lunedì 28 dicembre 2015

Il presepio una costruzione trasgressiva.

di Domenico Bonvegna

Da qualche anno si ripete il solito stupido e ridicolo disegno di cancellare le nostre tradizioni natalizie, in particolare quello più caratteristico: il presepe. Non mancano presidi o insegnanti che con una grande dose provocatoria, impediscono ai propri studenti anche a quelli non cattolici, di poter conoscere quel messaggio universale di pace che è il Santo Natale. Per la verità a cancellare totalmente il Natale ci aveva pensato Erode, con il suo metodo radicale, ora ci provano in tanti modi i fautori del “multiculturalismo”, della “libertà”, della “democrazia”, alla fine la scusa è quella  di non “offendere” lo “zero-virgola” di alunni islamici presenti nelle scuole. E per un dirigente scolastico, un insegnante o un sindaco che escono alla scoperto, quanti sono quelli che agiscono in sordina? Tuttavia, il problema, in verità non viene creato da chi ha altre fedi religiose, ma da quei laicisti che non ne hanno affatto e usano come alibi il rispetto dei non-cristiani e la paura degli attentati terroristici.
Anche se c'è qualche inaspettato buon segnale da parte di “laici” come Massimo Gramellini che dalla prima pagina di Repubblica difende con decisione il canto “Tu scendi dalle stelle”; o con Vittorio Sgarbi che in una trasmissione proclama l’umanità nuova nata da quel Bambino e augura “Buon Natale a tutti voi che non siete nati il giorno in cui è nato Gesù Cristo, ma dovete a Gesù Cristo la vostra libertà, la bellezza, l’indipendenza della donna, tutto…”
In pratica cancellando le nostre tradizioni natalizie stiamo censurando il nostro modo di essere e di vivere, pensando di educare i nostri ragazzi alla tolleranza. Di questo passo arriveremo ad abolire Dante, Manzoni, i dipinti dei grandi artisti, i musei, le chiese ricche di statue e di affreschi, città intere che in ogni edificio, non solo religioso ma anche pubblico, parlano di fede. Finiremo per censurarli tutti, ma così certamente non saremo più colti, più intelligenti, né più accoglienti, soltanto più aridi e infelici.
Stiamo esagerando? Ma non ci sono stati presidi e insegnanti che hanno proibito ai ragazzi di visitare mostre come quella di Chagall, quello del famoso crocifisso bianco. Magari sarà meglio vedere la mostra di Firenze dove il crocifisso è in un barattolo di urina.
Quali sono i motivi per cui occorre spogliarsi delle nostre tradizioni, dei nostri segni? Forse per favorire il “dialogo” (parola-talismano dell'Occidente liquido) con i lontani, in questo caso, gli islamici? Non credo che riusciamo a dialogare meglio rendendoci nudi, attaccandoci a “niente”, soprattutto di fronte al credente in Maometto, erede consapevole di una grande religione come l'islam. Anzi è probabile che ci disprezzerà perchè ci siamo spogliati della nostra fede, della nostra cultura. E' una pia illusione credere che gli islamici si possano convertire alla nostra cultura occidentale, impregnata di relativismo religioso, libertà sessuale, edonismo, aborto, disordine familiare, omosessualismo, ideologia del gender e tanto altro. O forse pensiamo di corrompere o di integrare i musulmani, con il sex-shopping olandese, o il “nulla” dei Paesi del Nord Europa, ex protestanti, che ormai si sono adagiati su un paganesimo vissuto. 
Non sarà forse che il problema siamo noi e non i diversi? E' proprio così “Siamo noi che non sappiamo rendere ragione del bimbo nella mangiatoria”, scriveva l'informatore parrocchiale di Santa Maria delle Grazie al Naviglio in Milano.
Probabilmente siamo un popolo che non ha più nulla da raccontare che non ha qualcosa di caro da difendere. Peraltro solo un popolo sa essere accogliente, altrimenti si diventa solo tolleranti. Essere tolleranti non è positivo, si tollera qualcosa che si sopporta a fatica, qualcosa che potrebbe essere spiacevole, dannosa, mal sopportata. Infatti,“si tollera chi ci sta vicino, sino a quando non ci dà troppo fastidio. Invece, il cristianesimo ci educa ad accogliere”. Naturalmente, però, chi accoglie l'altro deve amare le sue differenze, per quello che è, ma nello stesso tempo non si deve vergognare di se stesso. Dunque no alla tolleranza, si al rispetto degli altri.
E' vero, il problema siamo noi, e non solo i cristiani, semplici fedeli, ma anche qualche prelato come il vescovo di Padova, monsignor Cipolla, che intervenendo sul caso del preside di Rozzano, volendo forse andare controcorrente, l'ha sparata grossa, invitandoci a fare “un passo indietro” sulle nostre tradizioni natalizie (leggi presepio), per mantenere la pace, l'amicizia e la fraternità con i lontani.
A questo proposito sono interessanti le domande con piglio polemico poste sul quotidiano online LaNuovaBQ.it da un lettore al vescovo della città di sant'Antonio. Fino a che punto dovremo fare dei passi indietro sulle nostre tradizioni religiose? Si è chiesto  questo lettore. “Faccio qualche esempio: dovremmo fare passi indietro rispetto alla processione del Corpus Domini oppure alle processioni dell’Assunta oppure alle preghiere mariane oppure alle visite alla basilica di Sant’Antonio nella sua città?” (Peppino Zola, “Presepi, islam e Vangelo: dieci domande a monsignore”, 7.12.15 LaNuovaBQ.it)  Ma poi questi passi indietro, non potrebbero essere un'offesa nei confronti di tantissimi martiri cristiani, non solo del passato, ma soprattutto di oggi, che continuano ad essere“trucidati perseguitati proprio perché hanno avuto il coraggio di non fare passi indietro?”. “Siamo proprio sicuri che questa spasmodica ricerca di tranquillità serva alla causa della pace?” Domanda ancora il lettore del giornale diretto da Riccardo Cascioli. “Non è che, forse, questo atteggiamento imbelle non incoraggi i terroristi islamici ad essere sempre più aggressivi? Esempio clamoroso è proprio quello della Francia e di Parigi. Nessun Paese e nessuna città hanno fatto passi indietro come loro, eppure sono stati attaccati in modo così barbaro”.
Continuando le domande, il lettore chiede al vescovo come bisogna leggere alcuni significativi passi del Vangelo, incominciando con quello di Matteo:“non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada.. Chi ama il padre a la madre più di me non è degno di me”? Altro passo: “Guardatevi dagli uomini perché vi consegneranno ai loro tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe e sarete condotti davanti ai governatori e ai re per causa mia, per dare testimonianza a loro ed ai pagani”; Oppure,“sarete odiati da tutti a causa del mio nome, ma chi persevererà fino alla fine sarà salvato»; “chi mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli...”.
E che dire di Infine, di quel “birichino di San Paolo, che ci invita ad annunciare Cristo in modo «opportuno», ma se occorre anche in modo «inopportuno?” In conclusione il lettore chiede al Monsignore, se può chiarire quanto ha detto ad Avvenire e cioè: “tutte le manifestazioni di devozione sono misurate dal Vangelo, che annuncia il mistero di Dio che si è fatto povero e piccolo. E silenzioso”? Le faccio la domanda, perché non mi pare che Gesù sia stato tanto silenzioso (se lo fosse stato non lo avrebbero ucciso) e poi ha detto così ai suoi apostoli: «quello che vi dico nelle tenebre ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio predicatelo sui tetti». Monsignore, cosa pensa del fatto che i cristiani non possono manifestare pubblicamente la propria fede in quasi tutti i Paesi islamici? Lì cosa possiamo fare per creare un clima di pace e tranquillità? Dobbiamo solo tacere, contro il comando del Vangelo? Spero di avere almeno qualche risposta. Ho tanto bisogno di capire.

