sabato 31 ottobre 2015

Quando anche con la gastronomia si può fare cultura

di Vittorio Riera

Raramente mi è capitato di andare a inaugurazioni di tipo sia culturale sia commerciale, alle une perché, confesso questo mio limite, mi sentirei un pesce fuor d’acqua dal momento che in genere partecipano persone di quel bel mondo cui chi scrive non appartiene, alle altre, perché tutto in genere si risolve  in uno scambio di saluti e di auguri con i proprietari del punto vendita, con un brindisi o con la consumazione di qualche dolcino.
Domenica sera però, nel quartiere Uditore, ho assistito a qualcosa di inusitato, direi quasi di incredibile. Ero stato invitato ad assistere alla inaugurazione di uno dei tanti punti gastronomici che da tempo pullulano nella nostra città e che si aprono a rotazione direi quasi continua. Sono andato malvolentieri convinto che anche stavolta tutto si sarebbe risolto nella solita ‘manciata’ di qualche fetta di pizza o di ‘sfincione’ magari sapientemente condita per l’occasione all’interno del punto vendita messo su alla buona. E invece no. Son dovuto ricredermi. Intanto la folla: un centinaio di persone di tutte le età sostava in maniera composta sul marciapiedi o occupava una buona metà della carreggiata, folla che si apriva per lasciare passare persone che portavano piante o semplicemente un mazzo di fiori; e poi il negozio che sapeva di esaltazione dell’igiene e nel contempo di una raffinata eleganza e di una adeguata illuminazione. 
Tra il centro gastronomico e il marciapiede un ampio spazio con dei tavoli dove, si supponeva, sarebbero stati messi i ‘pezzi’ di rosticceria o le ‘ali’ di pollo o che so altro da consumare. Non era vero niente, perché, ad un tratto, la folla è stata come tagliata da quattro o cinque – non ricordiamo bene –  belle alte e slanciate figure tutte vestite di bianco e con sulla testa un alto cilindro pieghettato pur esso bianco. Si è udito da più parte sussurrare: Ecco, sono arrivati i camerieri.  Altro che camerieri. Maestri pasticceri erano, veri e proprio giganti – anche nella persona – della pasticceria e della ghiottoneria palermitana per non dire sicula o addirittura internazionale. 
Ed è stato un piacere vederli subito all’opera questi giganti del gusto nel confezionare en plein air, per così dire, una torta del diametro di circa mezzo metro. Sembrava di assistere a una sinfonia muta, perfetta, tanto e tale era il sincronismo col quale operavano. Sembrava che si fossero allenati prima, che si fossero assegnati ruoli: chi si occupava di preparare gli strati di torta, chi di spalmarvi la crema, chi di far cadere in essa coriandoli di cioccolato, chi di lisciare il bordo della torta, chi infine … ma qui interrompiamoci per un attimo perché siamo giuntial tocco finale della decorazione. Ecco farsi avanti alcuni chef, armatio soltanto delle mani guantate, o di sacco decoratore. È il momento di dare sfogo alla creatività, all’inventiva supportata da una cultura facilmente individuabile. Ci sembra, infatti di potere individuare sulla parte superiore della torta certo barocchismo per via dell’abbondanza della frutta candita sapientemente disposta a formare gradevoli e armoniose volute con le ciliegine torno torno tutte disposte a eguale distanza l’una dalle altre. A questa atmosfera facevano da contrasto i pacati disegni sui bordi che richiamavano lo stile floreale del miglior Liberty palermitano.
Che dire ancora? C’è da sperare che queste manifestazioni d’arte – che non è soltantoarte pasticciera – si possanoripetere ad ogni anniversario del nuovo punto vendita cui non si può non augurare un felice esito dell’investimento, perché approfittare anche dell’occasione della inaugurazione di un centro gastronomico per investire in sapere, in cultura, è sapere investire. E chi sa che da quei bambini e ragazzi che assistevano rapiti alla precisione, alla sincronia con cui gli chef lavoravano non nasca qualche maestro pasticciere destinato a superarli.

venerdì 30 ottobre 2015

Carlotta Guareschi ci ha lasciato. È passata dalla vita alla Vita




di Giovanni Lugaresi


Anche la terza pagina del “Corrierino delle famiglie” si è staccata, e leggera come una piuma ha raggiunto in Paradiso le altre due. Carlotta Guareschi non è più fra noi. Stroncata da un male incurabile che ne aveva attaccato la robusta tempra pochi mesi fa e che improvvisamente ha fatto precipitare la situazione, è mancata nell’ospedale di Fidenza domenica 25 ottobre poco prima delle 11: serenamente è passata dalla vita alla Vita…
Così, la famosa Pasionaria (impertinente, originale, indimenticabile personaggio del “Corrierino delle famiglie”, appunto), è andata a raggiungere Giovannino e Margherita (al secolo Ennia Pallini), gli amatissimi genitori protagonisti a loro volta di quelle cronache domestiche, e lasciando solo il fratello Albertino, pure amatissimo.
Carlotta era nata il 13 novembre 1943, quando il padre era già nei lager nazisti, internato militare (per avere mantenuto fede al giuramento fatto al “suo Re”) dopo l’8 Settembre. Già fra i reticolati di Polonia e di Germania, nelle pagine che scriveva per poi leggere nelle baracche e tenere alto il morale dei commilitoni, appare la “signorina Carlotta”, o “Carlottina”, descritta con accenti gioiosi, delicati, originali. Poi, rientrato dalla prigionia, Guareschi ebbe modo di ispirarsi a lei, ad Alberto e alla moglie per le sue cronache familiari, fra quotidianità e fantasia, fra umorismo e sentimento.
Carlotta, felicemente sposata con tre figli, e poi felicemente nonna più volte, è stata sempre legatissima alla memoria dei genitori e insieme al fratello Alberto aveva promosso iniziative per tenere viva l’opera paterna. La ristampa di libri, il realizzarne di nuovi con pagine mai raccolte in volume quando Giovannino era in vita, la costituzione del Club dei 23 in Roncole Verdi, la partecipazione generosa a incontri, convegni, organizzati in Italia e all’estero, ai quali veniva invitata, hanno scandito la sua vita: in nome e per amore del babbo.
Colpivano in lei, come nel fratello Alberto del resto, la semplicità, la cordialità nei rapporti umani, la serietà nella condotta di vita, l’affetto coltivato e manifestato sia per la famiglia, sia nei confronti degli amici, nonché la fede: una fede profonda, intimamente vissuta, come può testimoniare chi le è stato vicino, per anni, a incominciare dal marito Giovanni Annoni, dai figli Michele (Michelone), Elena, Camilla, e naturalmente da Albertino, a suo tempo “vittima” delle battute, se non degli scherzi di quella sorellina senza peli sulla lingua, spavalda e acuta, che al posto di io metteva me, come si legge nei dialoghi del “Corrierino”, ad ogni inizio di dialogo…
Ma una pagina particolarmente delicata, affettuosa, con tocchi di poesia, è quella che Giovannino scrisse nel lager di Beniaminowo nel 1944, pensando a quella bimba nata nella Bassa, lui lontanissimo, fra i reticolati, che immaginava così…
“Io penso al giorno in cui uscirò da casa mia conducendo un Albertino quasi nuovo per la mano e recando in braccio una nuovissima signorina.
Ci penso spesso, ma è un giorno distante milleduecento chilometri di mondo in guerra e mi par quasi impossibile arrivarci. E allora mi chiedo: ti vedrò signorina Carlotta? E se non potessi? Non importa, signorina Carlotta. Non importa perché – nonostante il mio vecchio professore di fisica abbia tentato di confondermi le idee – io conosco perfettamente la faccenda delle parole. Le parole nascono ma non muoiono. Non muore niente, a questo mondo. Le parole nascono, e poi essendo più leggere dell’aria, salgono in su e arrivano fino al punto in cui il cielo finisce e comincia l’eternità. E lì ristanno. Come se si liberassero in una stanza cento palloncini: arrivati al soffitto si fermerebbero. Così le parole nel cielo. Lassù ci sono tutte le parole del mondo: dal grido minaccioso di Caino, all’ultimo discorso di Farinacci, dalla cantilena dello straccivendolo, al canto dell’innamorato. Verba volant. Le parole volano, non si volatizzano.
Questo è importante, signorina Carlotta: perché, se il buon Dio mi metterà le alucce sulle spalle prima che io ti veda, andrò a sedermi sulla stella che sta proprio sopra la tua casa e, mano a mano che saliranno al cielo le tue paroline corte corte come semibiscrome, io le coglierò al volo e le rinchiuderò tutte dentro un sacchetto di seta.
E, ogni tanto, ne trarrò fuori un pizzico e le scuoterò come un mazzetto di campanellini e mi divertirò a sentirle tintinnare.
Così: do, re, mi, fa, sol, la, sì…”.
Ma ci fu anche una canzone per Carlotta scritta dal padre, e messa in musica dall’amico e compagno di sventura, pure lui internato militare italiano, Arturo Coppola.
Una dolce musica, musica dell’anima, della fede, e poi nelle parole sulla Signorina Carlotta che si leggono nel postumo “Ritorno alla base”; musica gioiosa e di speranza, nel grigiore del lager nazista, anno 1944, nelle note di Coppola.
Le ricordano i vecchi lettori di Guareschi – parole e musica – e noi con loro…
Signorina Carlotta, addio!

