti al suo agire e alla sua affermazione. Celebre, per esempio, per quel che riguarda la morale è l’ironia polemica di Hegel (un luterano coerente) contro gli usi praticati al suo tempo dai Gesuiti (erroneamente identificati con la Chiesa cattolica), i quali nel cuor della notte in alcune regioni avrebbero fatto suonare le campane per ricordare ai coniugi i loro doveri. Anche queste forme di intervento lederebbero la libertà «interiore», l’unica libertà; quella libertà che, per essere tale, deve rifiutare leggi, richiami, indicazioni, guide spirituali (istituzionali e personali). In breve, la libertà deve essere esercitata con il solo criterio della libertà, cioè con nessun criterio. Non è la verità, quindi, che rende liberi come si legge nel Vangelo (Gv. 8, 32), ma la libertà. La libertà rivendicata da Lutero è la libertà gnostica, quella cioè che si rifiuta di liberamente servire, perché intende solamente dominare, affermando se stessa.
5. Le conseguenze – anche gravi – di questo modo di intendere la libertà non sono mancate. L’epoca moderna è caratterizzata proprio da queste. Il cosiddetto «principio di immanenza» proprio della Riforma ha rivoluzionato ogni settore della vita.
5a) Sul piano della conoscenza esso ha significato il passaggio dal teoretico al teorico. La metafisica è stata abbandonata. Dichiarata inaccessibile o inutile, è stata sostituita dalla verità costruita e, quindi, convenzionale. È significativo che Hegel (un luterano coerente, come si è detto, e un pensatore di classe) abbia sostenuto che la verità è solo la verità del sistema: « la vera forma nella quale la verità esiste – scrisse, infatti, il filosofo tedesco – può essere soltanto il sistema scientifico di essa». Dunque l’incontrovetibilità starebbe nella sola coerenza rispetto a premesse assunte acriticamente come fondative del sistema medesimo. La filosofia si fa, così, scienza come essa è intesa dallo scientismo. Perciò la filosofia sarebbe per definizionenichilista in quanto, prima ancora, sarebbe convenzionale. La convenzionalità del sapere è, però, l’autonegazione del sapere. La convenzionalità è necessariamente razionalistica in quanto il sistema è elaborato a tavolino e sovrapposto alla realtà. Prima ancora di Hegel, un altro pensatore a intermittenza protestante sotto il profilo formale ma sempre di cultura e di formazione protestante (anche per i brevi periodi nei quali si fece formalmente cattolico), aveva sostenuto che per «leggere» la realtà bisogna elaborare prima i criteri con i quali leggerla. Non la realtà era (ed è) da considerarsi condizione del pensiero, ma questo condizione della realtà:«prima di osservare – sostenne, infatti, Rousseau – bisogna farsi delle norme per le proprie osservazioni; bisogna farsi una scala per riferirvi le misure che si prendono». Per la vera filosofia, quindi, con la Riforma e a causa della Riforma, inizia un periodo di crisi, contrariamente a quanto comunemente si pensa. La cosa è grave, perché dalla convenzionalità del sapere derivano le illusioni dei sistemi e degli antisistemi; deriva la inutile corsa ai miraggi, erroneamente scambiati con la realtà. La crisi profonda in cui versa attualmente anche la Chiesa (cattolica) è, in parte, dovuta proprio alla scomparsa del sapere metafisico, non solo non ricercato ma combattuto. Il convincimento secondo il quale dottrine (sul piano filosofico) e dogmi (sul piano teologico) è bene che non vengano né ricercati, né riproposti, né considerati è diffuso anche a livello di cultura antropologica. Per surrogare la metafisica si ricorre, poi, sempre più frequentemente alle «scelte condivise», le quali offrono verità «sociologiche», sempre cangianti e prive di reale fondamento. Si ritiene di sfuggire al relativismo, istituzionalizzandolo e facendo, così, dipendere la «verità» dalle mode e dai tempi. Su queste premesse la Chiesa nulla avrebbe da dire agli uomini.
5b) Sul piano morale la Riforma ritiene che l’etica dipenda dalla coscienza soggettiva: è bene ciò che il soggetto avverte essere bene, è male ciò che il soggetto avverte essere male. Il bene e il male dipendono, dunque, dal soggetto. Egli ne è il dominus. La coscienza è considerata facoltà naturalistica, fonte del bene e del male. Rousseau, dopo Lutero ma in continuità con Lutero, dirà che la «coscienza è la voce dell’anima». Essa non inganna mai. Essa è la vera (e sola) guida dell’uomo: essa è per l’anima ciò che l’istinto è per il corpo. La coscienza, dunque, pare esaltata. In realtà è umiliata, ridotta in ultima analisi a «pulsione ed istinto» dello spirito inteso come soggettività caratterizzata dalla «libertà negativa». Una specie di vitalismo che fa dell’uomo una creatura senza ragione, senza autonomia e senza responsabilità: «autentico», nel senso dell’immediata spontaneità; un essere, dunque, innocente. Può sembrare strana questa dottrina della coscienza che dovrebbe dischiudere all’ottimismo il quale sembrerebbe non solo lontano ma opposto al «pessimismo» luterano. Così, invece, non è. Lutero, infatti, pone le premesse per l’elogio di questa coscienza/non coscienza, per il nichilismo etico che finisce, per esigenze di sola convivenza, per cercare punti di appoggio nella legge positiva dello Stato o nella normatività sociologica. La dottrina dello Stato etico, vale a dire creatore dell’etica, di Hegel ne è la conferma.