La presuntuosa fede dei razionalisti

di Marco Luscia

Amanti del piccolo chimico, novelli manipolatori di cervelli in camice bianco, illuminati e scettici intellettuali, preti disamorati d’ogni miracolo e prigionieri delle immutabili leggi di natura, vi divertite ad esaltare il disincanto? Io amo lo stupore dei bambini, un rapimento che quando si diventa uomini si colora del sangue fiorito della fede ingenua, che non è sciocca credulità ma candida e perfetta intuizione. 
Sono innumerevoli le storie di esseri umani che hanno “ toccato il soprannaturale”, una selva rigogliosa di eventi, piccoli segni, possenti simboli, tratteggia non poche di queste biografie. È inutile, la sonda presuntuosa del razionalismo non troverà mai nulla, i sensori più sofisticati daranno un muto segno; perché l’unità di misura degli scettici è inadeguata rispetto alle profondità del cuore. Ci sono storie di uomini e di donne che hanno perso tutto e che in quel momento di rassegnazione hanno trovato Dio. Forse Dio è prima di tutto il Padre degli sconfitti della vita, di chi non aveva altro se non lacrime. 
Ci sono storie di miracoli, di guarigioni inspiegabili, di digiuni impossibili come quello di Marte Robin, che visse come una tenue fiamma, alimentata dalla “goccia” quotidiana dell’eucarestia. In questi “ luoghi della storia”, nel cuore di tante persone, semplicemente si riconosce un mistero, niente va dimostrato, perché la vita è incontro e l’incontro è inesplicabilmente e sempre unico, irripetibile. Il miracolo è irripetibile. Le leggi scientifiche invece sono per definizione riproducibili. Gesù nel deserto non ha compiuto un miracolo a comando; perché come insegna il Vangelo, il mondo è proprietà del principe oscuro e Gesù regna su tutto l’universo secondo “ una illogica” legge di Grazia. Per questo gli strumenti che impugnano i piccoli signori dei poteri mondani, vedono solo la terra, la dividono e ne scrutano ogni atomo; ma non riconoscono il miracolo di un piccolo fiore. Come ha detto Cristo: “ Io sono venuto per ridare la vista ai ciechi e per toglierla a coloro che dicono di vedere”.

lunedì 21 dicembre 2015

Pubblichiamo una poesia di Vittorio Riera dal titolo "Signora Poesia"

Signora Poesia

Uno spicchio di luna
ma bada che il taglio sia netto
non si sfregi chi da secoli
in silenzio ci accompagna.
Aggiungi un grumo di sole
ben filtrato mi raccomando
meglio se un raggio intero.
Di cristallo. Un’onda marina
non manchi. Sceglila fra le piú allegre
e limpide. (Eccone là una lambire
i tuoi piedi, afferrala ma non stringerla
troppo. Ecco … così… delicatamente
come carezza di mamma 
alla sua bimba offesa).
Il colore poi sia ben dosato
e non importa se i chiari
prevalgono sugli scuri o se gli scuri
talvolta rischiarano sui chiari.
Di musica tanta e tanta e sempre
e nei cieli spargasi puliti.
Racchiudi il sogno in un’ampolla
di corallo però non dimenticare
e lascia che posi in silenziosa quiete
come neve che spegnesi in silenzio
o echi di bimbi nei meriggi estivi.
Nascondila nel tuo cuore
e cerca illuminarla con intelletto.
Un pizzico di fantasia non guasti
due pizzichi poi … non ne parliamo.
E non è finita.
Rotto ancora non è l’incanto.
Adesso… adesso è tempo di sguardi
di attese di fermenti gorgoglianti silenzi.
Come il mosto nella tinozza colma. 

Ora davvero tutto è pronto.
Staccasi la forma
e come per magia
ecco erompere
alta libera innocente
ma sí lei proprio lei
signora Poesia.