giovedì 29 ottobre 2015

Al diavolo (è il caso di dirlo) la festa pagana di Halloween

di Giovanni Lugaresi

E continuiamo pure a farci del male, prendendo dall’estero quel che non è certamente il meglio. Ci riferiamo ovviamente ad Halloween che il 31 ottobre celebra i suoi riti di origine celtica, cioè pagana, ma che noi cattolici e italiani abbiamo ripreso pari pari, da una ventina d’anni, con tanto di commerci (ovviamente), perché tutto fa brodo per smerciare questo o quel prodotto, anche da parte di cattolicissimi commercianti. E con tanto di festosità pure nelle scuole materne cattoliche (in certe scuole materne cattoliche), nelle quali evidentemente non si pensa a parlare diffusamente, e nei termini propri adatti ai bimbi, dei Santi e dei nostri cari defunti, bensì, appunto, a fabbricare con stoffe varie fantocci-fantasmi e a preparare zucche intagliate…
Sciocchezze – diranno i soliti soloni aperti a tutto. E’ da queste “sciocchezze” peraltro che si incomincia. Si incomincia a perdere la propria identità (non è una tradizione italiana) e a bruciare incensi ad uno dei nuovi idoli del mondo.
In questa “materia” anche i protestanti sono contrari alla celebrazione-festeggiamenti. Non sappiamo se con una certa forza, o in maniera blanda.
A livello cattolico, per così dire, voci autorevoli si sono levate, e non da oggi, dichiarando festa diabolica questa che abbiamo importato. Padre Amorth, esorcista di grande notorietà, lo ebbe a sottolineare con motivazioni profonde, ma… in ambienti nei quali si è arrivati a mettere in dubbio l’esistenza dell’inferno, e quindi pure di Satana, Halloween riceve addirittura la benedizione del clero. Che tra dolcetto e scherzetto trova il modo di sorridere di queste nostre preoccupazioni… “cattoliche e italiane”.
Come rispondere? La festa di Ognissanti, che ci coinvolge nella stupenda, profonda, comunione coi trapassati, con le loro anime in un grande mistero cristiano, è stata sentita nel suo intimo da un poeta-fanciullino che, pur avendo preso altre strade, non dimenticò mai gli insegnamenti della madre, la cui eco si sente in diverse liriche, una delle quali si intitola, appunto, “La notte dei morti”. Versi che Giovanni Pascoli scrisse ispirato non certamente da leggende pagane, bensì dalla nostra religione e dal culto cristiano dei defunti.
L’ambientazione è nella vecchia casa chiusa, “ma desta”, dove il fuoco è acceso e sul desco c’è il vino “cui spilla il capoccia da solo”. Mentre gli altri “pregano al lume/ del fuoco: via via la corteccia/ schizza arida… Mormora il fiume/ con rotto fragore di breccia…// E’ forse (io non odo: non sento/ che il fiume passare, portare/ quel murmure al mare) d’un lento/ vegliardo la tremula voce/ che intuona il rosario, e che pare/ che venga da sotto una croce,/ da sotto un gran peso; da lunge/ Quei poveri vecchi bisbigli/ sonora una romba raggiunge/ col trillo dei figli de’ figli.// Oh! I morti! Pregano anch’essi,/ la notte dei morti, per quelli/ che tacciono sotto i cipressi…”, con quel che segue.
Ecco, se dobbiamo parlare della festa dei Santi (1 novembre) e del ricordo dei defunti (2 novembre), noi preferiamo farlo col poeta-fanciullino, e al diavolo (è il caso di dire), la festa pagana di Halloween, con annessi e connessi!

Inaugurazione della mostra di Elio Corrao "Oltre lo specchio"

Sabato 31 ottobre 2015 alle ore 18.00 presso la galleria d’Arte Studio 71 di Via Fuxa n. 9, Palermo sarà presentata la mostra personale di Elio Corrao:
oltre lo specchio 
Le oltre venti opere presenti in mostra denotano una sensibilità non comune di Elio Corrao, pittore schivo, ma non troppo, affabulatore e determinato. E’ certamente uno dei pochi artisti che non ti parla del suo lavoro se non stimolato. Non usa peraltro parlare di sé come spesso accade in questo momento storico dell’arte nel quale poco e male si “costruisce” sia in termini culturali che politici per lasciarlo in eredità alle future generazioni e di ciò non potranno  che rimproverarci. Sicuramente nuovi “mostri” di saccenza li illumineranno su questi anni bui della storia dell’arte.
Di questa mostra scrive Vinny Scorsone nella sua presentazione in catalogo: … “La stanza oltre lo specchio  si dilata e comprime al variare di luci e tagli, toni e linee.
In essa, presenze discrete, sospese in un piano astrale, si lasciano vivere.  Raccontano le loro storie, dense e solitarie o rapite dalla corrente del fiume, in una scomposizione di eventi e forme che riscrive l’ambiente e la sequenza temporale.
Nei quadri, interni ed esterni dialogano perennemente in una consapevolezza di imprescindibilità gli uni dagli altri. Ogni dipinto è la rappresentazione della dualità dell’animo umano. Il vetro, che si pone come confine tra conscio ed inconscio, specchia e sovrappone stralci di vita ricordata a libere intemperanze artistiche. Il giardino interiore diviene giardino d’inverno in una “scapigliatura” pittorica che muove sensazioni ed emozioni. Una nuova vegetazione prende forza generando creature amorfe,  radici che camminano e sollevano il piano vitale in un continuo alternarsi di andamenti tortili e retti secanti i vari piani dell’esistenza.” …
La mostra alla galleria d’arte Studio 71 Via Vincenzo Fuxa n. 9, Palermo rimarrà aperta fino al 21 novembre 2015 nel seguenti orari da lun. a ven. dalle 16.30 alle 19.30. Testi in catalogo di Tommaso Romano e Vinny Scorsone.

mercoledì 28 ottobre 2015

Paolo Maggiani "SpectraFire"

Email-SpectraFire


Allo Spazio Tadini di Via Jommelli, 24 a Milano, dal 28 ottobre al 14 novembre 2015 si terrà la mostra fotografica di Paolo Maggiani dal titolo “SpectraFire”. 
Debutto milanese di eccellenza per il fotografo carrarese Paolo Maggiani, che espone tredici opere accompagnate dai testi poetici del fratello Roberto Maggiani nell’ambito di “Photofestival Milano 2015”, l’importante manifestazione culturale dedicata alla fotografia d’autore giunta alla 10° edizione.
Paolo Maggiani, che nella sua carriera artistica ha sempre dato largo spazio alla luce, elemento primo per la fotografia, con “SpectraFire”, si concentra maggiormente sul suo aspetto primordiale. Dalla luce naturale, che nasce e sparisce con il ritmo del sole quotidiano, sino alla casualità della luce quando, libera di (s)correre, crea giochi, scie, movimenti e si palesa quasi con un corpo fisico. Con tecnica e sensibilità Paolo Maggiani si pone a servizio e ricerca di questo corpo luminoso e ce lo restituisce in “SpectraFire".
“Le foto sono realizzate usando la macchina fotografica con creatività, come fosse un pennello – racconta Maggiani - una volta trovato il giusto ambiente su cui soffermarsi, ho inquadrato le fiamme di fuochi accesi sulla spiaggia con la legna arrivata dalle mareggiate invernali, mettendo in campo il mio più grande fattore: la sensibilità”. “Impostato un adeguato tempo di posa prolungato, - prosegue Maggiani - il gesto creativo di muovere la macchina fotografica nelle varie direzioni e secondo percorsi immaginati, forma un’immagine che presenta una traccia di fuoco, la particolare forma spesso mi sorprende e assume l'importanza di una sorta di visione, di ricerca nel mistero delle cose impercettibili, ma che poi succedono, in qualche modo intuibile ma inspiegabile”.
Le immagini percepite riprendono vita in stampe a pigmenti dai vivi colori su pregiata carta cotone con effetto opaco.
“SpectraFire”: Spettri? Forse. Giochi? Sicuramente. Perché a Paolo Maggiani piacciono la sperimentazione e l’indeterminazione. Là dove c’è casualità, a volte, c’è scoperta e in tutti gli scatti di Paolo Maggiani la luce calda del fuoco è come se svelasse un’anima. 

lunedì 26 ottobre 2015

Nuovo canale Romano Thule Video

Da pochi giorni è attivo il canale Youtube "Romano Thule Video", che raggruppa ad oggi oltre 70 video di interventi di Tommaso Romano, presentazioni di libri Thule, eventi ed approfondimenti. Presto tanti nuovi video, vi invitiamo a visitare il canale ed iscrivervi cliccando sul seguente link:

https://www.youtube.com/channel/UCBznDndCboWJYgVlH5SlK5w/videos

domenica 25 ottobre 2015

E’ la mia vita che muore. E’ la vita che rinasce

di Sandro Giovannini 

La mia vita muore. Scivola velocemente (o lentamente) verso la morte. La vita rinasce (prima o poi) sempre. Cosa c’è di più ovviamente constatabile? (…Manuel Flores va a morir. Eso es moneda corriente; morir es una costumbre que sabe tener la gente). E così si potrebbe dire che il cerchio si chiuda. Ma nella resurrezione costante ed innegabile della vita sulla morte, morte altrettanto costante ed innegabile, l’essere viva della morte agisce indubitabilmente erga omnes, mentre il dato che ci ha sempre inquietato è la mia (la nostra, ovvero di ognuno) individuale ri-esistenza o ritorno o resurrezione. Al di là delle infinite differenziazioni tra le epistemi precristiane e quelle cristiane…
“…Né rigenerazione, né rianimazione, né palingenesi, né rinascita, né reviviscenza, né reincarnazione: ma il sollevamento, il levarsi o il levare in quanto verticalità perpendicolare all’orizzontalità del sepolcro – senza che questo sia abbandonato o ridotto a nulla, ma affermando in esso la tenuta (e dunque la trattenuta) di un intoccabile, di un inaccessibile…” (1)
…resta che è qui che tutto il discorso di Emo, l’infinito rincorrersi ‘della vita dentro la morte’ (come direbbe Noica), trova la sua originalissima affermazione all’interno d’una aporia che ha marcato millenni di riflessione metafisica e teologica. Infatti è dalla discrasia tra la mia vita e la mia morte che corrispondono in maniera perfetta e la miamorte e la vita che rinasce indubitabilmente ma non è (né necessariamente, né probabilmente) la mia vita, (e che quindi non coincide esattamente) ma è solo la vita in generale, in assoluto, sia come eccezione che come regola, sia come rilevazione inevitabile che come meditazione profonda, che si gioca l’infinita insuperabile diatriba tra il riconoscimento di una corrispondenza e la negazione (o comunque la messa in forse) della corrispondenza medesima. Se infatti crediamo sia ben vero che…
“…il togliersi dell’infinito è la sua salvezza? è la sua salvezza se nell’infinito il togliersi assoluto è la assoluta realtà; la realtà come atto… (…) Questo è lo splendore, la divinità del soggetto che può sapere tutto, che si ritrova nell’oggettivo, si riconosce nell’oggettivo, in cui esso si nega. Tutta la nostra conoscenza è opera dell’inconoscibile che è la soggettività della negazione, e che è la negazione della soggettività; soltanto la soggettività può conoscere la soggettività negandola cioè riducendola ad oggetto. La pianura senza fine, gli orizzonti lontani, la nostalgia delle campane, ci danno l’idea di essere conosciuti, conosciuti da tutto ciò che non conosciamo, che è l’infinito. Forse un infinito che riconosce la soggettività, che suscita l’inconoscibilità della nostra soggettività; la più poetica delle condizioni in cui ci è dato di vivere. L’istante è eterno, è eterno perché muore; e la sua morte coincide esattamente con la sua resurrezione – resurrezione e negazione debbono coincidere esattamente, per essere ‘esattamente’, la eternità. – l’eternità è in noi; nell’infinito della sintesi di morte e resurrezione, l’eternità non è se non è vivente, e non è vivente se non muore. Il soggetto è l’assoluto; perciò tutto ciò che è vivente è soggettivo; tutto ciò che è soggettivo è l’assoluto (l’assoluto è l’infinito) – tutto ciò che è assoluto è condannato al sacrificio, al sacrificio assoluto, è condannato a morte. L’assoluto è sacro e perciò condannato a morte” (2)

…questo attiene al rapporto di un infinito che riconosce la soggettività, che suscita (il senso intimo)l’inconoscibilità della nostra soggettività, ma questa soggettività (…in generalibus latet error) temiamo non corrisponda esattamente (necessariamente) alla mia(nostra) soggettività. E’ una soggettività (individuale) che, in Emo, ha tutte le caratteristiche, nella vita, della categoria che tutto e tutti abbraccia, ma, nella morte, in Emo, non si ricollega alla stessa categoria universale, se non nella constatazione della ripetizione automatica… E’ una soggettività che sta al centro dell’universo, certamente, come metro di ogni paragone e di ogni visione, e, stando al centro di quest’universo potrebbe sì oggettivarsi in senso positivo e non negativo (il positivo che riscontra la propria sparizione – indiscutibile – nell’assoluto sarebbe allora l’esatto contrario dell’illusione che ipostatizza la propria permanenza – fittizia – nell’assoluto); anche perché poi…
“l’imaginazione è sempre una tentazione – (divina e diabolica – l’imaginazione è un doppio senso).” (3)
…e questo attiene anche all’eternità dell’istante, che ci fa vivere, sapenti o nolenti, ma per lo più inconsapevolmente, una vita infinita dentro l’attimo che non esiste (‘non è più’e ‘non è ancora’), ma non esistendo, con-vince di sé la vacuità del mondo e la in-onda didestino personale e civile…
Ma, al di là della nostra stessa distanza e/o disinteresse per l’altra nostra specifica futura (immortale/disumana) ventura (…se poi questa distanza veramente la ponessimo, se poi sapessimo autenticamente crearcela e non fosse ‘solo’ un mettere a lato, sia pur nobilissimamente, il problema), sappiamo che la tendenza a portare l’essere (ad implementare senza fine l’affermazione e l’aggressività) alla sua massima efficacia e durata (fino all’assoluto insondabile ed incredibile) è il motore immobile (sia all’interno che all’esterno, ovvero sia nelle intimità personali che nelle narrazioni coinvolgenti di ogni genere e grado) delle portentose realizzazioni dei grandi uomini, (grandianime) pensiero/spirito…
“…cioè lo spirito grazie alla dialettica guarisce della dialettica; e infatti alla fine del sistema hegeliano la dialettica viene abolita e lo spirito guarito è pura autocoscienza. Ma se lo spirito (il pensiero) è essenzialmente dialettico, essenzialmente potenza negativa, esso non può guarirne senza morire appunto in forza della guarigione; e se vuole continuare a vivere lo può fare soltanto a prezzo di aggravare continuamente il suo male. Se la vita è una dialettica, cioè una malattia assoluta, la morte è la sua guarigione, come Socrate affermò con il sacrificio del gallo ad Esculapio.” (4)
… ma la guarigione della morte sarebbe poi cosa? A parte la notazione negativa,malattia assoluta, della potenza del pensiero (unico onore, specifico, dell’uomo… comunque la si pensi sul ‘pensiero dell’uomo’, dato che le scaturigini di tutti i diversionori si potrebbero in ogni modo – anche fantasiosamente – presupporre a tutti gli altri livelli della vita), che si sposa eternamente così bene a tanto irenismo, a tanta propaganda (in buona e cattiva fede) contro il pensiero stesso nelle sue guarigioninell’affidamento, nell’atarassia, nel distacco, nella pace, nella naturalità, etc… ma ce ne sarebbe anche un’inaudita versione d’oggettività ascetica – ad esempio – nel primo stile evoliano, come ci ricorda sapientemente Sessa…
“…si tratta di riscoprire la lingua dell’inanimato, la quale non si manifesta prima che l’anima abbia cercato di versarsi sulle cose.” (5)
…(come a dirci, a suggerirci, che la ‘forza dell’inanimato’ ci potrebbe salvare dalla proiezione inconscia di noi stessi sulle cose, proiezione che starebbe ben al di qua o troppo al di là della potenza dispiegata naturalmente dalle cose)…
…una prima corrispondenza, è nella perfetta chiusura del ciclo vitale (alla mia nascita corrisponde la mia morte…). Ma questa supposta guarigione da quella malattia assoluta della volontà di potenza e di dominio dell’uomo (indubitabile, indiscutibile, e quindi indubitabilmente ed indiscutibilmente proiettata, anche se sovente inconsciamente, verso la più importante e diretta seconda corrispondenza), non farebbe che chiudere appunto un ciclo privato ma non connetterebbe (necessariamente, a chiusura dell’anello) questo ciclo privato alla storia universale di morte e rinascita che potrebbe chiudersi perfettamente solo se scattasse, appunto, anche la seconda corrispondenza.
Ed anche in Socrate, alla certezza della morte non rimane che il vuoto, (il vuoto carenza/dialettica di questa seconda corrispondenza), sia pur guardato in faccia (e quindi comunque pleromatico, perché né disperato né disinteressato, ma sostanzialmente ed onorevolmente problematico), della propria individuale resurrezione ad una qualche altra vita… Sessa, nel suo libro, approfonditamente parla del doppio discorso di Socrate nel Fedro…
“…Nel Fedro, Platone presenta dapprima Socrate intento a pronunciare ‘col capo velato’ il discorso empio e falso intorno a Eros e, in una seconda fase, prospetta una ‘purificazione’ alla quale Socrate deve sottoporsi. Non si tratta di sostituire quanto detto nel primo discorso con un altro logos, ma di purgarsi di quello precedente per la spinta verso l’alto prodotta dal daimon, il demone che spinge Socrate a porsi ‘al servizio di un dio’- come fece il poeta Stesicoro, musico e filosofo, allo scopo di recuperare la vista, persa per una colpa analoga a quella socratica.” (6)
Al ‘servizio di un dio’ significa che si crede – in estrema sintesi – che esista/no potenza/e oltre la sfera dell’apparente/visibile, (potenze che illuminano ed accecano, anche) ma non implica necessariamente alcuna idea certa sulla sopravvivenza singolare, dopo la morte singolare… che ogni morte, poi, è singolare, anche se si riconosce in un innegabile processo universale. E’ troppo facile dedurre la corrispondenza singolare da quella universale con una sorta di sillogismo cosmico e direi che in questo caso, anche Emo, non fa eccezione, come catturato dalla sua stessa tela di ragno…

