domenica 8 maggio 2016

Ralph McInerny, il Chesterton d’America

di Matteo Carletti

Il febbraio di sei anni fa ci lasciava uno dei più importanti filosofi cattolici del ventesimo secolo, Ralph McInerny. Purtroppo solo poche delle sue opere sono state tradotte in Italia, e tra le quali mi piace ricordare “Vaticano II. Che cosa andato storto?” e “L’Analogia in San Tommaso”, a cura di Fulvio di Blasi, amico e collega del filosofo americano. Grande studioso di San Tommaso d’Aquino ha realizzato anche una storia della filosofia (in tre volumi) mai tradotta in italiano. È però noto al grande pubblico, in particolare negli Stati Uniti, oltre che per una serie di opere divulgative su San Tommaso d’Aquino, per la sua intensa attività di romanziere (ha pubblicato ventotto romanzi) che hanno come protagonista Padre Dowling, un parroco dell’Arcidiocesi di Chicago regolarmente coinvolto in vicende criminali che risolve con capacità deduttive degne dei migliori detective privati. E come un altro grande “inventore” di personaggi del giallo come Chesterton (padre della fortunata saga di Padre Brown), il filosofo americano ha avuto più fortuna come romanziere che come studioso di filosofia. Ma come Chesterton, anche McInerny, ha saputo cogliere, nel suo linguaggio puntuale ma incisivo, le questioni filosofiche e religiose più grandi del nostro tempo e di sempre.
In questo spazio mi piace ricordarlo con una recensione che feci per il suo volume “Conoscenza morale implicita”, pubblicato per la Rubettino nel 2006, che raccoglie la trascrizione di una lezione da lui tenuta il 20 luglio 2004 a Palermo presso l’associazione “Thomas International”.
Il testo, con originale inglese a fronte, pretende di indagare la questione del livello “pre-filosofico” che tutti gli uomini condividono, e attraverso cui tutti, filosofi e uomini comuni, hanno la possibilità di trovare le risposte alle grandi domande poiché la nostra mente opera in base alle stesse verità fondamentali sul mondo e sulle nostre azioni. “Queste verità fondamentali, come ricorda Fulvio di Blasi, sono l’inizio della vera sapienza”.
Ciò da cui muove il filosofo e scrittore statunitense è l’idea che la morale, intesa in senso aristotelico-tomistico, sia qualcosa di innato, di implicito nell’intelletto umano, quasi che ciascuno di noi possieda l’inevitabile conoscenza “di quel che si deve o non si deve fare”(p.20). Anche se ad una prima, e forse superficiale analisi, può sembrare che i giudizi morali differiscano gli uni dagli altri e che in sostanza non è dato determinare quale che sia il migliore o il peggiore, quando si parla di Legge Naturale questa, per così dire, deriva relativistica dei valori, viene decisamente superata. Perché o la Legge Naturale è, come la definiva Tommaso d’Aquino, il modo specificatamente umano di partecipare alla legge eterna, i primi e indiscutibili principi del pensiero pratico, o non è. Nessuno di noi produce, all’interno di questa riflessione, giudizi morali fondamentali, poiché essi sono già posti e non resta a noi che il compito di tradurli, di dischiuderli, di riflettere su ciò che in realtà già possediamo. La “spiegazione” della Legge Naturale “può appartenere a qualcuno, e perfino portare il suo nome; ma la spiegazione riguarda qualcosa che è di dominio pubblico” (p.22). McInerny vuole con ciò intendere che tale riflessione può essere elaborata da chiunque poiché tutti possiedono tale capacità. Ricorda come anche lo stesso Giovanni Paolo II nella sua importante enciclica Fede e Ragione, sostiene che non solo sono comuni le domande, ma anche le risposte, ovvero ci troviamo di fronte ad una “Filosofia Implicita” che tutti non possono che condividere. “In questo senso è possibile riconoscere, nonostante il mutare dei tempi e i progressi del sapere, un nucleo di conoscenze filosofiche la cui presenza è costante nella storia del pensiero. […] Queste conoscenze, proprio perché condivise in qualche misura da tutti, dovrebbero costituire come un punto di riferimento delle diverse scuole filosofiche. Quando la ragione riesce a intuire e a formulare i principi primi e universali dell’essere e a far correttamente scaturire da questi conclusioni coerenti di ordine logico e deontologico, allora può dirsi una ragione retta o, come la chiamavano gli antichi, orthòs logos, recta ratio” (Fides et Ratio, 4).
Per poter dimostrare quindi tale analisi è necessario partire dalla teoria della conoscenza e procedere poi per analogia in ambito pratico. Come per Platone nel Menone imparare è già un ricordare, così anche per Aristotele la conoscenza avviene per dimostrazione, che però deve poggiare ultimamente su proposizioni vere evidenti, cioè eterne e non dimostrabili a sua volta. Ne scaturirebbe altrimenti un procedimento all’infinito. Quindi Aristotele, superando lo stesso Platone, non si accontenta nel dire che il sapere è come un morire, poiché la nostra anima già ha contemplato le verità eterne e non resta che nella nostra vita terrena il compito di recuperare tale conoscenza perduta. Egli procede per un elaborata via dimostrativa in cui le prove dimostrative di conclusioni dipendono da principi che non sono conosciuti in questo modo (cioè per