Palermo, 2002

domenica 20 dicembre 2015

Le confessioni di Oscar Wilde

di Francesco Agnoli

Il 30 novembre 1900, a Parigi, moriva Oscar Wilde, l’autore de Il ritratto di Dorian Gray.
La sua figura è spesso strumentalizzata ed incompresa, nella sua profondità e nel suo dramma.
Per questo può essere utile ricordare almeno alcune cose.
Oscar Wilde nasce a Dublino il 16 ottobre 1854. Come racconta il biografo Francesco Mei, suo padre, sir William, è un medico affermatissimo, che “cambia più spesso le amanti che non le camicie” (Francesco Mei, Oscar Wilde, Rcs, Milano, 2001). Sua madre, Jane, è “portata a trascurare l’andamento della casa, compresa l’educazione morale dei figli”. William e Jane sono una coppia “aperta”, con tutte le caratteristiche del caso. Quando Oscar nasce, la madre, “che aspettava ardentemente una bambina”, resta delusa. Proietta sul figlio, maschio, i suoi desideri: il piccolo Oscar viene vestito da bambina, “agghindato con trine e pizzi” e patisce tanto le imposizioni della madre, quanto l’assenza del padre. Vari biografi mettono in luce come Wilde abbia interiorizzato una figura negativa di padre, e questo gli abbia impedito di sviluppare appieno la sua virilità e il suo senso di paternità: cercherà sempre, in altre figure maschili, il padre che non ha avuto, e sarà, con la moglie e con i figli, il marito infedele e il padre assente che non aveva apprezzato in suo padre.
Presto Wilde si distacca dalla famiglia, andando a studiare in collegio, prima al Trinity College di Dublino, poi ad Oxford. Rimanendo per certi aspetti “un eterno fanciullo”, incapace di “maturare, almeno sul piano affettivo”. Suo padre non è per lui oggetto di ammirazione, anzi Oscar non approva “lo sfrenato libertinaggio del genitore. E non è escluso che proprio per reazione agli eccessi paterni, egli abbia concepito sin dall’adolescenza una sorta di riluttanza a stabilire rapporti impegnativi con le donne”. Si sposerà, amerà sua moglie, ma, un po’ come il padre, senza mai riuscire a farlo veramente, alternando i rimorsi e il desiderio di tornare da lei, all’insicurezza e alla mutevolezza, ai rapporti fuggevoli e molteplici con donne, uomini e ragazzini.
In un vortice di depravazione, come dirà lui stesso, che lo porterà, dopo il successo, alla prigione, ma anche ad una salute inferma, causa l’uso prolungato di alcool, liquori, assenzio… sino alla fine dei suoi giorni. Condannato al carcere nel 1895, con l’accusa di aver avuto rapporti omosessuali con svariati ragazzini e prostituti, Wilde scrive da lì alla moglie Constance: “Perdonami… i miei peccati sono stati tremendi e imperdonabili…”. Wilde si vergogna della sua vita passata, anela alla rigenerazione, alla rinascita, si fa dare il Vangelo, gli scritti dei cardinali inglesi Newman e Manning, la Storia dei papi… e progetta di scrivere, una volta fuori dal carcere, qualcosa su san Francesco, quasi a riparazione del suo “perseguimento selvaggio del piacere che inaridisce il corpo e lo spirito”.
Nel 1897 scrive una lettera che prende il titolo da un salmo, De profundis, a lord Alfred Douglas, il suo amante. Il 30 novembre 1900 Oscar Wilde muore, dopo essere entrato nella Chiesa cattolica, di cui era sempre stato un estimatore, ed aver ricevuto l’estrema unzione (Paolo Gulisano, Il ritratto di Dorian Gray, Ancora, Milano, 2009, p. 181).
Come per Baudelaire, Verlaine, Rimbaud e Huysmans (il cui romanzo Controcorrente è considerata la “bibbia dell’estetismo” e che poi diventerà oblato benedettino), passati tutti, chi più chi meno, da un forte rapporto con la fede religiosa, anche Wilde non può essere compreso se non riandando alla sua domanda: sono i piaceri del mondo, i “frutti terrestri, a saziare la fame dell’uomo, oppure la nostra “inquietudine”, per citare Agostino, è saziata solo dall’incontro con Dio?
Riportiamo qualche frase dal De profundis, scritto quando il poeta non è più sul palcoscenico, ma giù dal piedistallo su cui lui stesso aveva voluto mettersi, per essere da sè il senso della propria vita; scritto quando al posto dei piaceri sensuali e della dissipazione, vi sono il dolore e la solitudine; quando il tentativo di costruire una vita splendida, al di là del bene e del male, “come se Dio non ci fosse” e “tutto fosse lecito”, si è rivelato un fallimento.
Scrive Wilde: “Bisogna, sì, ch’io mi dica che da me stesso io mi sono distrutto e che nessuno, piccolo o grande, non si può rovinare che con le sue proprie mani. Io sono pronto a dirlo; mi sforzo di confessarlo, quantunque, forse, in questo momento, non lo si creda. Senza alcuna compassione io sostengo contro di me l’implacabile accusa. Per quanto terribile sia stato ciò che il mondo mi ha fatto di male, quel che io feci a me stesso fu più tremendo ancora… Mi divertii a fare l’ozioso, il dandy, l’uomo alla moda. Mi circondai di poveri caratteri e di spiriti miserevoli. Divenni prodigo del mio proprio genio e provai una gioia bizzarra nello sperperare una giovinezza eterna. Stanco di vivere sulle cime, discesi volontariamente in fondo agli abissi per cercarvi delle sensazioni nuove. La perversità fu nell’orbita della passione quel che il paradosso era stato per me nella sfera del pensiero. Infine il desiderio si cangiò in una malattia, o in una follìa, o in entrambe le cose. Divenni noncurante della vita altrui. Colsi il mio bene dove mi piacque e passai oltre. Dimenticai che ogni più piccola azione quotidiana forma o deforma il carattere e che, per conseguenza, ciò che si è compiuto nel segreto della propria intimità si sarà poi costretti a proclamarlo al mondo intero. Così, non fui più padrone di me stesso. Non riuscii più a dominare la mia anima e la ignorai. Permisi al piacere di governarmi e finii coll’essere abbattuto da una sventura orrenda. Adesso non mi rimane più che una cosa: l’assoluta umiltà...”.
Poi, parlando di Gesù, scrive: “…Certo, egli ha il senso della pietà per i poveri, per coloro che sono relegati nelle prigioni, per gli umili, per i miserabili, ma egli ha molta più compassione per i ricchi, per gli edonisti, per coloro che sacrificano la loro libertà e divengono gli schiavi delle cose, per quelli che portano abiti preziosi e abitano in palazzi regali. Le ricchezze e le voluttà a lui sembrano invero delle tragedie più grandi che la penuria e il dolore. Per Natale sono riuscito a procurarmi un Testamento Greco ed ogni mattina, dopo aver spazzato la mia cella e forbito i miei utensili, leggo un passo dei Vangeli, una dozzina di versetti presi a caso, non importa dove. È una deliziosa maniera di cominciar la giornata. Ciascuno, anche vivendo una vita turbinosa e disordinata, dovrebbe fare così…”.
Sentiva Wilde, che Gesù aveva pietà anche di lui, del suo edonismo sfrenato, su cui aveva cercato di costruire la propria felicità, e che era stato, invece, al contrario, la sua condanna.