“…che tesse le mirabili simmetrie delle sue tele con l’argenteo filo da lui stesso filato e non mutuato da nessuna altra sorgente se non forse dalla luna e da un’idea celeste; e il ritmico disegno della sua fantasia arbitraria… diviene la geometria della bellezza…” (7)
…contento/i (perché consapevole/i) di stare già nella bellezza geometrica dell’aldilà…
“È restando fermi nell’al di qua rinunciando ad ogni al di là che abbiamo improvvisamente la rivelazione di essere nell’al di là, di essere attualmente nell’a di là; l’attualità stessa come supremo al di là ed unica trascendenza – la pace e la riconciliazione tra il tempo e l’istante” (8)
Perché la vita per Emo è un dis-astro, ma può essere felice, non tanto nel non ammettere la distanza siderale rispetto alla ‘regolarità (sic) astronomica’, quanto perché…
“La vita è errore è fantasia, irrazionalità ed invenzione; nessun astro, simbolo di regolarità appunto astronomica, può presiedere e regolare la vita che è il regno meraviglioso della differenza in sé; che è appunto un dis-astro, la vita è colpevole appunto perché è anima, e perché morirebbe se non fosse pura fantasia.” (9)
…l’ammissione dell’occulto orrore di Keplero, alla sua stessa rappresentazione, repertato sconcerto furioso sulla spossessata centralità terrestre, così poi ben ripercorsa da Sessa (10) nella rivisitazione dello stesso orrore emiano, che pur non scagliandosi contro la visione scientifica bensì contro l’ideologizzazione più corriva della stessa visione scientifica, risolve il tutto nell’accettazione persuasa dell’al di qua, scelto non più come rassegnazione rabbiosa od esaltata rispetto al rivoluzionato posizionamento astrale (un sotto invariato rispetto ad un mutato sopra), ma come visione del comune ed inevitabile dis-astro esistenziale, a suo modo potenzialmente consapevole, orgoglioso e felice. Felicità che poi attiene alla pietas, alla poesia che è ‘pietà di se stessi e d’altrui’…
“…la grande poesia che è la pietà di se stessi e d’altrui; l’immortalità seconda – chi può avere pietà dell’anima propria se essa è immortale? O forse bisognerebbe averne pietà proprio per questo una pietà però più simile al terrore che a se stessa.” (11)
In un serrato dialogo con Sgroi proprio a proposito del mio suggeritore notturno, che avrebbe secondo la mia versione, in Emo, segnalato questa non chiusura dell’anello privato in costanza di una corrispondenza esatta invece di quello universale, ci siamo interrogati progressivamente sulla vera consistenza dell’al di qua, sempre al modo emiano e quindi sgombrando preliminarmente il campo delle possibili velature che venissero forzosamente dall’al di là (almeno da quello che ci prospettano sistemi, dottrine e religioni) e ne siamo usciti però con ancor meno certezze di quante ne avevamo entrandoci… resta che ci siamo confermati comunque che la corrispondenza probabilmente sfalsante delle ipotesi al-di-là-della-fisica (dall’indefinibile… solo l’indefinito), lascia una traccia di forzatura pur ben evidente (da tenere quindi sotto controllo) nel nostro inquieto presente eterno. Residua, di lato, la fides…
“Vi sono interrogazioni notturne profonde e necessarie da cui la superficialità diurna rifugge.
Il sole illumina tutte le superfici; ma non scende oltre di esse. –
durante il giorno l’io tirannico e la ragione sicura dei suoi diritti,
controllano l’animo e lo spirito; durante la notte l’anima lo spirito la memoria
occupano la nostra assenza e parlano il loro linguaggio segreto con i sogni con gli
spettri con i sovrani e i profeti erranti del mondo notturno.” (12)

Note:
1) Jean-Luc Nancy, Noli me tangere, Bollati Boringhieri, 2005. Vedi anche il mio ‘Su Noli me tangere, di Jean-Luc Nancy, un apax teologico?’, in: Sandro Giovannini, …come vacuità e destino, NovAntico, 2013, pag. 137.
2) Andrea Emo, Quaderni di Metafisica, 1927-1981, Bompiani, 2006, pagg. 1323-1324.
3) A. E., Quad., cit., pag. 888.
4) A. E., idem, pag. 680.
5) Julius Evola, Cavalcare la tigre, Scheiwiller, 1971, pagg. 122-123. Citato in: Giovanni Sessa, La meraviglia del nulla. Vita e filosofia di Andrea Emo, Bietti, 2014, pag. 185.
6) Giovanni Sessa, La meraviglia…, cit., pag. 64.
7) A. E., Lettere a Cristina Campo, a cura di G. Fozzer, In forma di parole, 3, 2001.
8) A. E., Quad., cit., pag. 891.
9) A. E., idem, pag. 891.
10) Giovanni Sessa, La meraviglia…, cit., pag. 289, nota 41.
11) A. E., Quad., cit., pag. 891.
12) A. E., idem, pag. 899.

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Sandro Giovannini, Pesaro 1947. Figlio di ufficiale pilota pluridecorato. Giurisprudenza. Ha vissuto in molte città italiane. Ex Uff. dei Carabinieri. Organizzatore culturale e scrittore su vari quotidiani e riviste, alcune fondate e dirette. Centro Studi Heliopolis1975-1995. Movimento Poesia Tradizionale-Vertex, 1979-1991. Nuova Oggettività, 2010-2015. Heliopolis Edizioni in Pesaro, dal 1985, tuttora in attività, compiendo un’esperienza intensissima d’indagine sulle tecniche dell’antico e confrontandole, in chiave creativa, con le logiche di ricerca contemporanea, (poesia concreta, poesia visiva, mail art, istallazione, performance). Per primo in Italia:“Magliette letterarie”, 1988, grande successo anche commerciale. “Manifesto della scrittura esterna”, 1990. Fondatore e redattore capo di 43 numeri della rivista Letteratura-Tradizione: 1997-2009.
Libri personali: Atemporale, varia, Edizioni Casa della Poesia, 1985; Carme si-no, poesia, rivista “Parsifal”, anno III, n° 19, Gennaio-Febbraio 1986; Il piano inclinato, poesia, Heliopolis, Tabulae, 1995; L’armonioso fine, critica letteraria e metapolitica, SEB, Milano, 2005; Poesie complete (1960-2006), Heliopolis, 2007; …come vacuità e destino, critica lett. e metapolitica, NovAntico, 2013, Nel presente eterno…, saggio filosofico, Tabulae, Heliopolis, 2013; La capitale del tempo, romanzo, NovAntico, 2014.
Partecipazioni a libri collettanei e varie curatele di libri comunitari. Disegni di ogni genere, prototipi pergamenacei, sculture, opere materiche, grandi istallazioni arredative, progetti per alta moda, gioiellistica e promozionale, progetti multimediali e telematici…

venerdì 23 ottobre 2015

1° Corso di Oncologia medico - culturale a cura di Angela Maria Callari

 