5c) Sul piano politico la dottrina di Lutero sta all’origine dello Stato moderno, concepito come strumento di castigo per la malvagità umana. Lo Stato è necessario a causa di questa. Lutero anche a causa della sua formazione agostiniana (qualcuno – Maritain, per esempio, – ha detto a causa di un agostinismo mal «letto»), ritiene che l’autorità non sia un bene in sé, sempre utile all’uomo (Tommaso d’Aquino, per esempio, la considerò al contrario indispensabile anche nel paradiso terrestre; quindi anche prima del peccato originale). Essa è un «male necessario», come continuano a ripetere molti. Lo Stato moderno, inoltre, soprattutto a partire dalla pace di Augusta (1555), si fece «intollerante». Tanto «intollerante» da costringere molti protestanti ad abbandonare l’Europa per poter preservare le proprie, sia pure erronee, convinzioni circa la coscienza, la libertà e la religione. La dottrina luterana rafforza, sia pure in virtù di un articolato e graduale processo,l’assolutismo, che non tarderà a «ribaltarsi» nella democrazia moderna, in particolare invocando la sovranità popolare, la quale è l’«altra» strada, rispetto a quella dello Stato moderno «forte», per affermare la «libertà negativa», la volontà senza ragione, l’assoluto primato dell’uomo su ogni ordine, compreso quello della creazione.
5d) Da qui lo stravolgimento del significato di «popolo». Lutero, da una parte, raccoglie a questo proposito fermenti già presenti nei secoli medioevali e valorizza quindi dottrine già elaborate; dall’altra, inietta in queste alimento con la sua teoria della coscienza e della libertà. Il popolo diviene politicamente un insieme di individui assolutamente liberi di determinare il loro destino sulla base della sola volontà. È il popolo «sovrano» che, come il «Sovrano» dell’assolutismo, dipende (per usare le parole di Bodin) unicamente dal potere della propria spada. Il potere diventa la fonte di «legittimazione» dell’agire. Non, dunque, la «potestas» e nemmeno l’«auctoritas», anche se questi termini si conservano, si usano e si continuerà ad usarli impropriamente come attributi caratteristici del cosiddetto «potere politico». Il potere brutale nella dottrina di Lutero è considerato caratteristica della politica. Convincimento, questo, attualmente generalmente diffuso. Si tratta di un errore conseguente alla trasformazione della verità in verità del sistema o, peggio, in verità come tale assunta in virtù o di convenzioni o dell’effettività sociologica. Tutto questo è evidente nello slogan (eretto a criterio) «politicamente corretto», che significa semplicemente «coerente» rispetto al sistema. Non vanno cercati, quindi, il fondamento e la legittimità dell’esercizio del «potere politico» (anche se di fatto, poi, vengono erroneamente individuati nel «consenso» moderno). Quello che rileva è che l’esercizio del potere non rappresenti una smentita delle premesse del sistema (assunte come vere) o una applicazione incoerente del sistema medesimo.
5e) Come è stato giustamente sottolineato (cfr. G. SANTOANASTASO, Le dottrine politiche da Lutero a Suarez, Milano, Mondadori, 1946, p. 11), la Riforma, per quel che riguarda il suo aspetto politico, è contraddittoria: da una parte, infatti, essa utilizza (impropriamente) la concezione sacra dell’autorità, ereditata dal Medioevo; dall’altra, poggiandosi soprattutto sulla nuova dottrina della coscienza e sulla teoria del libero esame, pone – come si è detto – le premesse della sovranità (sia essa quella dell’Assolutismo, si essa quella popolare). Ciò vale anche per quel che attiene alla concezione della Chiesa, la quale sia a causa della considerazione di Gesù come solo testimone, sia a causa dell’applicazione della tesi secondo la quale «omnes in Christo sumus sacerdotes et reges, quicumque in Christum credimus» – come scrive testualmente Lutero nel De libertate christiana (Weimar, vol. VII, p. 56) – subisce un radicale cambiamento. Essa non è vista e definita come un organismo (un corpo, sia pure mistico, visibile), fondato da Cristo e animato dallo Spirito Santo, ma come una mera organizzazione. La Chiesa come società/istituzione diventa, così, (almeno virtualmente) nemica del popolo: tra popolo e società ci sarebbe una contrapposizione che deve essere risolta a favore del popolo cui spettano simultaneamente sacerdozio, profezia e regalità. Alla società perfetta dei congregati battezzati che professano la stessa fede e legge di Cristo, partecipano agli stessi sacramenti e obbediscono ai legittimi Pastori, principalmente al Papa, viene sostituita l’associazione dei predestinati che dànno vita a una comunità puramente spirituale, priva di gerarchia. È il «popolo», infatti, detentore dei munera, e, perciò, i suoi Pastori da esso dovrebbero dipendere.
6. Non sono queste le uniche questioni poste dalla Riforma. Anche limitandoci a queste, però, pare che Lutero non possa essere proposto come modello delle «grandi riforme» di cui attualmente ha bisogno la Chiesa. Volutamente, poi, non si sono qui considerati gli aspetti morali, quelli oggettivamente noti, della personalità di Lutero. Pur essendo questioni morali gravi non è sembrato opportuno insistere (come ha fatto in passato certa pubblicistica cattolica) sull’omicidio compiuto da giovane, sulla sua scelta di «sposare» una monaca, sulle sue abitudini non certo esemplari per quanto riguarda alcuni vizi che la Chiesa giustamente definisce peccati. Non lo ha fatto nemmeno il Concilio di Trento che ha mantenuto un livello teologico alto pur contrapponendosi alla Riforma. Si dirà che le questioni dottrinali dividono. Soprattutto oggi si assegna un primato alla prassi. La prassi, però, dipende sempre (implicitamente o esplicitamente) dalla teoria. Comunque, anche il primato della prassi è questione che non si può considerare priva di problemi. Anche su questi sarà opportuno tornare. Quelle presentate sono alcune riflessioni e alcune considerazioni preliminari per un discorso (da farsi) più ampio e più approfondito.