sabato 19 dicembre 2015

Uno sguardo al creato... la rosa e l'orchidea... per lodare il Creatore

di Plinio Corrêa de Oliveira

Per il mio gusto personale, attribuisco la supremazia a due fiori. Il primo è evidentemente la rosa. Una rosa perfetta e completa manifesta una gloria, una bellezza, una meraviglia, un ordine senza pari.
Dopo le rose – è un'opinione ancora più personale – prescelgo le orchidee. È un tipo di fiore che prospera meravigliosamente in Brasile, ma, da quello che ho sentito dire, fiorisce più bello ancora in Colombia. Corrisponde a un genere di bellezza profondamente differente dalla rosa.
La rosa porta con sé lo splendore dell’ordine. I suoi petali posti in ordine obbediscono ad un raziocinio. In essa non c’è nulla di previsto, non è pianificata, ma si direbbe che un poeta l’abbia pianificata. Dio Nostro Signore l’ha pianificata, l’ha destinata. In essa tutto è ordinato, stabilito, sistemato. Esala il profumo che è conforme alla sua forma di bellezza – cioè dell'ordine previsto, razionale ed esplicito. Essa è’ una superba esplicitazione del concetto di bellezza.
Non si può dire la stessa cosa dell’orchidea. L’orchidea è rara e singolare; è un fiore che ci riserva delle sorprese: i suoi petali si muovono quasi come in un balletto vegetale, assumendo direzioni inimmaginabili, che si compongono attorno alla parte centrale e variano da fiore a fiore. La parte centrale dell’orchidea è sempre di una bellezza magnifica e sorprendente.
Ad esempio, bianca nel bordo e poi di un rosso e di un viola profondo che giunge sino a una misteriosa parte interna, in cui si ha l’impressione che vi sia un rossissimo sublime che non si mostra, dovuto a una specie di pudore. È proprio delle cose davvero molto superiori il non esibirsi, mentre le cose ciarlone si esibiscono.
Vi sono forme di orchidee incomparabili, ma tutte con la bellezza del fantasioso, dell’inaspettato, di un'alta distinzione, che sembra dire a chi le vede: “Confessa che non mi avresti immaginato e che sono molto superiore a tutto ciò che pensavi”. C’è qualcosa di “non toccarmi” nell’orchidea, che la fa appartenere a un’altra categoria di bellezza.
Non è il fascino del disordine, ma di quelle forme superiori di ordine, che la ragione non costruisce e che solo la fantasia sa comporre. Tutto questo va molto d'accordo con lo spirito delle nazioni latino-americane e, a mio avviso, soprattutto nella forma mentis di due nazioni psicologicamente molto simili: il Brasile e la Colombia.
A volte, quando ascolto i racconti delle “colombiadas”, mi vengono in mente le “brasileiriadas”: il capriccio, l’imprevisto, l’entusiasmo; ma, a volte, anche il risentimento, la vendetta e, secondo l’occasione, la violenza; il tutto, però, seguito subito da un'affettuosa riconciliazione. Tutto questo via vai temperamentale, lo vedo in comune tra il brasiliano e il colombiano. Ed ecco l’orchidea che sta a contrassegnare così le peculiarità di spirito dei popoli che la Provvidenza suscitò.