Frodo, l’Anello e la Via della Croce

di Isacco Tacconi

Dopo la precedente introduzione dedicata alla persona di John Ronald Reuel Tolkien cominciamo ora questo nostro viaggio prendendo in esame il piccolo-grande protagonista del Signore degli Anelli: Messer Frodo Baggins.
Anzitutto dobbiamo rilevare come questo personaggio non si possa realmente comprendere, né d’altra parte avrebbe senso, se non in relazione al protagonista “implicito” del libro: l’Anello. La vita di Frodo difatti è intrecciata all’esistenza dell’Anello e tutto il suo ruolo si svolge e si esaurisce in riferimento ad esso. Vedremo, perciò, come l’Unico Anello sia anch’esso un vero e proprio “personaggio”.
Ma perché l’oggetto che tiene in scacco tutti i personaggi del libro, Sauron incluso, è un “anello”? Perché mai Tolkien ha scelto proprio questo oggettoe non un altro come punto focale e catalizzatore di tutto il suo racconto? Certamente il riferimento letterario a Sigfrido e alla saga dei Nibelunghi che il dotto professore di Oxford conosceva molto bene è indubbio, ma il valore simbolico e il ruolo dell’Anello è troppo profondo e centrale per poter essere soltanto una citazione dotta o una mera “copia” delle epopee nordiche.
Bisogna notare, infatti, che caratteristica dell’Unico Anello è il suo influsso sulla volontà di coloro che vi entrano in contatto. La forza attraente dell’Anello su tutti coloro che lo guardano è paragonabile alla forza attraente che i beni finiti, ossia il piacere sia intellettuale che sensibile, esercitano sulla volontà dell’uomo; in altre parole l’azione che l’Anello, non a caso chiamato “del potere”, svolge per conto dell’Oscuro Signore è la “tentazione”. Al pari della tentazione al peccato, l’Anello si “adatta” alla dimensione della mano di colui che ne entra in possesso o meglio in contatto giacché, in realtà, nessuno è “padrone” dell’Anello neppure Sauron che ne è l’autore. Al contrario si potrebbe dire che l’Anello diventa il padrone di colui che lo usa schiavizzandolo, allo stesso modo in cui il peccato, liberamente commesso dall’uomo, lo rende schiavo del peccato come dice San Paolo. La triste storia dell’hobbit Smeagol divenuto la spregevole creatura Gollum ne è l’esempio più drammatico.
Ma perché si chiama l’Anello “del Potere”? a quale potere fa riferimento? Solo alla supremazia dell’Oscuro Signore sui popoli della Terra di Mezzo? Questo non avrebbe alcun senso giacché tutti quanti sono tentati dal potere dell’Anello ma non per sottomettere le nazioni. Anzi, i buoni come Gandalf, Galadriel o Boromir sono attirati dall’Anello ma non manifestamente per compiere il male. Il male sempre si presenta come bene altrimenti non riuscirebbe ad indurre gli uomini a compierlo, solo il Demonio compie il male per il male non provando in esso né piacere né soddisfazione.
Dicevamo, perciò, che i buoni sono sì tentati di usare l’Anello ma per fare del bene. Come si vede la dinamica del peccato originale come quella del peccato attuale di ogni uomo è la stessa: fare affidamento sulla propria forza di volontà o sulle proprie buone intenzioni. Quando l’uomo pecca decide di fare il male per raggiungere un bene, vuole cioè farsi arbitro del bene e del male, utilizzando il male come via verso il bene. Nel peccato l’uomo vuole disporre del bene e del male, vuole cioè diventare come e più di Dio con le proprie forze. Questa è una costante ciclica nella storia dell’umanità dalla Torre di Babele all’ideologia filantropico-pacifista odierna radicata nel naturalismo antropologico. Ciò che fa difetto però non è che l’uomo desideri divenire come Dio giacché questo è stato il piano di Dio fin da prima della creazione. Dio, infatti, ha messo nel cuore dell’uomo il desiderio del Bene Infinito e dell’Eterna Felicità che è Dio stesso, Egli aveva già stabilito di far partecipare gratuitamente Adamo ed Eva della propria natura divina. I progenitori perciò sarebbero si diventati “come déi” ma per Grazia e non con le loro forze. Ma l’essenza del peccato è proprio questa, voler cioè fare il bene attribuendo a se stessi la capacità di farlo anziché a Dio che è l’autore di ogni bene e il Bene stesso.
La tentazione, poi, differisce da persona a persona a seconda dell’indole, delle inclinazioni, delle circostanze e del ruolo ma per tutti essa spinge al male anche se sotto la veste del bene, un bene parziale, apparente, non ordinato al fine e che in definitiva diviene male per colui che lo desidera perché lo distoglie dal Fine Ultimo che è il Bene Assoluto. Non può esistere la “tentazione al bene” e ciò mette in luce l’essenza perversa del peccato che lo rende inutilizzabile, ossia segnato da un divieto. Detto in termini moralmente più appropriati “il fine buono non giustifica mai i mezzi illeciti cioè cattivi”. Nel caso dell’Anello, al pari di un qualsiasi altro oggetto o azione malvagia in sé stessa, la regola sarà: non è possibile utilizzare un mezzo intrinsecamente malvagio per ottenere un qualsiasi bene. Questa sarà la lezione che tutti i protagonisti del Signore degli Anelli dovranno imparare loro malgrado e ciò porterà alcuni all’autodistruzione (Gollum, Denethor, Saruman), altri alla frustrazione (Bilbo, Boromir), e tutti all’impotenza di poter utilizzare l’Anello per il bene nonostante le buone intenzioni.
A questo punto diventa più chiaro come l’Anello sia la rappresentazione allegorica del “peccato” ed è per questa stessa ragione che i buoni non possono utilizzarlo, l’unica possibilità che resta loro è distruggerlo, distruggere cioè il peccato, causa di ogni male sulla terra. Ma per adempiere a questa missione indispensabile alla salvezza della Terra di Mezzo è necessario che qualcuno “porti il peso del peccato” ossia che si faccia “portatore” del male per essenza per distruggerlo una volta per tutte. Colui che lo porterà dovrà essere uno che non ne subirà il malefico influsso tentatore, dovrà riuscire a vincere la tentazione di usarlo che è, come sempre il male, la via più facile. È necessario colui che la Sacra Scrittura definisce “l’innocente di mani e puro di cuore” (Psal 23,4). Serve qualcuno che si offra “liberamente” in sacrificio d’espiazione per tutti, che porti il peso del peccato di tutti senza lasciarsi vincere da esso, in definitiva serve un capro espiatorio: una vittima.
È interessante che Tolkien ritenga che per gli hobbit il passaggio alla maggiore età avvenga proprio ai 33 anni, gli anni della pienezza di Nostro Signore, gli anni in cui la virilità raggiunge il suo vertice, l’età in cui il Figlio di Dio scelse di abbracciare la Croce. Vero è che Frodo aveva sui cinquant’anni quando partì da Casa Baggins e non trentatré, ciononostante il concetto fondamentale è che il “portatore dell’Anello” è una persona matura, non un giovincello avventato. In realtà scopriamo che Frodo aveva la stessa età di Tolkien quando pose mano al Signore degli Anelli, i due cioè erano coetanei.
Ad ogni modo la scelta di Frodo di addossarsi quel penoso “fardello” non è priva di sofferenza, e la consapevolezza che dalla propria fedeltà o infedeltà dipenderà il destino di molti segna il suo cammino aumentandone il peso morale. Lui sa che deve farsi forte per i deboli, andare avanti quando gli altri cederanno e questo è forse un peso maggiore della stessa tentazione dell’Anello. “Avrei tanto desiderato che tutto ciò non fosse accaduto ai miei giorni”, esclamò Frodo. “Anch’io” annuì Gandalf, “vale per tutti coloro che vivono in tempi come questi. Ma non tocca a noi decidere. Possiamo solo decidere cosa fare con il tempo che ci viene concesso”. Questa consapevolezza richiama un altro dogma fondamentale della nostra divina Fede Cattolica ossia la Communio sanctorum. Tale articolo del Credo ci rivela che c’è una compartecipazione ai beni spirituali fra i santi, e il bene che ogni anima battezzata compirà per carità di Dio ridonderà a bene dell’intero Corpo Mistico di Cristo che è la Chiesa Cattolica. C’è quindi una circolazione della Grazia e un sostegno reciproco tra la Chiesa militante, la Chiesa Purgante e la Chiesa Trionfante dei beati. A questo stesso principio, ossia che ogni buona azione porta frutto a suo tempo, fa riferimento Gandalf quando ricorda a Frodo che Bilbo pur potendo fare il male non lo fece. “La pietà di Bilbo – dice Gandalf – può decidere il destino di molti”.
La somiglianza tra Frodo Baggins e Nostro Signore Gesù Cristo emerge velatamente, grazie all’intensità della narrazione e alla carica simbolica di cui Tolkien disponeva essendo un cattolico estremamente profondo e sensibile. Infatti, lo hobbit è il più piccolo essere della Terra di Mezzo, certamente non scelto per la sua forza né per la sua saggezza quanto per la sua umiltà. Il legame degli hobbit con la terra, con l’humus esprime proprio la caratteristica della loro semplicità ed umiltà. Queste creature infatti vivono sotto terra, coltivano la terra, la rendono bella, piacevole e accogliente; hanno i piedi grandi ben piantati a terra. Potremmo quasi dire che gli hobbit vengano dalla terra e ciò ci riporta alla creazione dell’uomo plasmato da Dio con la polvere della terra. La stessa parola latina homo ha la sua radice etimologica precristiana nella parola humus, segno chiaro della costituzione ontologicamente terrestre dell’uomo in accordo con quanto rivela la Genesi.
Proprio queste umili origini di Frodo Baggins rendono il suo eroismoradicalmente opposto a quello dei romanzi cavallereschi classici e ancor più a qualsiasi eroe prodotto dalla letteratura umanista e antropocentrica contemporanea: i supereroi dei fumetti americani ne sono la più ridicola e banale espressione.
Chi mai, infatti, avrebbe pensato fra i grandi re degli uomini e i sapienti re degli elfi che il “salvatore” della Terra di Mezzo sarebbe giunto dalla sperduta e insignificante contrada della “Contea”? Ciò richiama l’esclamazione dubbiosa di Natanaele: “Può mai venire qualcosa di buono da Nazareth?” (Gv 1,46) e la risposta di San Paolo spiega quanto i piani della Divina Provvidenza siano lontani e imperscrutabili alla sapienza umana: “La stoltezza di Dio è più sapiente della sapienza degli uomini (e degli elfi, per non parlare dei nani)”.
Lo stesso viaggio verso il Monte Fato ricalca in maniera analogica le modalità e il fine del viaggio di Nostro Signore al Calvario, ossia il ritorno sul luogo dove il peccato originale è stato compiuto, reimpiegando lo stesso mezzo con cui era stata perpetrata la grande offesa contro Dio.
C’è una tradizione e delle rivelazioni private secondo cui Adamo fu seppellito su quello che sarà il Gòlgota cioè il monte Calvario. Tali tradizioni affermano poi che il legno dell’albero della conoscenza del bene del male da cui i progenitori presero il frutto del peccato, sarà lo stesso legno riemerso dopo secoli e utilizzato dai giudei per fabbricare la Croce alla quale inchiodarono Nostro Signore. Per questo nel Prefazio della Santa Croce la Chiesa prega: «unde mors oriebàtur, inde vita resùrgeret: et, qui in ligno vincébat, in ligno quoque vincerétur» («affinché donde aveva avuto origine la morte, di là scaturisse la vita; e chi nel legno aveva vinto, proprio nel legno fosse vinto»). Nel caso dell’Anello del Potere l’elemento d’origine non è il legno ma il fuoco. Quel fuoco da cui fu tratto l’Anello è lo stesso fuoco che lo distruggerà.