da:www.radiospada.org

mercoledì 20 luglio 2016

Giovanni Papini sessant’anni dopo. Fede e poesia

di Giovanni Lugaresi

Aveva fatto in tempo a dettare il testo per la lapide apposta a Greve in Chianti sulla casa dell’amico Domenico Giuliotti, “animoso e amoroso cavaliere di Cristo”, che lo aveva preceduto di là dalla vita, quando la morte l’aveva colto in quella chiara mattina dell’8 luglio 1956…
All’ingresso del cimitero delle Porte Sante, dietro San Miniato al Monte in quel di Firenze, accoglie il visitatore un sobrio, austero sarcofago: un nome e cognome, la data di nascita e quella di morte. E’ la tomba di Giovanni Papini, nella quale riposano anche la prediletta figlia Viola e la moglie Giacinta, fedele compagna di una vita piena di avventure intellettuali, di polemiche, di tribolazioni.
D’altro canto, non si saprebbe immaginare la figura e l’opera di Giovanni Papini, senza quel vorticoso turbinio di fatti e di polemiche che costituiscono la costante non soltanto di un personaggio fra i più emblematici della cultura italiana del Novecento, ma di una temperie, quale fu quella delle riviste Leonardo, L’Anima, la Voce, Lacerba. Ora, a sessant’anni dalla scomparsa, si può tentare un bilancio dell’opera papiniana e del significato che essa ha avuto, nella consapevolezza che in questo bilancio riguardante l’autore della Storia di Cristo, sono riassunte le esperienze di tutta una generazione.
C’è stato un momento – e non è finito – che incomincia negli ultimi anni di vita dello scrittore, in cui le giovani generazioni di intellettuali hanno cercato di liberarsi della presenza di Papini, sminuendone o misconoscendone il valore, di stroncare lo stroncatore per eccellenza. Certamente, il fiorentino aveva dato fastidio a troppi, rappresentava un ostacolo per molti, con la sua presenza ingombrante. Gli impegnati di oggi davano contro a colui che aveva fatto dell’impegno la battaglia intellettuale, morale e spirituale di tutta la sua esistenza. Sbagliando, indubbiamente, commettendo errori di prospettiva, mostrandosi sordo a certi discorsi e a certe voci. Ma un uomo, e uno scrittore, che aveva pur sempre pagato di persona gli errori commessi; un uomo e uno scrittore che non aveva mai preso posizione per calcolo; un uomo e uno scrittore al quale il successo non aveva mai dato alla testa, che, diventato benestante, non aveva cambiato usanze, abitudini di vita: non si era cioè, come si suole dire, “imborghesito”.
Qualunque opinione si possa avere di Papini, una cosa ci pare si possa asserire senza tema di smentita: la sua figura e la sua opera sono indispensabili per capire la cultura italiana del Novecento; e non si può parlare di letteratura, togliendo dal panorama Papini.
A lui è accaduto di essere sempre in primo piano per mezzo secolo, poi lo si è dimenticato, da molti negletto, sminuito, trascurato. Ma la ricca biografia, i saggi, le tesi di laurea, le polemiche che il suo nome suscitò e in parte suscita ancora, non rappresentano la prova concreta che egli è ancora presente e vivo nella cultura del nostro tempo?
Perché, qualunque punto di vista si abbia, in Papini ci si imbatte spesso, più del previsto, svolgendo un discorso sulla cultura del Novecento. Né vale il discorso, tentato anni fa sulle colonne di un quotidiano milanese, di un orecchiante che volle inserire lo scrittore fiorentino nel novero dei “nostri cattivi maestri”.
Perché, se si vuole analizzarla nei particolari, dall’inizio alla fine, la lezione che Papini ha lasciato non è certamente quella di “un cattivo maestro”. E in questo concordano autori e critici, di oggi e di ieri, di orientamenti diversi: da Renato Serra a Piero Gobetti, da Pietro Pancrazi a Francesco Flora, da Eugenio Montale a Carlo Bo, da Cesare Angelini a Valerio Volpini, da Carlo Betocchi a Luigi Santucci.
Non solo, ma basta meditare sull’epilogo della vicenda terrena papiniana, su quella sua lenta, sofferta, cosciente agonia, di uomo veramente finito nel corpo, ma che volle a tutti i costi continuare il suo mestiere, il suo impegno di scrittore, per rendersi conto che un uomo che aveva vissuto come aveva vissuto e che moriva come stava morendo, non può essere considerato “un cattivo maestro”. Invero, per capire Papini, uomo e artista, non si può prescindere dalla sua agonia e dalla sua morte, che ci hanno insegnato più di certi suoi libri, più di molti suoi scritti ridondanti di polemica e di umana supponenza.
Ci sono vari motivi per asserire che la presenza di Giovanni Papini è viva nella nostra cultura. Il primo riguarda la funzione stimolatrice svolta, da solo o con l’amico Giuseppe Prezzolini, o con altri ancora, in un panorama intellettuale diviso fra le secche di un provincialismo privo di umori e di fantasia, e il grande mare della retorica dannunziana, nel quale tanti, agli inizi del ‘900… nuotavano.
Papini rappresentò una sorta di “avventuriero dello spirito”, come qualcuno ha osservato, e un singolare avventuriero. Era un ricercatore e l’inquietudine che lo pervase trasmise a tanti. Come osservò una volta l’amico fraterno Prezzolini, “il tormento che ha avuto è il suo titolo di gloria. E questo tormento ha passato negli altri, risvegliando spiriti senza poter dare loro quiete. E’ stato un tormentato tormentatore, un’anima che poneva domande e non sapeva dare risposte. Le risposte che hanno cercato i giovani della sua età e di quella che vien dopo, ciascuno per suo conto e per la sua strada”.
Ricercatore, studioso, con quella curiosità intellettuale che è tipica degli autodidatti e degli spiriti appassionati. Se ai primi del Novecento, in Italia si cominciarono a fare i nomi di Kierkegaard, di Freud, di De Unamuno, non lo si deve forse a Papini e a Prezzolini?
Nell’ansia di nuovo, in Papini si univa la riscoperta o la scoperta di tanti “nostri” dimenticati e quanto di meglio veniva d’Oltralpe. Per cui, lui, “fortemente italiano” (una volta ebbe a scrivere in un articolo sulla Voce che fece scalpore: “Italiani sì, nazionalisti no”), convinto assertore di una cultura nazionale, fu sempre aperto alle voci più significative che venivano dall’Europa e dall’America. James, Whitman sono altri due nomi (d’Oltreoceano) fatti conoscere dallo scrittore fiorentino.