venerdì 18 dicembre 2015

Manifestazioni Culturali a Ciminna



Giovanni Durando (1915-2000): un magistrato impeccabile

di Cristina Siccardi

Una personalità controcorrente, dal temperamento autorevole e determinato, inflessibile sui principi, subalpino nel suo porgersi e nella sua concretezza di intendimenti e di realizzazioni, uomo molto intelligente ed eclettico, che incarnò il concetto cristiano di famiglia patriarcale. Fu magistrato scomodo, insegnante e padre amato, giornalista politico (dal 1934 al 2000).
Molteplici le sue battaglie civili e di fede, diversi i risultati ottenuti, facendosi anche molti nemici: il suo sigillo era il motto latino «etiamsi omnes, ego non» («anche se tutti, io no», Mt 26, 33). Parliamo di Giovanni Durando (1915-2000). Nato a Torino cento anni fa, l’8 gennaio 1915, Giovanni Lodovico Durando, entra nel 1931 in Azione Cattolica e ne diventa dirigente. Cinque le lauree ottenute. Nel 1938 si laurea in Giurisprudenza all’Università di Torino con una tesi in Scienza delle Finanze discussa con Luigi Einaudi.
L’anno successivo discute ancora con Einaudi una tesi in Scienze Politiche (Storia delle dottrine economiche) e diventa assistente del futuro Presidente della Repubblica. Richiamato alle armi con lo scoppio della seconda Guerra mondiale, partecipa alle operazioni sul Fronte occidentale e quindi in Albania. Pur trovandosi in guerra, vince il concorso in Magistratura. Rientrato in Italia si laurea in Diritto canonico al Pontificio Ateneo Lateranense ed in Economia e Commercio all’Università di Trieste ed infine, nel 1944, prende la laurea in Filosofia all’Università torinese.
L’8 settembre 1943, giudice al Tribunale di Asti, aderì alla Resistenza collaborando con la Divisione monarchica «Asti». Fu membro del C.L.N. della Magistratura piemontese. Alla Liberazione fu nominato Pubblico Ministero presso la Corte d’Assise straordinaria di Torino dove cercò di evitare vendette e condanne politiche, e deplorando gli assassinii della guerra civile da parte di formazioni partigiane comuniste. Dopo il Referendum istituzionale del 2 giugno del 1946 non solo denunciò i brogli elettorali commessi dal PCI, spalleggiati dalla DC, ma sostenne l’irregolarità dello stesso avendo assunto il Governo i poteri del Re prima dei risultati definitivi. Nel 1948 conseguì la Libera docenza in Economia politica, docenza che esercitò presso la Facoltà di Giurisprudenza di Torino fino al 1969.
Fu monarchico come Giovannino Guareschi, il quale lo invitò nel 1954 a collaborare al settimanale anticomunista di satira politica «Candido», dove Durando tenne la rubrica «Dei Delitti e delle Pene». In occasione del celebre, penoso e doloroso processo a Guareschi stesso per la pubblicazione di alcune lettere attribuite a De Gasperi (su denuncia dello stesso Capo del Governo, il quale, in quei documenti del 1944 avrebbe chiesto agli Alleati anglo-americani di bombardare la periferia di Roma allo scopo di demoralizzare i collaborazionisti dei tedeschi), sostenne l’autenticità delle stesse, prendendo le difese del grande scrittore ed umorista anticomunista e cattolico.
E proprio sulle colonne di Candido del 1954 (n. 24) Giovanni Durando espresse un parere sull’ingiusta sentenza di condanna per diffamazione perpetrata ai danni del Direttore: «E quando mi sento spinto a dare un giudizio del giudizio, scopro questa strana cosa: che la sentenza, anziché colpirmi, come uomo e come cittadino, non mi fa male, non mi colpisce, non mi pesa, perché essa è forma senza materia, è priva di quella luce che può e deve accompagnare, nel modo più completo possibile, anche le decisioni umane, che si ricollegano a principi universali ed immutabili. Con questa sensazione ho finalmente capito Guareschi, in quel suo gesto di lasciar le cose così, senza protestare, senza appellare. Questa sentenza non può avergli fatto male, non può averlo colpito, perché non confortata dalla ricerca completa della verità. Ed ecco la coscienza, che s’innalza al di sopra della sentenza e al di sopra dei giudici terreni, per indicare all’uomo che le è soggetto la strada della libertà morale: della libertà dalle brutture d’una società in decadenza, dimentica delle leggi di Dio e della natura e assiepata di uomini assetati di potere, di beni, di invidia.Questo è il significato della sentenza che porta un uomo libero e semplice a San Vittore (San Francesco di Parma, ndr) per cercare nel silenzio d’una cella la vicinanza di Dio, ossia la perfetta giustizia e l’autentica socialità».
Durando fondò il settimanale La Voce della Giustizia, al quale collaborarono studiosi come Gioacchino Volpe, Niccolò Rodolico, Piero Operti; ma nel 1962, per effetto delle sue battaglie giornalistiche sgradite al Governo, fu costretto dal Consiglio Superiore della Magistratura a chiuderlo. La sua adesione all’istituzione monarchica e le sue prese di posizione “fuori dal coro”, contro il conformismo ideologico, espresse anche su diverse testate (Gazzetta del Popolo, Il Conciliatore, Il Borghese…), gli procurarono ostracismi ed invidie, che ebbero come conseguenza denunce e processi disciplinari, dai quali, però, uscì sempre assolto.
Fra i processi ricordiamo: quello per aver accusato gli attentatori di via Rasella di essere stati responsabili della rappresaglia tedesca delle fosse Ardeatine (Cfr. G. Saragat, Contro le provocazioni del processo Kappler i partigiani insorgono con sdegnate proteste in Mondo nuovo, 26 giugno 1948) e per essersi espresso in modo polemico contro le Forze Armate della Liberazione. Altra avventura giudiziaria venne innescata dal rabbino Elio Toaff, il quale lo denunciò per aver sostenuto sul bollettino dell’Unione Monarchica Italiana di Genova, Fedeltà Monarchica, l’accusa di deicidio contro gli ebrei, posizione tenuta dalla Chiesa cattolica fino al XX secolo.
Il magistrato professore e giornalista si schierò contro le derive della Democrazia Cristiana, opponendosi alle campagne legislative prima divorziste e poi abortiste. Assertore della famiglia naturale e cattolica, felicemente sposato con Flavia Bearzatto, dalla quale ebbe otto figli (Eugenio, Maria, Chiara, Vittorio, Germana, Pietro, Antonio, Umberto), sostenne con risolutezza l’enciclica Humanae vitae e, dunque, il valore della castità fra i coniugi perché «l’atto coniugale dev’essere sempre “aperto” alla vita […] A Torino, dove l’Arcivescovo Card. Pellegrino è notoriamente “progressista” (si fa chiamare Padre, anziché Eminenza, come comporta invece il suo titolo), la stampa diocesana può muoversi in direzione critica, anche su questo documento, per la protezione in tal senso da parte del Capo, che è addirittura orientato contro il celibato dei sacerdoti!» (autobiografia in sette volumi, stampata fuori commercio fra il 1993 e il 1994, dal titolo …Io no! Autobiografia di un italiano conservatore, con le vicende della politica dal 1945 al 1994 viste da destra e commentate da giornalisti dell’epoca, vol. VI, pp. 5414-5415).
Dopo la conclusione positiva dei vari processi, venne trasferito dal Tribunale di Asti a quello di Torino. Nel 1974 fu promosso consigliere di Cassazione e quindi Presidente di Sezione. Continuò a presiedere a Torino una Sezione della Commissione Tributaria, infine, andato in pensione, iniziò ad esercitare in qualità di avvocato della Sacra Rota, scontrandosi spesso, per il suo atteggiamento in difesa della tradizione, con varie autorità ecclesiastiche.
Fra le sue molteplici lotte in difesa dei principi, dei valori cristiani e dei riti cattolici (fu Presidente della sezione torinese Una voce per il mantenimento del latino nella liturgia), lumeggia quella della Santa Messa in rito tridentino, un problema che «mi sta molto a cuore e per cui mi batterò non per me stesso, ma per la sua fondamentale importanza nella vita della Chiesa. Invero si deve pregare nel medesimo modo con cui si crede. La Fede e la liturgia sono strettamente collegate, perché la liturgia deve esprimere il culto a Dio nel rispetto e in conformità alla dottrina; e la dottrina deve permeare di sé le forme con cui si rivolgeva Dio nel rendergli il culto dovuto. Questo è il significato del detto: “Lex orandi, Lex credendi; Lex credenti, Lex orandi» (Ivi, vol. VI, p. 5533).
Proprio per essere rimasto legato alla Messa di sempre, Giovanni Durando, vide con occhio benevolo e riconoscente l’opera di Monsignor Marcel Lefebvre. Molto interessante ciò che scrisse all’epoca risalente il 1977, identificando una voce sincera, priva di viltà e di interessi personali, distante dalla conformità alle linee moderniste, mondane e relativiste: «Tornando alla crisi postconciliare della Chiosa, le denunce relative fatte da Mons. Lefebvre non sono isolate. Mons. Arrigo Pintonello, già Arcivescovo castrense, cioè Ordinario Militare per l’Italia, quindi responsabile dell’assistenza spirituale alle Forze Armate […] denuncia pubblicamente in aprile sulla rivista “Seminari e Teologia”, la fiumana inarrestabile, l’infinita serie di errori e di deviazioni” con cui il progressismo ecclesiastico va infettando le strutture della Chiesa. La presa di posizione di Mons. Pintonello viene recepita da altri periodici, come la Rivista tradizionalista di Grottaferrata diretta da don Francesco Putti, SI SI, NO NO e il mensile CRISTIANITA’ dell’Associazione “Alleanza Cattolica”. […] Mons. Pintonello al riguardo identifica “tre nemici dell’abnorme situazione generale religiosa: una concezione falsa e mistificata della libertà, del dialogo e dell’ecumenismo”. Ed attacca giustamente questi errori “con speciale riferimento all’odierna formazione seminaristica”. È noto infatti in quale stato sono ridotti i seminari cattolici (laddove non sono ancora stati aboliti!) pressoché in tutto il mondo. Con l’eccezione forse unica dell’affollato Seminario tradizionale di ECONE diretto da Mons. Lefebvre, i Seminari cattolici sono spopolati e talora deserti, talora strasformati in scuole di eresia, quando non anche in luoghi di addestramento alla sovversione; senza dire dei casi in cui sono stati affittati a terzi o addirittura venduti (è il caso del Seminario teologico di Rivoli alle porte di Torino, che tanto era costato in ogni senso al compianto Card. Fossati, che lo fece costruire nell’anteguerra). Come sarà dunque la Chiesa di domani, oggi già disastrata, quando sarà diretta da un clero uscito dagli odierni Seminari, non solo scarsi, ma tanto infettati?».
L’autore, a questo punto, afferma che, secondo Monsignor Pintonello, la morale cattolica si è trasformata in molti casi in quella che il teologo Padre Cornelio Fabro, in quel tempo collaboratore de «L’Osservatore Romano», chiamava «pornoteologia», ossia «l’esaltazione cioè del libero amore, del libero aborto, della libera droga, della libera omosessualità, senza che mai l’Autorità ecclesiastica intervenga e condanni» e la traduzione pastorale di questa deviata concezione della libertà non è il giudizio secondo il diritto naturale e il diritto divino (coincidenti), ma il dialogo soggettivo umano, il quale diventa «pretestuoso espediente di ogni forma di contestazione, perdita della propria identità e specificità cristiano-cattolica, paurosa e progressiva dimissione confessionale, relativizzazione della verità e del suo possesso» (Ivi, vol. VII, p. 5941).
La moderna pastorale si è, pertanto, rivolta altrove, in uno stato di remissiva sudditanza, al fine di ottenere indicazioni di presunta verità nascosta nelle pieghe del mondo, in altre religioni, nella libertà confusa delle coscienze soggettive: il dialogo con chiunque, non inteso come presentazione all’altro delle proprie idee, ma come assorbimento costante e acritico delle idee altrui, ha fatto abbandonare, passo dopo passo, la fede e le sue ragioni.
Giovanni Durando, che non perse mai tempo nella sua vita, ha lasciato migliaia di pagine autobiografiche, intersecate da migliaia di pagine di articoli di giornale, una vera miniera per fare memoria storica attraverso documenti risalenti agli anni della secolarizzazione della nostra cristianità, siano essi di stampa laica o di stampa cattolica; ma anche attraverso i ricordi di chi ha compiuto e ha sostenuto delle battaglie non per essere egli vincitore, ma per porsi al servizio di Cristo Re, già Vincitore sulla Croce.