Anche gli altri membri della Compagnia dell’Anello si offrono di accompagnare la “vittima” cioè Frodo nel suo viaggio al Monte Calvario, liberamente offertosi come Cristo per la salvezza del mondo. Dice Frodo:“Accade sovente così, Sam, quando le cose sono in pericolo: qualcuno deve rinunciare, perderle, affinché altri possano conservarle”. In una parola:sacrificio. La morte di uno è il prezzo per la salvezza di molti. Quello che la Compagnia compie, dunque, è una vera e propria Via Crucis. Singolare poi il fatto che Frodo nel momento estremo della distruzione dell’Anello simbolo del Peccato si trovi solo, eccettuato Samwise Gamgee suo fedele servitore. L’“eroe” in questo caso non si trova a dover affrontare un drago o un mostro esteriore come Beowulf o Re Artù, ma deve vincere se stesso e l’interiore attrazione che il male esercita sulla sua volontà; quello di Frodo è un terribilecombattimento interiore. Il resto dei membri che con lui erano partiti, non ci sono più, egli è da solo sul Monte, solo dinanzi al Male e all’estrema tentazione dell’Anello che sembra sopraffarlo rendendo vano tutto il viaggio compiuto fin là. In questa sconfitta finale e tragica del Portatore dell’Anello si vede inoltre come tra Frodo e il Cristo vi sia soltanto una analogia e non una identificazione. Sappiamo, poi, che Tolkien non ebbe l’intenzione esplicita di fare di Frodo una sorta di “figura messianica” ma, come abbiamo detto nel precedente articolo, una vera opera d’arte supera e sublima la semplice intenzione dell’artista realizzando non soltanto il desiderio della volontà ma anche tutto quel bagaglio di valori, di credenze e di virtù vissute che costituiscono la personalità stessa dell’artista. Da un’opera d’arte, infatti, conosciamo dell’artista molto di più di quanto egli non voglia effettivamente mostrare. Per questo dinanzi agli orrori e alle aberrazioni della cosiddetta “arte contemporanea” conosciamo lo stato dell’anima di questi artisti maledetti ovvero che sono anime vuote, morte alla Grazia e abbrutite dal peccato e questo lo esprimono nell’arte che producono che è ontologicamente, metafisicamente, inevitabilmente “BRUTTA”.
Ma torniamo alla Bellezza, che è uno con la Bontà e la Verità. La debolezza di Frodo, dunque, è coerentemente figura e paradigma del cristiano. Ogni cristiano, infatti, incede su questa “Terra di Mezzo” sul cammino verso il Monte “Fato” che è la Croce del Calvario, fra continue cadute e sinceri pentimenti. Il messaggio sotteso a tutta la narrazione deve essere chiaro: la vita dell’uomo su questa terra è un Purgatorio, nata e segnata dalla sofferenza. “Gli anni della vita dell’uomo sono settanta, ottanta per i più robusti ma quasi tutti fatica e sofferenza” dice la Sacra Scrittura. Tolkien, essendo nato in un’epoca “più cattolica”, aveva ben presente questa realtà, o meglio aveva ben presente “La realtà”, consapevole che l’uomo vive, esiste al solo scopo di guadagnarsi con l’ascesi, la mortificazione interiore e il sacrificio di carità i Beni eterni che la tignola non consuma né i ladri possono rapinare.Inutile lamentarsi delle sofferenze del tempo presente, non sta a noi decidere, dice Gandalf, il cristiano sa che il tempo non dipende da lui ma l’impiego che farà del tempo sì, e su questo verrà giudicato. Il Serafico padre San Francesco d’Assisi era solito ammonire i suoi frati dicendo loro: “Fratres, dum tempus habemus operemur bonum”.
Ed è proprio nel Tempo che la Provvidenza Divina supera e soccorre le deboli forze dell’uomo. Quando tutto sembra perduto, quando la disfatta sembra completa sul “Monte il Signore provvede”, e quell’essere meschino e malvagio che è Gollum, grazie a quell’incomprensibile atto di pietà di Bilbo, diviene in quell’ora estrema lo strumento della Provvidenza per portare a termine la missione di Frodo. Ciò manifesta la visione teleologica ed escatologica cristiana del Male il quale, in fin dei conti, per quanto possa sforzarsi nei suoi scopi oscuri, resta sempre uno strumento nelle mani della Sapienza Divina, e malgrado se stesso concorrerà a compiere i disegni divini. Il Male, quindi, non sfugge all’Onnipotenza divina, come il sinedrio e Giuda Iscariota aizzati da Satana credono di raggiungere i propri scopi, in realtà sono strumento per compiere il piano divino di Redenzione fissato fin dall’inizio dei tempi e che era stato annunciato dai profeti.
Infine il vero Signore degli Anelli non è Sauron ma neppure Frodo giacché anch’egli ne subisce il fascino. Sant’Antonio da Padova diceva che è vero signore soltanto colui che riesce a signoreggiare se stesso, colui che è dominus sui. Nel Signore degli Anelli solo Sam nella sua semplicità di “giardiniere”, riesce a vincere la seducente attrattiva dell’Anello del Potere creato dall’angelo caduto per ghermire e incatenare nell’oscurità. Accompagnando il suo padrone verso il Monte, Sam condivide il giogo e il peso dell’Anello come il Cireneo la Croce di Nostro Signore.
In ultima analisi, la missione di distruzione dell’Anello rivela come per vincere la tentazione al peccato e praticare le virtù sia necessario il sostegno e il conforto di un amico. Abbiamo bisogno l’uno dell’altro, del sostegno e della preghiera altrui. L’amicizia cristiana si basa infatti sull’Imitazione di Cristo che ha comandato di servirci gli uni gli altri e di amarci come Lui ci ha amato morendo per noi sulla Croce. Alla vita cristiana è necessario il sostegno e la carità fraterna, la fedeltà, la lealtà, l’amicizia cristiana, lo spirito di sacrificio per amore del fratello e dell’amico. Quale altra religione umana insegna l’immolazione di sé per amore di Dio e del prossimo? Nessuna.
Ma la libera e generosa offerta di Frodo lo condurrà molto al di là del Monte Fato. La sua missione non finirà con un ritorno a Casa Baggins. La vita terrena, la verdeggiante Contea, la locanda, i canti e le amicizie hanno perso per lui, ormai, ogni attrattiva: desidera soltanto la Pace. Il suo Calvario gli ha meritato l’ingresso nel Riposo eterno, alla beatitudine dei santi, al di là dell’oceano, lontano ad ovest.
«Paradiso, o paradiso!» esclamava gemente San Filippo Neri infiammato peril desiderio della vita eterna. Esso è la Meta ultima di questo penoso viaggio che è la vita, per coloro che avranno perseverato fino alla fine. Tale è la disposizione interiore che il cristiano dovrebbe nutrire nel cuore: il costante, intimo, ardente e gemente desiderio di essere per sempre con Cristo e in Cristo in Paradiso per essere ricongiunto all’Amore del suo cuore e per Lui rinunciare al mondo intero.
Tale atteggiamento traspare delicato nella dipartita di Frodo che Tolkien narra con toni di mistica poesia quasi desiderasse essere egli stesso, con Frodo, su quella nave per Valinor: “Allora Frodo baciò Merry e Pipino e per ultimo Sam, e salì a bordo; le vele furono issate, il vento soffiò, e lentamente la nave scivolò via lungo il grigio estuario; e la luce della fiala di Galadriel che Frodo teneva alta scintillò e svanì. La nave veleggiò nell’Alto Mare e passò a ovest, e infine, in una notte di pioggia, Frodo sentì nell’aria una fresca fragranza, e udì dei canti giungere da oltre i flutti. Allora gli parve che, come quando sognava nella casa di Bombadil, la grigia cortina di pioggia si trasformasse in vetro argentato e venisse aperta, svelando candide rive e una terra verde al lume dell’alba”.

da:www.radiospada.org

Pena Etrusca per il Senato (e per l’Italia)