via dimostrativa), ma a partire da verità in se stesse, per se. Questo ragionamento è ripreso, non a caso, da Tommaso nella Summa theologiae in cui vengono ulteriormente chiariti i primi principi indiscutibili del ragionamento pratico. “Noi pensiamo o termini semplici o la combinazione di essi in giudizi e proposizioni. L’argomentare o il discorso – la derivazione di una verità da altre conosciute – presuppone, in ultima analisi, verità che sono evidenti, altrimenti ci sarebbe un regresso infinito” (p. 30). Questo ordine di ragionamento, se vale per la conoscenza dell’essere, deve valere anche per l’ordine pratico. “Chi potrebbe evitare di conoscere il bene? Il bene è ciò che si desidera, ciò che soddisfa un bisogno, che migliora o realizza, che perfeziona”. (p. 30) E’ evidente che, stando così le cose, il bene debba essere fatto e perseguito e il male evitato.
Quindi in ambito morale per McInerny più che chiederci se essere platonici anziché aristotelici, ci si deve domandare se non sia già è un’evidenza il fatto di riconoscere, in un’analisi di un qualche principio morale generale, il fatto che ci sentiamo inclini a dire che già conoscevamo tale principio. E’ chiaro che per ammettere ciò devo prendere come seria l’analogia tomista fra ordine teoretico e ordine pratico. Se ciò che vale come evidente per l’essere deve esserlo anche per la morale. Va chiarito quindi il primo principio da cui partire, primo non nel senso della prima comprensione che un soggetto ha dalla nascita, ma come implicito in qualsiasi giudizio si possa esprimere. In ambito conoscitivo esso va ricercato nel principio di non contraddizione per cui qualcosa non può essere e non essere allo stesso tempo e sotto lo stesso aspetto. Questa è una verità implicita nel pensiero e nel linguaggio perché prima lo è nella realtà alla quale i due termini rimandano. “Ciò che contraddistingue un principio è l’essere incorporato o implicito in altri giudizi, e ciò che contraddistingue un primo principio è l’essere incorporato n tutti i giudizi” (p.34). Quindi per formulare tali giudizi devo necessariamente avere una base sensoriale da cui partire che fornisca le basi per la formazione di idee che sono i termini dei giudizi. Ne consegue che la conoscenza intellettuale presuppone l’esperienza sensibile, fermo restando che c’è in “primo” in entrambe. Anche se io posso, nell’esperienza sensibile, conoscere per “primo” qualsiasi cosa, esso non sarà che un “ente”, e tutto ciò che ad esso posso riferire come verità non sarà ad esso circoscritto, altrimenti niente potrebbe essere conosciuto come vero o falso. Questa potenza o capacità di conoscere è quindi ciò che ci definisce, ma come passare al piano pratico? Per McInerny nel caso dei giudizi pratici, sul cosa debba essere fatto, abbiamo una situazione analoga. È evidente che per bene tutti noi intendiamo qualcosa che è necessario al nostro benessere e come tale va perseguito e, prima ancora, desiderato. “Dire che qualcosa è buona significa presentarla come desiderabile, e non c’è quasi bisogno di dire che per desiderabile qui s’intende non solo ciò che può essere desiderato ma ciò che va desiderato” (p. 40).
È la conquista della regola d’oro, “fai il bene, evita il male”. Ma la regola d’oro basta a contenere la moltitudine dei precetti morali? Se questi ultimi possono (e di fatto vengono) messi in discussione come posso parlare ancora di Legge Morale Naturale? Se si fa riferimento all’educazione che ogni persona riceve si dall’infanzia ci si rende conto come la conoscenza morale è racchiusa nelle pratiche della nostra educazione, in quello che i genitori, chi più chi meno, hanno ritenuto opportuno indicare ai propri figli. Come spesso accade in tutti i precetti, gli ammonimenti prudenziali, è racchiusa la regola d’oro. Ma la cosa meno ovvia all’intelletto è che i genitori non ci danno la capacità di cogliere le verità morali, bensì si appellano ad essa come a qualcosa che noi già possediamo e che si manifesta gradualmente nel corso della crescita. Senza questa pre-comprensione della morale non sarebbe possibile nessuna conoscenza pratica di comportamento, come accade analogamente per le pre-comprensioni cognitive relative alla conoscenza intellettuale. “E’ così che impariamo la morale. Siamo nati con la capacità, e attiviamo sotto la guida dei nostri genitori, con i principi fondamentali impliciti nei richiamo che ci rivolgono” (p. 42). Negare i precetti della legge naturale, ovvero una conoscenza morale implicita, equivale a negare, nel campo conoscitivo, il principio di non contraddizione, il che renderebbe inconoscibile la realtà.
Gli insegnamenti umani, per dirla con Tommaso, non sono, quindi la causa primaria dell’apprendimento. Essi presuppongono qualcosa che già ci è dato. Questo qualcosa, sia che usiamo gli argomenti del mito della caverna di Platone o dell’intelletto agente di Aristotele, costituiscono il segno distintivo della persona. Sia che esso provenga da una vita dell’anima precedente o sia una capacità innata o costituisca la natura umana, nel dibattito “tutte queste discussioni puntano a qualcosa chi si trova già lì” (p. 46).

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