giovedì 17 dicembre 2015

L’angolo di Gilbert K. Chesterton – Grandezza e attualità di uno scrittore cattolico –

di Fabio Trevisan

Chesterton è stato spesso accusato di essere uno scrittore “divertente”. A questi detrattori infelici egli aveva risposto nel saggio“Eretici” del 1905: “Il contrario di “divertente” non è serio, ma “non divertente”! Egli cercava di mostrare come alla presunta “serietà” potesse accompagnarsi la gioia dell’essere cristiani: ilarità e serietà non si contrapponevano ma, un po’ paradossalmente, cooperavano al fine di annientare la superbia umana. L’uomo, in quanto peccatore, non poteva prendersi eccessivamente sul serio; non poteva, come nell’epoca moderna, credere troppo in se stesso.
Nel settimo capitolo di Eretici, “Omar e il sacro vino”, egli prendeva le distanze dalla filosofia del matematico e poeta persiano del XII secolo, Omar Khayam, che nelle Rubayat (le quartine poetiche) aveva apparentemente esaltato la potenza del vino: “Le libagioni di vino di Omar sono riprovevoli, non in quanto libagioni di vino ma in quanto libagioni terapeutiche”. Chesterton aggiungeva: “Sono le libagioni di un uomo che beve perché non è felice”. Qual era il rimprovero del grande scrittore londinese ? Perché era ritenuto così importante da dedicarci un intero capitolo, tralasciando ora il riferimento palese al romanzo L’osteria volante ?
Anche ai giorni nostri si sente sovente dire: “Si beve per dimenticare”. Ecco, per Chesterton era l’esatto contrario: il cristiano beveva per ricordare e per affermare la dignità dell’uomo. Ciò che Omar non poteva concepire era la sacralità del vino. Il mondo musulmano, che annienta l’uomo, distrugge anche il vino: “Il vino di Omar esclude l’universo, non lo rivela…Il più alto cristianesimo dissente con questo scetticismo, non certo perché nega l’esistenza di Dio, ma perché nega l’esistenza dell’uomo”. Il vino, sin dalla Sacra Scrittura, era stato considerato un alleato dell’uomo, però dell’uomo che aveva un cuore e che non disprezzava la regalità divina e l’umanità. C’era un’eterna gaiezza nella natura delle cose (create da Dio) che non doveva essere disprezzata: “Un uomo non può rallegrarsi di nulla, se non della natura delle cose; un uomo non può godere di nulla, se non della religione”.
Agli improvvidi fautori del tavolo del dialogo con chicchessia andrebbe ricordato che se fosse servito a quel tavolo il sacro vino (In vino veritas dicevano i Romani), tutte le questioni sollevate da Chesterton si sarebbero potuto rivelare ancora tutt’altro che superficiali. Chesterton rammentava a Omar ed agli scettici del carpe diem l’altezza del cattolicesimo: “Sull’eccelso altare del cristianesimo si leva un’altra figura, nella cui mano è un’altra coppa di vino: “Bevete”dice “perché l’intero mondo è rosso come questo vino, per il vermiglio dell’amore e della collera divina. Bevete, perché le trombe chiamano alla battaglia e questo è il bicchiere della staffa”.
La filosofia del vino di Omar era l’esatto opposto di quella cristiana, come affermava Chesterton: “Omar si dà al piacere perché la vita non è gioiosa; gozzoviglia perché non è lieto…beve perché non c’è nulla degno di fiducia, nulla degno di lotta”. Il calice di vino alzato da Omar contraddiceva palesemente il calice di vino alzato dal sacerdote cattolico.
Non era più lo stesso vino: stordente e inebriante come una trottola nella religione di Omar, divenuto invece sangue sacro di Cristo versato per tutti noi sulla Croce della redenzione: “Bevete, per questo mio sangue del nuovo testamento che è sparso per voi. Bevete, perché io so donde venite e perché. Bevete, perché io so quando ve ne andrete e dove”.