di Aldo A. Mola

“Vanitas vanitatum. Tutto è vanità. Col passare degli anni che verranno tutto sarà dimenticato. E, come il saggio, così muore lo stolto”. Parola di Qohelet, figlio di David, re di Gerusalemme (Ecclesiaste, II, 15-16). Chi ricorderà le oche giulive da anni starnazzanti nelle Aule parlamentari, i patres goliardici e il forbito eloquio (parlato e scritto) dell'ex presidente della repubblica Napolitano Giorgio? L'assemblea monocamerale è stata sempre obiettivo dei despoti: da Cromwell alla Convenzione repubblicana francese del 1792, dal Soviet di Lenin, al regime stalinista e a Kruscev che represse sanguinosamente l'insurrezione degli ungheresi, plaudito dai poi sedicenti miglioristi. Tutto verrà dimenticato. Ma prima che sprofondi nell'oblio, la morte del Senato e lo scempio della Costituzione meritano un epicedio.
 “Senatori boni viri, Senatus mala bestia” dicevano i Romani, che la sapevano lunga. Dunque, l'attuale senato  (minuscola d'obbligo) non conta più nulla. Valgono poco i suoi membri indagati, rinviati a giudizio e tuttavia sempre insediati nei loro da noi remunerati stalli. Contano meno ancora certi senatori a vita. Un mondo è finito. Il Senato è morto. Pugnalato con spensierato rito sadomaso dai suoi stessi “membri”, d'ora in poi condannati a vagare nudi sino allo scioglimento dell'assemblea. Che cosa rappresentano adesso che han votato di essere abusivi? Con quale spocchia codesti senatori eserciteranno il mandato che essi stessi hanno cancellato? Allora, meglio farla finita con questa caricatura di senato. Liberi tutti, tranne i patres, e sono molti, che debbono rispondere di reati comuni, a cominciare da alcuni etruschi che hanno favorito il colpo di mano.
Costituzione imperfetta o imperfetto chi ne abusa?
Di imperfetto in Italia non era e non è il bicameralismo ma l'uso che della Costituzione hanno fatto partiti, congreghe e profittatori vari, uniti nell'obiettivo di divaricare le istituzioni dai cittadini e viceversa. Ci stanno riuscendo. Il colpo basso attuato con l'eliminazione dell'elettività diretta della Camera Alta accelera la deflagrazione dello Stato. Basta leggere il testo arruffato approvato dai “senatori” per capire che questi patres non sanno quello che fanno. Del resto camminano nel solco fangoso della repubblica nata il 2-3 giugno 1946. Al netto di brogli vari, la repubblica ottenne il “sì” dal 42% degli aventi diritto al voto. Nacque minorata ancor più che minoritaria. La sua soglia è simile al famoso 41% sbandierato da Renzi Matteo per soggiogare il partito democratico (minuscola d'obbligo) e gli abitanti del Paese di Cuccagna (festa, farina e forca). Conniventi anche quando disertano le urne, oggi tanti italiani scodinzolano all'annuncio che potranno spendere le banconote nascoste per anni chissà dove, con occhio gonfio d'invidia per russi e cinesi di passo, dai portafogli sempre gonfi di sacrifici altri.
Dall'Unità nazionale (odiata da clericali, cattocomunisti e fautori del monocameralismo imperfetto: prono al tiranno di turno), il Senato ha raccolto il meglio dell'Italia: 2400 persone in cento anni. Quasi nessun cittadino di vero talento ne fu escluso. Ma quei senatori, vitalizi, erano nominati dal re, d'intesa con il governo, che a sua volta aveva antenne ovunque e sceglieva il grano dal loglio. Proprio perché rappresentò l'eccellenza del Paese, il Regio Senato rimane tuttora privo di una storia. Non se n'è occupato nessuno. Né il Senato stesso (pur dovizioso), né le Università, né tante case editrici pronube verso chiacchiere di destra, sinistra e centro, ma solo repubblicane. Forse il Premio Acqui Storia dovrebbe promuovere un'iniziativa specifica: una storia vera del Senato, a suo tempo presieduto  dall'acquese Giuseppe Saracco, affiancato da  Maggiorino Ferraris “patron” della “Nuova Antologia”, da ricordare nel 150° della rivista diretta da Cosimo Ceccuti.
Epicedio, dunque. Questo parlamento, eletto in contrasto con la Carta della Repubblica  come sentenziato dalla Corte Costituzionale, ha titoli per modificare la Costituzione o dovrebbe pudicamente astenersene? Con le decine di inquisiti da cui è popolato, con le centinaia dei cambiacasacca da cui è formato, ha esso l'autorevolezza giuridica, politica e morale per varare le troppe leggi che stanno squassando l'identità del Paese, dalla cittadinanza al diritto di famiglia e oltre?
Il 50% degli italiani non va più alle urne: parte per indifferenza (lo Stato è morto da tempo in molte regioni e nelle coscienze di tanti cittadini che gli avevano dato fiducia e dedicato decenni di vita per avito senso del dovere), parte per protesta. Se non fosse per la Lega e il Movimento 5 Stelle i votanti sarebbero il 30-35% degli aventi diritto contro il 60% dell'età monarchica. I cittadini voltano le spalle alle istituzioni, ormai allo stremo. Mancano solo l'eccidio di Prina del 1814 e l'assalto ai forni.
Il discredito nasce anche dal malgoverno delle piccole cose, dallo scempio del pubblico denaro mentre il ceto medio, ossatura della società, è stato precipitato nell'indigenza. Perciò abusi e sprechi sono divenuti intollerabili. Non è questione di destra o di sinistra ma di decenza, di civiltà. Il re viveva della Lista Civile, stabilita dal Parlamento (maiuscolo  d'obbligo). In “I Capi dello Stato” (ed. Gangemi) Tito Lucrezio Rizzo ricorda che il presidente provvisorio della repubblica, Enrico De Nicola, napoletano, monarchico e liberale, indossava un cappotto rivoltato. Del suo successore, Luigi Einaudi, piemontese, monarchico e liberale, si ricorda che domandò ai commensali chi gradisse la mezza mela che stava per tagliare. Entrambi erano stati senatori del regno: un modello di serietà e di sobrietà per i “repubblicani tutti d'un pezzo”.
Per far trangugiare lo scempio della Costituzione a un'opinione pubblica sempre più indignata il governo attuale ha subordinato la riforma della Costituzione a referendum confermativo, da celebrare tra un anno, dopo le elezioni amministrative della primavera 2016: uno stratagemma per rinviare le votazioni che contano, quelle per l'elezione del prossimo Parlamento (se ancora ce ne sarà uno). Eppure tempo è venuto di restituire sovranità piena ai cittadini sulla Carta saccheggiata dal governo e dai suoi segugi: non solo per approvare o cassare lo sciagurato svilimento del senato, ma sulla forma stessa dello Stato. Nel primo Ottocento Gian Domenico Romagnosi, tra i supremi esponenti del pensiero repubblicano in Europa, scrisse che ogni generazione ha diritto di decidere la forma di stato nella quale riconoscersi. Lo pensava anche Melchiorre Gioja, autore del celebre saggio “Quale dei governi liberi meglio convenga all'Italia”. Dopo 70 anni questa rugosa repubblica è al crepuscolo. La sovranità va restituita ai cittadini. Nell'unico modo leale: l'abolizione, per referendum, dell'articolo 139 della Carta, che dichiara immodificabile la forma dello Stato. Forse che la Gran Bretagna, la Spagna, il Belgio, la Danimarca, la Svezia, la Norvegia ecc. ecc. sono meno civili dell'Italia solo perché sono Stati monarchici?
La soppressione del Senato elettivo ha messo a nudo la pochezza dell'attuale “dirigenza” politica: una commedia dell'arte. La repubblica è nuda, dalla cintola in su o in giù, a seconda di dove si collochi l'ex Camera Alta. Il senato moriente è comunque la pena etrusca per la repubblica: una riforma caparbiamente voluta e votata, infatti, da una manciata di etruschi. Il cadavere del senato putrescente corromperà  il poco che resta del corpo vivo.                


giovedì 22 ottobre 2015

Sacro

di Marco Luscia

Il sacro si qualifica da sempre e presso tutti i popoli, come qualche cosa di una consistenza ontologica diversa. Il sacro non può essere confuso con il profano, altrimenti cessa di essere sacro, con grave pregiudizio per il profano che dovrebbe, a questo punto, vivere solo di se stesso.
Per questo, davanti ad un prete io non sono semplicemente davanti ad un uomo; quando si affermi questo, allora si fa del prete un semplice funzionario del divino. Dire che tutta la creazione appartiene a Dio, che ogni angolo di terra è sacro, per certi versi è corretto, ma questo non significa che non esistano più luoghi Sacri, come le Chiese o le Cattedrali, o che non abbia alcun senso battezzare o consacrare altari e persone. Alcuni sacerdoti ed intellettuali però di fatto sostengono questo anche se poi non hanno il coraggio di trarre le opportune conseguenze del loro ragionamento. Essi, nella sostanza, smantellano e il sacerdozio e la Chiesa, supponendo che esista una sola Chiesa legittima, quella che chiamano, deformando il dettame del Concilio: ” Popolo di Dio”. In tal modo si da vita ad un coacervo anarchico carismatico ” governato dalla libertà dello Spirito”. Se Gesù avesse voluto questo non avrebbe investito Pietro con il titolo di roccia della Sua Chiesa, dando vita ad una chiara definizione di ruoli. Gesù ha consacrato il mondo con la Sua opera, con la Sua parola, con la Sua morte e Resurrezione e consacrandolo ha offerto la Salvezza, l’ha posta a portata di ” mano”. Ma il mondo lo ha sempre contrastato; il mondo, nella sostanza ha bisogno di essere costantemente riportato dentro ” il tempio vivo di Cristo”. La semplice nozione di sacro infatti presenta tratti ambivalenti, sia positivi che negativi; per questo il sacro attrae e spaventa. Per questo avremo sempre bisogno di consacrati, e di gesti umani che per intercessione di Cristo, mutino la sostanza del nostro vivere profano; trasformando il sacro percepito intuitivamente, nel Sacro di Dio. Per questo il prete non è un semplice uomo che con l’ aiuto di Dio svolge una funzione particolare, per questo io devo poter riconoscere in lui qualche cosa di diverso da un semplice e volenteroso altruista, gestore delle cose di Dio. Se nel sacerdote trovo un altro me, allora non mi interessa. Concludo osservando che queste ragioni stanno alla radice dell’uso costante di proteggere la riservatezza, la sacralità della vita degli uomini di Chiesa. Una certa distanza, quanto più il titolo si fa ” alto “, conserva la nostra esigenza di mistero; forse per questo ” il mondo” ha tanta voglia di fare del prete ” uno di noi”, semplicemente per spegnere l’esigenza di Oltre, che l’abito in primis, rappresenta. Non so che farmene di un ” peccatore vestito di scuro” di un consacrato esprima una consistenza diversa; il “luogo” di una particolare presenza dell’eterno nel tempo.