Accanto all’opera di ricerca e di stimolo che direttamente o indirettamente venne dal giovane Papini, ci fu, sempre l’incoraggiamento dato ai giovani. Ce lo disse un giorno Carlo Betocchi: “A tutti ha fatto del bene; molti hanno dimenticato, ma non si può dimenticare quanto Papini ci ha dato”.
Curiosità intellettuale, si diceva. Ecco un esempio, sintomatico del temperamento papiniano in questa direzione.
Lo raccontava Carlo Bo in uno scritto comparso all’indomani della morte di Papini su di un settimanale milanese.
“Arriva il maestro Frazzi, uno degli amici più sicuri, Papini lo saluta appena e già vuol sapere da un ‘competente’ le ragioni del successo di ‘Porgy and Bess’. Devo avvertire che non si tratta di una conversazione a due, da qualche tempo Papini ha bisogno di un interprete (la nipote Anna e la figlia Viola sono rimaste le sole persone in grado di decifrare quel discorso continuo e interrotto). Frazzi tenta di spiegare con la ‘moda’ il successo dell’opera negra, si riferisce all’operetta di un tempo e non nasconde la propria desolazione. Ma Papini non è soddisfatto, ‘non mi basta’ traduce la nipote; e chi ascolta riconosce un altro tratto tipico della sua inesauribile vena polemica. La discussione continua e vince il malato, quella intelligenza murata in un corpo decaduto e sconfitto trova la vittoria piena: Papini sostiene che un fenomeno così vasto non lo si spiega soltanto con il dato della moda”.
Viene poi il prosatore, il poeta: l’artista, insomma, notevolissimo. E se Prezzolini parlò del “lirico più grande della nostra generazione”, certamente i riconoscimenti alla poesia papiniana sia in versi sia in prosa, sono venuti da più parti. Basti, per tutti, il giudizio di Renato Serra. “Ho letto con gioia l’ottava poesia. Tutte le poesie in versi dei tuoi ultimi mesi hanno qualcosa di raro, nella strettezza del linguaggio e nella libertà delle impressioni senza somiglianze: questa mi pare più definita: come un cristallo che si forma nella mobilità: ha in qualche punto la luce di una cosa perfetta: rime e suoni e solitudini si rispondono in una figura precisa di musica”.
Sempre Serra, in una lettera a De Robertis scriveva: “E’ in un momento superbo Papini: anche i suoi tentativi di poesia in versi hanno qualcosa di raro”.
La vena lirica papiniana è riscontrabile poi in tante prose: da quella stupenda di San Martin la Palma, ai Miei amici, a certe pagine dell’Uomo finito e della Seconda Nascita, per finire alleSchegge (ma su queste torneremo più avanti), senza contare Cento pagine di poesia e altri scritti in versi.
Quanto alla prosa, Papini è considerato uno dei più pretti derivati dal Carducci, la cui opera, per dirla con Giovanni Spadolini, “ebbe una funzione essenziale nella resistenza al dannunzianesimo, in nome di una concezione severa del mondo, che si ricollega agli antichi toscani del Quattro o del Cinquecento… Papini contemplò l’opera della scuola bolognese nella salvaguardia dei valori fondamentali della tradizione classica contro ogni degenerazione, contro ogni arbitrio”.
Legato al prosatore, c’è il critico, di un genere tutto particolare, del quale oggi s’è persa traccia. Sentiamo Piero Gobetti che cosa scriveva: “In mano a Papini la stroncatura è arma libera e onesta: ha fatto molto bene alla letteratura e le fatto molto male quando Papini ha voluto essere più bislacco del solito ed è stato più vuoto. Questa forma di recensione polemica ha un certo valore caratteristico specialmente nel suo più grande rappresentante”.
Più tardi, a proposito di un libro non dimenticato di Papini, L’uomo Carducci, il direttore di Rivoluzione Liberale scriveva: “E’ un libro che ci avvicina di più al Carducci; ci fa comprendere la personalità viva, possente, schiettamente popolana dell’uomo che è naturalmente l’anima della poesia. Abbiamo la base per l’esame della poesia carducciana, l’introduzione… Il gran pubblico non sa che farsi della critica e della filosofia e Papini che vuole essere letto ti dà il saggio non critico, l’antifilosofia, ti dà il libro come sa scriverlo solo lui da rude popolano fiorentino. Non è pensatore mai, artista sempre. E qui, accanto al Carducci, ha voluto mettere tutto se stesso parlando, oltre che del suo uomo, di sé con un po’ della consueta alterezza, ma insieme con tante sincerità da far ripensare all’Uomo finito.
E considerato che stiamo citando Gobetti, annoteremo altre sue espressioni a proposito della Storia di Cristo: un libro emblematico, con un significato eccezionale per quel tempo, ma che sotto il profilo artistico fu valutato variamente: da una parte lo criticarono – con motivazioni diverse – Prezzolini e Buonaiuti, dall’altro lo lodarono in molti, e fra questi Missiroli e Gobetti, che annotò: “Dall’Uomo finito alla Storia di Cristo c’è uno sviluppo spirituale e psicologico perfettamente legittimo. Tra Le Memorie d’Iddio e la Storia di Cristo noi non scorgiamo contraddizione. Dal Leonardo a oggi, Giovanni Papini ha seguito e capitanato tutti i movimenti spirituali che, contro il razionalismo postkantiano e contro l’idealismo, diffusero le concezioni tradizionali, antimonistiche, a base sentimentale, che il cattolicesimo accettò sistemando l’originario nucleo mistico del pensiero cristiano… Chi parla d’insincerità o di posa nell’adesione di Papini al cattolicesimo, è insinuatore moralmente spregevole e uomo di studio senza serietà… Stile oratorio, ma non retorico… Ogni capitolo è costruito, solenne come un canto, preciso come una dimostrazione. La nota dominante è la completezza”.
Il discorso lo riprenderemo dopo.