mercoledì 16 dicembre 2015

La furia iconoclasta dei terroristi dell'isis simile a quella Giacobina della Rivoluzione Francese

di Domenico Bonvegna

Un altro articolo che ho trovato interessante sui fatti di Parigi, oltre a quello del professore Introvigne, è quello di Tommaso Scandroglio, “Quella barbarie che li unisce alla nostra laicitè”, pubblicato sempre da LaNuovaBQ.it del 27 novembre scorso. Per la verità le stesse riflessioni del giornalista, le avevo fatte quasi subito anch'io. Scandroglio mette in discussione la diffusa opinione, che viene ripetuta come un mantra, secondo cui i terroristi islamisti abbiano colpito al cuore i valori della nazione francese: libertà, uguaglianza e fratellanza. Fermo restando che nessuno vuole“minimamente mancare di rispetto per le vittime“. E' paradossale che si faccia riferimento a “quella triade valoriale in un concerto di una band che si chiama Eagles of death metal e che – misterioso ed inquietante presagio - stava cantando al momento dell’attacco Kiss the devil (Bacia il diavolo)”. Piuttosto secondo Scandroglio, l'evento musicale,“suggerisce invece l’esistenza di una deriva giovanile verso l’abisso mortifero del nichilismo e della dissoluzione valoriale, ecco a parte questo ci viene da ricordare che il motto “Liberté, Égalité, Fraternité” fu coniato in piena Rivoluzione francese, momento storico che non brilla certamente per irenismo”. 
A questo punto Scandroglio offre una brillante riflessione storica, una comparazione, per niente azzardata, tra “gli integralisti islamici vestiti di nero e i giacobini, che non hanno nulla da invidiare agli uomini dell'Isis, in quanto a strategia del terrore e abilità nel provocare eccidi”. Per il collaboratore de LaNuovaBQ.It, “La matrice è la medesima e i padri fondatori dell’odierna Francia avevano lo stesso Dna dei terroristi che hanno sparso sangue l’altro giorno a Parigi. In entrambi casi infatti l’impianto ideologico – con i dovuti e intuibili distinguo – è pressoché lo stesso”. Attenzione, però “non vogliamo qui sostenere che lo Stato francese è la fotocopia dello Stato dell’Isis e che i principi a cui si ispira la société civile transalpina siano i medesimi dei seguaci del califfo Abu Bakr al-Baghdadi, ma che la genesi di quella che diverrà per antonomasia la Republique trova alcuni addentellati con la struttura di pensiero e di azione del terrorismo islamista”.
Sia per i giacobini che per i terroristi dell'Isis, il nemico non ha nessuna dignità, è una cosa, un nulla. I rivoluzionari francesi non perdevano tempo a dialogare con nobili, borghesi, preti e contadini; chi non si piegava al credo illuminista, veniva sbrigativamente soppresso. La stessa cosa avviene con l'Isis. “I tagliatori di testa - scrive Scandroglio - li troviamo sia nelle fila dei rivoluzionari francesi sia dei terroristi islamici, pratica efferata e caratterizzata da una fortissima carica emozionale volta anche ad atterrire lo spettatore”.
Scandroglio si sofferma sul concetto di violenza e terrore, che assumono un'assolutezza in entrambi i fondamentalismi, sia quello di matrice laicista che quello islamista. Una violenza senza gradualità, che viene espressa al massimo dell'intensità.
“Il nemico va solo annientato. Al tempo di Robespierre questo significava una ecatombe che in una manciata di anni arrivò al numero di due milioni e mezzo di morti e forse più. L’assolutezza poi riguarda le categorie di persone da includere nell’insieme “nemico”: praticamente tutti coloro che non si riconoscono nel pensiero di chi sparge terrore. Tra i giacobini non si andava tanto per il sottile nel cercare di distinguere l’innocente o il colpevole. Se ad esempio eri uomo di chiesa eri già un candidato perfetto per la ghigliottina. Così la sparatoria nel teatro Bataclan o le esplosioni fuori dallo stadio hanno ucciso non bersagli prestabiliti, ma semplicemente persone di cultura occidentale. Il nemico è chiunque”. Scandroglio, forse per non dilungarsi troppo, non ha inteso fare un altro paragone di “cuginanza”, i terroristi dell'Isis, dellultra-fondamentalismo islamico, assomigliano molto ai seguaci dell'ideologia marxista, in particolare a quelli che sono stati protagonisti in terra di Spagna prima e durante la cosiddetta Guerra civile (1936-39). Sto leggendo l'interessante volume di Mario Arturo Iannaccone, “Persecuzione”, edito da Lindau, qui Iannaccone, racconta “La repressione della Chiesa in Spagna, tra la seconda repubblica e Guerra Civile (1931- 1939). Anche per i miliziani anarco-comunisti, chi non era con loro era un nemico da abbattere, non solo i nazionalisti franchisti, ma in particolare, i religiosi, i preti, i laici, chi poteva avere qualche riferimento alla Chiesa cattolica. Anche i comunisti spagnoli, come del resto i giacobini francesi, furono accecati da una furia iconoclasta che li portò a colpire, distruggendo e incendiando chiese, monasteri, simboli religiosi, decapitando perfino le statue della Madonna, di Nostro Signore. Un immenso patrimonio architettonico, artistico, culturale venne annientato in pochi mesi in tutte le città più o meno importanti della Spagna. 
Scandroglio inoltre vede un rapporto di cuginanza tra “gli accoliti di Marat e Danton con quelli di Abu Nabil al-Anbari e di al-Baghdadi è quella della definitività”. Sia la Rivoluzione Francese che lo Stato Islamico, ma anche la società comunista, rappresentano l'imperativo morale, l'ultimo passo verso il Bene, l'eccellenza, la felicità ultima. Una ennesima edizione del “boia chi molla”. 
Infine, altra caratteristica comune è quell’idea di morte. “L’esito di certe ideologie nate nel secolo dei lumi e maturate nel corso della rivoluzione comunista ha portato all’instaurarsi – per usare un’espressione più volte adottata da Giovanni Paolo II – di una cultura di morte. Tuttavia anche lo stesso “pensiero liberal, figlio della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino fabriqué en France, ha ucciso la famiglia con il divorzio, la convivenza, la contraccezione e il gender, la vita nascente con l’aborto, la fecondazione artificiale e la sperimentazione sugli embrioni, la vita terminale con l’eutanasia, la signoria dell’uomo sul creato con l’ambientalismo e l’animalismo, e la presenza di Dio nella società con il laicismo”.
Comunque Scandroglio conclude il suo intervento con una ulteriore provocazione, che può sembrare assurda, i terroristi islamici che seminano morte non sono tanto dissimili dai nostri contesti culturali, la nostra cultura occidentale, specialmente quella francese, per certi versi è già di suo mortifera, strutturalmente votata alla dissoluzione. “E dunque affermare che il terrorismo islamico attenta ai valori repubblicani appare paradossale se pensiamo ai padri fondatori della Republique, fatti della stessa pasta di quegli uomini in nero che il 13 novembre hanno siglato il massacro nella capitale francese”.

lunedì 14 dicembre 2015

Il nostro Natale Cristiano

di Luca Volontè

Con l'avvicinarsi del Natale, in questo periodo di “misure speciali” prese da diversi Stati europei per combattere il terrorismo, si moltiplicano atteggiamenti e decisioni contrarie al significato stesso delle celebrazioni natalizie.
Cosa si ricorda con il Natale? “Gesù bambino, l'infinità di Dio che si è ristretto e ridotto in un bambino ed è venuto in una caverna, un buco sottoterra per rivoltare il mondo”: in queste brevi parole di G. K. Chesterton scopriamo il senso del Natale Cristiano.
Che Europa è quella che teme a tal punto sé stessa da voler cancellare, con “editti” nazionali o di singole scuole e municipi, le celebrazioni natalizie?
Un'Europa che abolisce il Presepe. Abolisce cioè l'immagine della memoria di quell'evento, lo vuole abolire non solo dalla vita pubblica, ma ricacciare nella caverna, lontano da tutto e tutti.
Esattamente come duemila anni or sono, come allora, quando per paura di Erode e per disprezzo degli uomini, Gesù veniva ricacciato in un buco oscuro.
Queste decisioni, non sono solo ridicole alla luce dei fatti di terrorismo che abbiamo vissuto in questi anni, ma mostrano il vero volto del laicismo assolutista che tutto opprime. 
Opprime le differenze con le mode “gender fluid”, opprime l'abbigliamento con i vestiti “unisex”. Opprime il rispetto delle diverse tradizione religiose, i ruoli famigliari sin anche i rapporti umani con uno smisurato uso dei social media.
Non c'è comunità islamica europea che abbia ufficialmente protestato, nemmeno chiesto l'abolizione delle festività cristiane, incluso il tradizionale presepe.
Solo il terrore proprio del fallimento della società multiculturale e dei suoi maestri porta alla abolizione di segni cristiani e alla paura della memoria.
Tutto ciò accade in Europa e con diversi gradi di cattiveria. Non è una vittoria dei terroristi, è una sconfitta del laicismo esasperato, forse la sua ultima sconfitta.
Si ricorda da più parti che l'Europa si trova a vivere un periodo simile alla fine dell'Impero Romano. Ma la verità è che la caduta romana (e così quella europea) non avvenne per causa delle migrazioni, avvenne bensì in ragione della morte della sua anima e delle sue tradizioni. Lo spirito mancò e tutto il corpo dell'impero imputridì.
Le cause della distruzione della civiltà europea non sono di oggi, vengono da lontano e da lontano si è preferito subire che lottare, essere dominati piuttosto che combattere per la propria libertà.
Eppure, proprio in queste settimane di sconci tentativi di abolire ogni evidente immagine cristiana dalla vita pubblica, un sussulto straordinario risorge dalla vita e dalla memoria di semplici uomini, donne e bambini di tutta Europa.
E così, la superba volontà di ricacciare Gesù bambino nella caverna, in quello stesso buco di 2000 anni fa, è l'occasione inattesa di ritornare all'origine del tutto, della nostra storia e della straordinaria provvidenza della Bontà Divina.
Sursum Corda!

Manifestazioni Culturali a Ciminna



"Filastrocche" di Vittorio Riera

Filastrocca della mia guerra

Presto, bimbi, tutti a terra,
vi presento la mia guerra:

il soldato è cioccolata
il fucile marmellata
il cannone è pastafrolla
cola il fuoco come colla
navi e aerei sono di panna
e il generale pur s'affanna
la bomba poi è solo piena 
di ciliege tutte alla crema.

Questa, bimbi, è la mia guerra,
presto, adesso, su da terra.


Filastrocca per contare

A cavallo d'una pulce
mamma tutto il giorno cuce.
– Pulce, che fai?
– Vado in cerca di tanti guai.

A cavallo di due zebre
viene al dito un po’ di febbre.
– Zebre, che fate?
– Andiamo in cerca delle fate.

A cavallo di tre mici
siamo sempre tutti amici.
– Mici, che fate?
– Vi graffiamo se ve ne andate.

A cavallo di quattro picchi
tutti rossi e verdi a spicchi.
– Picchi, che fate?
– Piangiam, piangiam se noi picchiate.

A cavallo di cinque tordi
siamo tutti un poco sordi.
– Tordi, che fate?
– Scappiam, scappiam ché ci sparate.

A cavallo di sei cammelli
tutti lenti, tutti belli.
– Camme, che fate?
– Ce la diamo a gobbe levate.

A cavallo di sette rane
e per cibo un po’ di pane.
– Rane, che fate?
– Puliam lo stagno che ci sporcate.

A cavallo di otto mucche
con le code a mo’ di zucche.
– Mucche, che fate?
– Sogniamo il prato che non ci date.

A cavallo di nove triglie
con le pinne come briglie:
– Triglie, che fate?
– Togliamo gli ami che c'infilzate.

A cavallo di dieci niente,
siamo tutti brava gente.
– Gente, che dite?
– Siamo bravi, udite, udite!



martedì 1 dicembre 2015

Pubblichiamo una poesia di Vittorio Riera

SE

Se potessimo raddrizzare
un filo d’erba spezzato
e dargli di nuovo
tutta la sua linfa
per goderne ancora la frescura

se prendere potessimo
tutti i boschi del mondo
e di tutti
uno solo pensarne
dove all’ombra intrecciare le mani

se potessimo cogliere
tutti i fiori del mondo
e di tutti farne
un solo fascio
e caldi ancorasentirne i palpiti

se rinchiudere potessimo
tutti i profumi del mondo
dentro un diamante
e di ognuno
strapparne il segreto mistero

se potessimo afferrare
tutta l’aria del mondo
e tutta spanderla
in un solo cielo
dove tutti involarci contenti

se stringere potessimo
tutta l’acqua del mondo
in un solo pugno
e farne un unico fiume
dove tutti bere come fratelli

se potessimo mischiare
tutti gli arcobaleni del mondo
e di tutti
uno solo dipingerne
dove stanchi salire ma lieti

se contenere potessimo
tutta la rena del mondo
in una sola clessidra
dove il tempo
penetrare nel suo lento moto

se potessimo riunire
tutti i colori del mondo
e tutti stenderli
su una sola tela
dove viverne le vellutate voci

se accendere potessimo
tutti i sorrisi del mondo
in un solo viso
di bimbo
e succhiarne dipoi l’innocenza

se potessimo spingere
tutte le musiche del mondo
dentro un cuore
piccolo e solo
dove lontane stanno le angosce

se soltanto potessimo
di tutti gli amori del mondo
uno solo cullarne
e tutti
cantare lo stesso canto d’amore

se riuscissi a dare
anche solo per un istante
all’uomo
meno uomo del mondo
tutti i profumi e i colori
tutti i sorrisi e i cuori
tutti i fiori e i boschi
tutti i fiumi e i mari
tutti i venti e le sabbie
tutti i suoni e i canti
tutte le voci e i palpiti
tutte le luci e le forme

che sono al mondo

allora…allora chiederei soltanto
di non ridere di me
ove offrissi
la mia vita in cambio.