Torniamo, piuttosto, alla stroncatore, per constatare la tristezza dei giorni nostri nei quali più nessuno ha il coraggio di dire che un libro è sbagliato, che non vale la carta. Mario Guidotti centrò il bersaglio a suo tempo, scrivendo: “A un letterato sano non può non venire, oggi, addirittura nostalgia di Papini, del Papini delle Stroncature, un libro non eccezionale, un libro che rasenta il libello e il pamphlet, ma quanto ancora autentico nella sua volgarità, nella sua iconoclastia anche blasfema, nel suo rigore becero! Sì; non era tutta critica letteraria, quella; era in gran parte libellismo e giornalismo. Ma il letterato vi vibrava come una corrente elettrica, e così l’erudito, il traduttore, il filologo, il lettore, il biblofago (aveva ‘divorato’ quattromila volumi in tre anni, il Papini, e lo dimostrava). E soprattutto vi si imponeva l’uomo coraggioso che ‘stroncava’ un libro e uno scrittore. Oggi, chi ‘stronca?’ chi ‘giudica e manda?’ Vi capita mai di leggere un lungo articolo di terza pagina o dei grossi rotocalchi in cui si dice che un libro è bruttissimo, che non contiene poesia, che è sbagliato? Non vi capita. Chi scrive, elogia; magari senza gridare, magari con la voce fioca dalla vergogna, magari esprimendo alcune riserve; l’approvazione, il consenso, sono generali; quelle robuste collere d’un tempo, quelle astiose inimicizie, sono state sostituite da inimicizie non meno astiose, ma mascherate, chiuse nell’ambito dei salotti o dei cenacoli letterari”.
Ed eccoci all’ultimo (ma non ultimo!) elemento della ricca personalità di Papini che non ci stancheremo di sottolineare. La fede. Papini fu ricercatore in tutti i sensi e in tutte le direzioni. Le sue adesioni al pragmatismo, all’idealismo, all’occultismo, al futurismo, furono tappe intermedie verso la conquista di quella Certezza che si identifica con la Verità: quella Certezza, alla quale Papini anelava nelle pagine dell’Uomo finito, che, come acutamente osservava Gobetti, era un’anticipazione della Storia di Cristo, nel senso che vi traspariva tutta l’insoddisfazione dello scrittore, dell’intellettuale assetato di verità. Ci sarebbe voluta la prima Guerra mondiale, quell’immenso carnaio, quelle distruzioni e quei morti, per far approdare Papini alla fede: il colpo decisivo insieme alle esortazioni di quell’anima generosa che era Domenico Giuliotti.
Il giorno in cui Papini consegnò all’editore il manoscritto della Storia di Cristo, annotò sul suo diario: “Sono felice”. Ma quel libro, tradotto in tutte le lingue del mondo, venduto… “a vagoni” negli Stati Uniti (come ci raccontò Prezzolini), rappresentava soltanto la testimonianza “esterna”, artistica, materiale diremmo, della conversione. In realtà, Papini la fede conquistata la serbò intatta sino alla fine, anzi, proprio alla fine si vide come egli fosse veramente uomo di fede: coerente. Tutti sanno della sua lenta, sofferta, agonia, quando, quasi cieco, immoto e muto, con l’intelligenza ancora viva, continuava a trasmettere i suoi pensieri, le sue osservazioni, le sue riflessioni sul dolore. Era la prova più dura, dopo l’angoscia della seconda guerra mondiale. Ed era quella decisiva. Acutamente, osservava Carlo Bo: “Se Papini fosse stato soltanto un uomo di carta, come tante volte abbiamo letto, il tempo della malattia ne avrebbe messo a nudo e coperto le debolezze, le insincerità, gli errori di umanità. Insomma, sarebbe apparso come uno degli spettacoli più rattristanti, quello dell’intellettuale che non ha un centro, non un ideale, non una religione. Ora nelle pagine che dettava alla nipote e che riflettevano una tensione nuova, si deve riscontrare una maturità stupefacente, una saldezza morale rara; la coscienza libera di un uomo che aspetta la morte non ha un attimo di perplessità o di paura”.
Non aveva forse scritto, Papini, “Sempre più cieco, sempre più immoto, sempre più silenzioso. La morte non è che immobilità taciturna nelle tenebre. Io muoio un po’ per giorno, a piccole dosi, secondo il modulo omeopatico./ Ma io spero che Dio mi concederà la grazia, nonostante tutti i miei errori, di giungere all’ultima giornata con l’anima intatta”?
E non aveva anche scritto: “Ho sempre sostenuto la superiorità dello spirito sulla materia: sarei un truffatore e un vigliacco se ora, arrivato al punto della riprova, avessi cambiato opinione sotto il peso dei patiri. Ma io ho sempre preferito il martirio all’imbecillità”?
E, ancora, si legge nelle ultime Schegge: “Ringrazia ogni fiore che hai occhio per vedere./ Ringrazia ogni canto che hai orecchio per udire./ Ringrazia ogni sorriso che hai cuore per amare./ Conobbi un fanciullo che si rallegrava alla caduta delle foglie; ora che è vecchio ringrazia ogni sera il tronco nudo che si leva su dalla terra nuda, simile ad una colonna di gloria”.
Ecco, nell’epilogo terreno, l’uomo assurge alla più alta dignità, nell’eroica sopportazione del dolore, e l’artista raggiunge esiti di poesia altrettanti grandi. E’ ancora Bo a commentare: “Fino a quando Papini ha creduto di dover soddisfare la sua posizione di maestro, di scrittore cattolico e di guida, il maggior numero dei suoi gesti svanivano nel vuoto, non avendo facoltà di presa. Il giorno in cui la vita lo ha costretto a chiudere le porte del suo museo, anche tutto il guardaroba d’accatto è scomparso ed è rimasto l’essenziale che era naturalmente molto poco: ma qui egli ha avuto finalmente la sorpresa di rinnovarsi, senza schemi, senza propositi. Come si è rinnovato? Guardando il mondo, godendo nella memoria la parte viva del passato, non contraffacendo più i sentimenti, insomma legando il suo discorso a due o tre cose che si sarebbero chiamate felicità, gioia, amore, tante parole che non avevano più corso da gran tempo nella letteratura”.
Ecco la lezione intima, profonda, di fede e di poesia, lasciataci da Papini: ecco l’esempio luminoso che viene da una vita operosa e avventurosa: una vita tutta tesa alla ricerca della Verità e quindi, alla testimonianza della Verità; una vita nella quale l’uomo e l’artista, a un certo punto, erano diventati una cosa sola, nella fede mirabilmente professata appunto, usque ad mortem.

da: www.riscossacristiana.it

lunedì 18 luglio 2016

Autorità e ortodossia "muri" di protezione

di Fabio Trevisan


Nel capitolo conclusivo dello straordinario saggio “Ortodossia”, Chesterton volle chiarire l’importanza dell’autorità e dell’ortodossia per salvaguardare la moralità e l’ordine, il rinnovamento e il vero progresso. Questa sicura custodia dell’umanità e dell’autentica libertà partiva dal riconoscimento del dogma del peccato originale, da quella che continuamente egli chiamava la filosofia o la tradizione della Caduta (con la C maiuscola). Con questa fondamentale base universale Chesterton additava l’esatto pericolo che stavamo (e che stiamo correndo): la salvezza dell’anima.
L’autorità della Chiesa che difendeva il dogma costituiva per lui la sicura tutela della libertà e del povero: “Se vogliamo proteggere il povero, saremo favorevoli alle regole fisse e ai dogmi chiari”. Sembrerebbe paradossale invocare la necessità di dogmi chiari dinanzi alle miserevoli condizioni dell’uomo di allora e della nostra attualità! Sembrerebbe preferibile appellarsi alla sola misericordia, come accade oggigiorno. Qual era la situazione spaventosa che saltava ai suoi occhi? Senza alcun dubbio era la salvezza prioritaria dell’anima e per questo, ad esempio, preferiva parlare di “dannazione” e non di “degenerescenza” come molti allora, con termini pseudo-scientifici, sostenevano: “Se desideriamo che la civiltà europea sia un’incursione vittoriosa e una liberazione, ci converrà sostenere che le anime corrono un reale pericolo e non che questo pericolo è estremamente irreale”. Davvero commovente era questo autentico sguardo misericordioso in Chesterton, che coniugava carità e dottrina, autorità e libertà, ortodossia e salute dell’anima.
Egli credeva razionalmente alla forza e all’autorità della Chiesa e lo faceva appoggiandosi all’evidenza e al senso comune: “Ho esaminato gli argomenti intellettuali addotti contro l’Incarnazione e ho trovato che erano la mancanza di senso comune…la dottrina e la disciplina cattolica possono essere dei muri, ma sono i muri di una palestra di giochi”. L’abbattimento dei muri non poteva portare che all’anarchia, alla fragilità ed alla paura che Chesterton esemplificava con una significativa immagine: “Immaginiamo dei fanciulli che stanno giocando sul piano erboso di qualche isolotto elevato sul mare; finché c’era un muro intorno a loro, essi potevano sbizzarrirsi nei giochi più frenetici. Ora il parapetto è stato demolito, lasciando scoperto il pericolo del precipizio. I fanciulli non sono caduti, ma i loro amici, al ritorno, li hanno trovati rannicchiati e impauriti nel centro dell’isolotto, e il loro canto era cessato”.
Ecco perché l’autorità e l’ortodossia (come quei muri) salvaguardavano la nostra felicità e curavano la salvezza dell’anima; ecco perché il dogma permetteva la libertà e una reale avventura nella storia dell’umanità. Per questo il Cristianesimo ed i suoi dogmi erano visti da Chesterton nei rapporti pratici con la sua anima e costituivano un insegnamento vivo, determinato e sicuro cui aderire con tutte le facoltà umane (intelligenza, volontà, memoria). Bisognava considerare la filosofia profonda della Caduta ed il paradosso fondamentale del Cristianesimo, che non era l’ordinaria condizione dell’uomo né il suo stato di sanità e sensibilità normale, ma piuttosto che la normalità stessa era una anormalità. Eravamo e siamo pellegrini in esilio dalla vera terra del Padre, bisognosi di una grazia salvifica che ci trascini verso l’alto, verso quella vocazione soprannaturale alla quale eravamo e siamo destinati.
L’orizzonte chiaro dell’ortodossia permetteva di verificare se, nel corso delle vicissitudini terrene, qualcosa ostacolava la salvezza dell’anima. L’autorità della Chiesa consentiva così di assaporare la bellezza dell’avventura umana.

(Riscossa Cristiana, 1 luglio 2016).

giovedì 14 luglio 2016

Gozzano, moderno, postmoderno o crepuscolare?

di Carmelo Fucarino

Questo decennio è stato nei secoli uno di quelli segnati per la cultura. Esattamente il 23 aprile 1616 se ne andarono entrambi William Shakespeare e Miguel de Cervantes Saavedra. Per considerare i piccoli fatti di casa nostra il 17 marzo 1916 morì a Palermo Salvatore Salomone-Marino, seguito il 10 aprile dall’amico, Giuseppe Pitrè, anche lui etnologo, prima che si sapesse cosa fossero l’etnologia o il folklore come scienze.
Davanti a questi giganti direi con il poeta, per poco il cor non si spaura. Perciò mi riservo di tornar con loro in un prossimo mio umile colloquio. Trovo più adatto, anche se non più facile, trattare di un giovanissimo, piccolo grande, che a soli 33, come Cristo, senza voler essere blasfemo, se ne andò il 9 agosto di quel rovinoso 1916. Una foto in bianco e nero, in formato tessera, in posa e agghindato, mostra il suo viso sorridente e per niente crepuscolare con un vestito quasi divisa. Una fisionomia che ritrovo in tanti ritratti sgranati di inizio Novecento, il volto bambino di un mio zio caduto sul Podgora per redimerne una parte ingrata di Italia. Nel colore quasi di africano che ho visto in tanti volti del Museo di Ellis Island.
Certo, in quell’anno Einstein pubblicò la sua teoria della relatività e fu introdotta per la prima volta l’ora legale. Ma eravamo anche all’epicentro della prima grande guerra con il primo impensabile bombardamento di Milano a febbraio e l’inizio a maggio della Strafexpedition, terribile già nella fonetica.
Per Guido Gozzano il male covava da anni, quel mal sottile che si cercava di sconfiggere con la buona aria, nelle Baden Baden montane o nei più modesti centri liguri di mare. La tisi ispirò Thomas Mann per la sua titanica Montagna incantata e per la più modesta Diceria di Bufalino. Era stato il male delle damine aristocratiche di un’epoca romantica, ma anche la dote onorifica delle soffitte dei bohemien, esemplare la Boheme di teatro e musica e i casalinghi Scapigliati milanesi. Non si parlò del popolo minuto falcidiato all’ingrosso. La malaria fu protagonista popolare.
La fama del poeta bambino corre ancora in una lunga sequenza di siti internet legata ad un aforisma, quasi un refrain «Non amo che le rose che non colsi» (Cocotte). Purtroppo ci ha lasciato con questo mistero, di conoscere le sue rose non colte. E la domanda: cosa avrebbe scritto ancora in prosecuzione di questo infantile avvio? In che modo si sarebbe sviluppata la sua poetica in tale stato esistenziale di perenne evoluzione, ma sospeso e fratto tra l’antico impresso sulla pelle, tatoo indelebile, e il moderno sentire che urgeva? Circolava in tutta la sua breve esperienza poetica questa tensione verso un desiderio inappagato che diventava aspirazione onirica. Così si agitava già in altro ossimoro dell’impossibile in Via del rifugio, «vedo un quadrifoglio / che non coglierò».
Sulla sua sperimentazione, diciamo esercitazione poetica, incombettero i giganti del passato e del presente in progress, l’arcigno luciferino Carducci, anche lui dimidiato tra il classicismo dei primi titoli latini e della irruenza dei giambi ed epodi e dei ritmi barbari, fino all’approdo delle nuove rime e ritmi, e il Pascoli che ondeggiava tra l’umiltà delle tamerici virgiliane e la dolorosa e pietosa (da pietas) invenzione del canto a voce spiegata di Castelvecchio, prima di esplodere e dispiegarsi nei poemetti, secondo il progetto della IV ecloga, vv.1-3, Sicelides Musae, paulo maiora canamus. /non omnis arbusta iuvant humilesque myricae; / si canimus silvas, silvae sint consule dignae. Erano i professori che si succedettero nella cattedra di italiano di Bologna, Carducci fino al 1907, Pascoli fino al 1912. Con quest’ultimo Gaetano Trombatore mi costruì nel corso particolare dei miei studi universitari le risonanze e le anticipazioni simbolistiche, i simboli svelati ed abortiti, raccolti in Memoria e simbolo nella poesia di Giovanni Pascoli (1975). Esemplare quell’infelice titolo Orfano, ma grandiosa Digitale purpurea. Incombeva su tutti, nume tutelare, poeta romanziere tragediografo commediografo, eroe ed esteta di vita, l’oceanico D’Annunzio, che avrebbe imperato sulla poesia e sulla cultura italiana fino al 1938.
Tutto si potrebbe dire di quegli anni. Eppure si parlò e si scrisse di crepuscolo della letteratura. Sarebbero venuti anni più tragici in cui si sarebbe parlato di decadenza. G.A. Borgese, quello del grande Rubé, inventò il neologismo, «mite e lunghissimo crepuscolo» (La Stampa del 10 settembre 1910). Ma i critici son fatti così, vedono sempre nero, nessun artista va bene per loro e prospettano sempre la fine del mondo. Non vogliono riconoscere che la società si evolve e trasforma e quella che sembra una crisi è semplicemente una trasformazione verso nuovi progetti o pura rimodulazione di antichissimi fenomeni. Già quando si era esaurito lo slancio creativo della lirica e della melica greca classica, in età alessandrina, i poeti cercarono l’originalità nella raffinatezza  stilistica o si esercitarono in fantasiose  composizioni grafiche, inventarono la poesia figurata. Esempi eclatanti furono le composizioni di Simmia di Rodi, i versi a forma di ascia bipenne (L’ascia), di ali (Ali), di uovo (Uovo) o di siringa (Syrinx). Perciò esaurita la linearità estetica e poetica del romanticismo e risolto il neoclassicismo romantico del velo delle Grazie, in una fase definita anche decadente, le figure parlanti di Guillaume Apollinaire, Il Pleut, con il fiotto di versi.
Gozzano, stretto fra questi giganti, per i pochi anni che gli furono concessi, trovò una sua via alla espressione poetica. Eppure non mancarono le classiche rime e le regole metriche, lo stantio di certi vocaboli ottocenteschi che mai osò Pascoli. Ci fu questo scarto tra una conoscenza linguistica attardata al linguaggio letterario della scuola e la volontà di superare le forme attraverso l’inganno dei nuovi contenuti. E qua si rivelò l’impossibilità della conciliazione. Occorreva la demolizione futurista per ri-cominciare. In seguito la sua poesia si conformò ai tipi di una prosa ritmata, ma non poteva bastare quello, l’umiltà del quotidiano e la prosaicità della resa a decretare la nascita di una nuova poesia. Restavano i modelli letterari abusati, pur nella sua aspirazione al loro ribaltamento.
Certamente furono i contenuti a interessarlo, un mondo nuovo che il concetto altamente eroico e sublime della poesia aveva trascurato, soprattutto disprezzato come indegni di essere elevati a ritmo. Tuttavia se si considera tutta la tradizione letteraria italiana c’era stata perenne questa aspirazione a rilevare il poetico nella vita reale. Già Dante aveva manifestato questa scelta con la qualità estetica della sua umile “comedia”, in opposizione all’eroico epico e tragico. Invece il primo poeta lirico, Petrarca, aveva atteso l’alloro dalla sua Affrica, considerando la lirica, come vulgares res. Sempre tale alternativa ossessionò la creazione italiana. Non mancò Manzoni di volgersi agli umili, dopo la sua esperienza lirica e tragica dei grandi della storia. In questa lettura della poetica romantica in Italia, il popolo come umile o la società come eccezione alla norma, Pascoli, un professore di latino e greco, passato alla cattedra di letteratura italiana, ritrovò la linea della semplicità, spinto al quotidiano dall’esperienza della campagna elegiaca del suo fanciullino, restato tale in margine alla tragedia familiare.
Gozzano portò alle estreme conseguenze questa svolta poetica. Rimase sempre il verso nella sua struttura dotta, in questa direzione non ci furono novità eccezionali, quali quelle sbandierate dal futurismo e dai vari ismi fino alle avanguardie. La veste estetica, scusate l’ardito pleonasmo, se estetica deriva da estes, “veste”, l’ornamento rimase identico. Cambiò la persona che l’indossava, donnette umili, simbolo di un quotidiano che nulla aveva di eroico se non la propria misera esistenza quotidiana, l’eccezionalità di questa umanità. Ed era ardito scegliere a protagonisti di poesia quelle piccole donne, come le umili Agnese e Lucia, che rimangono personaggi di romanzo, elevandole addirittura a soggetto di poesia. Alle Elettra o Fedra o Ermengarda si sostituivano la Carlotta, la Felicità, etc.
Lo straordinario dell’operazione stava nel fatto che all’estetica della raffinatezza aristocratica si assumeva l’estetica delle piccole cose di pessimo gusto. Si era pur sempre in un ambito di estetismo di contrapposizione. Di fronte alla società delle passioni aristocratiche dannunziane si elevava in contraltare la donna del popolo, con i suoi gusti e il vestire che imitava quello delle dame, nella brama perenne di una elevazione sociale attraverso la moda, il galateo spicciolo del modo di tenere la tazza del tè. Si elevava nell’imitazione esteriore dei cappellini e delle gonne.
Eppure egli stesso era consapevole del suo antiestetismo dell’estetismo, quando prometteva a Felicita di volere rinnegare se stesso,
«Ed io non voglio più essere io!
Non più l'esteta gelido, il sofista,
ma vivere nel tuo borgo natio,
ma vivere alla piccola conquista
mercanteggiando placido, in oblio
come tuo padre, come il farmacista...


Ed io non voglio più essere io!».

E ancora:
«M'apparisti così come in un cantico
del Prati, lacrimante l'abbandono
per l'isole perdute nell'Atlantico;
ed io fui l'uomo d'altri tempi, un buono
sentimentale giovine romantico...


Quello che fingo d'essere e non sono!».


Nella citazione dotta c’è la finzione di uomo scisso, ancora indeciso sulla strada da imboccare, giunto all’ypsilon di Eracle. Invano, perché le radici sentimentali erano profonde e consolidate, quei simboli poetici, quelle metafore erano insite nella formazione, troppo scolastica, ancora fervida per farvi tabula rasa, quella cultura letteraria impartitagli era troppo recente per essere cancellata di un colpo.
A ciò gli mancarono gli anni. Poi Borgese coniò quell’ismo che lo etichettò per sempre fra altri poeti mediocri, se si esclude Moretti, che nulla avevano a che spartire con lui.
E le tante formule ed estrapolazioni fuorvianti che ne hanno fatto il caso letterario della “malinconia crespuscolare”, delle celebri «buone cose di pessimo gusto». Fino a diventare un caso clinico, povero infelice per quella frase maldestra, come nell’ultima seduta analitica della psicoterapeuta Gianna Schelotto, Le rose che non colsi. Psicologia del rimpianto (Mondadori, Milano, 2014).