mercoledì 21 ottobre 2015

Mario Sironi e il "Popolo d'Italia"1921-1940

Onora il Padre

di Alfonso Giordano

Una recente allocuzione di un noto uomo politico mi ha colpito per l’insistenza affettuosa con la quale ha rievocato la figura paterna, rammentando incontri, episodi e circostanze che avevano contraddistinto il suo rapporto filiale col padre in particolari momenti della loro esistenza. Un incipit certamente inconsueto da parte di chi faccia parte della folta schiera di coloro che aspirano a reggere le sorti di questa bella, ma sventurata Italia: il che forse indurrebbe a riconoscergli il merito di un’estrazione differente da quella di tanti altri suoi colleghi, sempre che di merito si tratti.
   Tuttavia, ciò che più mi ha interessato e che emergeva nettamente dalle sue parole, era il profondo rispetto manifestato nei confronti del proprio genitore, che andava ben oltre il naturale affetto, desumibile più che dalle espressioni verbali, dal tono della voce e perfino dallo sguardo perduto nelle lontananze di un passato che egli riviveva con patente nostalgia. Il ricordo, in tal guisa, costituiva, di per sé, un modo di onorare e ringraziare per ciò che aveva appreso e ricevuto, il proprio padre, l’espressione di un sentimento profondamente radicato nel suo animo, che trovava il suo manifestarsi nella rappresentazione di un passato riproducibile soltanto attraverso la memoria.   
    E a questo punto mi fu consentaneo pensare alla mutata dizione dell’art. 315 c.c. la cui intitolazione concerne i «doveri del figlio verso i genitori» che, nella versione originaria, ricalcava la dizione del comandamento cristiano «onora il padre e la madre» e che nella riforma del 1975 si è, per così dire, smagrito attribuendo al figlio soltanto il dovere del «rispetto» verso i genitori. E’ vero che, a tutta prima, poteva pur sembrare che la modifica non fosse assai lontana dalla versione precedente; sennonché, a ben riflettere e, a ben guardare, essa denunciava un diverso modo di pensare, e denunciava d’esser addirittura frutto di un’impronta culturale diversa.
    E’ di comune cognizione, anche senza esser giuristi, che la norma considerata appartiene a quel genere di comandi che, non prevedendo una sanzione, venivano definiti come norme imperfette. In realtà queste ultime forse non sono neppure norme giuridiche, ma soltanto esortazioni di carattere morale e sociale, precetti che stabiliscono un principio che viene lasciato, quanto alla sua effettiva efficacia, interamente alla discrezione di colui al quale esso venga indirizzato. E allora, qual era la necessità dell’intervento legislativo se non quella di far comprendere che i «doveri» del figlio nei confronti dei genitori dovevano esser considerati in modo differente dal passato, probabilmente considerato come più «progressista»?
    In ogni caso, sembrerebbe che il novello legislatore abbia voluto prender in considerazione le opinioni di coloro che, dissentendo dall’opinione che nei secoli precedenti era stata comune, ritengono non esservi motivo di sacralizzare le persone che ci hanno messo al mondo, stante il fatto che talvolta almeno uno di essi si è rivelato indegno del peculiare ossequio che tanto il comandamento cristiano quanto la norma civilistica modificata gli riconoscevano. Ma, metterebbe conto dì osservare in senso contrario, che le norme legislative sono destinate a disciplinare e, quindi a prendere in considerazione, la fattispecie generale del plerunque accidit e non quella originata da singole eccezioni.  Tanto più che – come già rilevato – il comando in esame è destinato a esser confinato nell’àmbito esiguo del caso sporadico.
    Per contro, quasi ogni giorno c’è dato di apprendere (anche se ciò non è destinato a far notizia) di una moltitudine di genitori che si sacrificano nei modi più diversi per i loro figli, ponendo quale supremo scopo della loro vita, il benessere della prole. E l’intervento generalizzato degli avi, essenziale – come si è dovuto spesso constatare – per sorreggere in questi tempi di crisi, una traballante impalcatura familiare, si pone sulla stessa linea e corrobora decisamente le nostre osservazioni. Certo, la riduzione della società naturale fondata sul matrimonio prevista dalla nostra Costituzione (art. 29) a un’espressione soltanto nucleare (vale a dire composta soltanto dai genitori e dai figli) a mio modo di vedere deve aver influito sull’indubbio decadimento della famiglia intesa come istituzione. Si convenga o no su tale osservazione, deve ritenersi per certo che la crisi della compagine familiare  è innegabile e che essa non è ricollegabile con la  riforma del diritto familiare che dopo lungaggini, tentennamenti e ripensamenti, fu portata a termine nel maggio de 1975. Tutto ciò ha spinto a proclamare addirittura la «morte» della famiglia con la stessa drammaticità con cui Nietzsche proclamò la morte di  Dio. Infatti, secondo codesta opinione l’assunzione da parte dello Stato delle principali funzioni che la famiglia storicamente svolgeva sarebbe venuta meno la stessa ragione della sua esistenza: donde la crisi che l’attanaglia. E’ chiaro che chi ragiona in codesti termini si limita a considerare solo gli aspetti funzionali ed economici dell’istituto familiare, accedendo a quella concezione che, influenzata dalla società del benessere, poggia soprattutto sull’aspetto edonistico, misconoscendo o addirittura ignorando, quanto in essa via per contro,di nobile e spirituale. Riprendendo, quindi, un discorso implicitamente avviato in precedenza, sarà forse il caso di ritrovare ulteriori cause al decadimento e alla crisi della famiglia al modo di interpretare la nostra stessa esistenza di uomini e il modus vivendi nella società che è ormai considerata un’espressione edonistica che privilegia il piacere, predica la filosofia del carpe diem, che rifugge dal sacrificio e celebra i fasti del materialismo. Quanto lontana questa concezione da quella vigente nell’antica Roma, la cui grandezza fu in gran parte dovuta alla ferrea organizzazione familiare! Quest’ultima non era concepita soltanto come un naturale rapporto di convivenza e un intreccio di obblighi reciproci, ma costituiva anche il più forte e saldo nucleo della religione romana. Gli storici hanno messo in luce quanto l’esistenza di questo elemento nella generale impalcatura dello Stato romano abbia favorito l’incredibile ascesa del popolo di Roma che ha asservito buona parte del mondo, lasciando tracce indelebili della propria grandezza. Ma la caratteristica peculiare della concezione familiare era costituito dalla sacralità del culto domestico che comprendeva non soltanto il capostipite ma riguardava i «domestici lari» come li chiamò Ugo Foscolo nei Sepolcri, cioè la venerazione dei componenti defunti della famiglia.      
     E a ben guardare, è riferibile, anche se alla lontana, a tale rituale religioso la credenza tuttora vigente nella tradizione siciliana che nella notte sul 2 novembre i parenti defunti tornino a visitare quelli ancóra viventi portando regali ai bambini che siano stati ben educati e obbedienti fra i quali i dolci chiamati della martorana.  Di certo, vivo è ancóra nella nostra isola il culto dei morti com’è testimoniato nel giorno consacrato al ricordo dei parenti scomparsi dal notevole afflusso dei siciliani nei cimiteri.
      E ciò credo avvalori l’interpretazione data in un libro edito nel dopoguerra, dal titolo L’isola appassionata, da uno scrittore cristiano, Bonaventura Tecchi, che aveva trascorso il periodo bellico nella seconda guerra mondiale proprio in terra di Sicilia nelle fila della censura di Stato, alla celebre frase di Goethe nell’Italienische Reise secondo cui «la Sicilia è la chiave per intendere l’Italia» in quanto culla degli affetti familiari, coacervo appassionato dei legami imposti dal sangue, dall’identico ceppo dell’albero della vita. E scorre certamente nelle nostre vene e riscalda i nostri cuori il grande, inesauribile affetto che ci lega a coloro che ci hanno messo al mondo. Sicché, sull’onda emotiva cagionata da tali presupposti, continueremo a onorare i nostri genitori, a dispetto di qualunque norma che non lo preveda.


                     Alfonso Giordano 

martedì 20 ottobre 2015

Don Camillo in difficoltà con la riforma liturgica

di Giovannino Guareschi


Reverendo,
spero che questa mia raggiunga il remoto esilio montano nel quale l'ha confinata quella Sua irruenza che non diminuisce davvero col crescere degli anni.
Conosco la storia che è incominciata quando il compagno sindaco Peppone ha preso a salutarla in pubblico: «Buon giorno, compagno Presidente!». Poi è venuto a farLe visita in canonica assieme allo Smilzo, al Bigio e al Brusco, per dirLe che, siccome intendeva abbellire la Casa del Popolo con un bel balcone per i discorsi, avrebbe volentieri acquistato le colonnine di marmo della balaustra dell'altar maggiore, nonché i due angeli allogati ai lati del Tabernacolo. Questi, Le disse (se il mio informatore è veritiero), avrebbe voluto sistemarli sopra l'arco del portone d'ingresso, per adornare la targa con l'emblema del PCI.
Don Camillo: Lei staccò dal muro la doppietta e la spalanco davanti a Peppone e soci facendo loro ritrovare rapidamente la via della porta. Ma, creda, non fu una risposta spiritosa, da buon giocatore.
Quando scoppiò la bomba della destalinizzazione, non dimentichiamolo, Lei non andò forse a trovare Peppone nella sua officina per comunicargli che avrebbe volentieri comprato i ritratti e il busto di bronzo di Stalin esistenti alla Casa del Popolo, nonché la targa marmorea di «Piazza Stalin», perché intendeva usarli per adornare convenientemente con essi il suo bagno personale?
Reverendo, ora che è scoppiata la bomba della depacellizzazione e Lei deve adeguare la chiesa alle esigenze precise del nuovo Rito Bolognese, Peppone aveva il diritto di renderle pan per focaccia.
NEI GUAI
FINO AGLI OCCHI
Lei è nei guai fino agli occhi, Reverendo, ma stavolta il torto è tutto Suo. Il giovane curato che i Suoi Superiori Le hanno inviato per istruirLa sul Rito Bolognese e per aiutarLa ad aggiornare la chiesa, non è un Peppone qualsiasi e Lei non poteva trattarlo rudemente come l'ha trattato.
Egli veniva da Lei con un mandato preciso e, siccome la Sua chiesa non ha nessun particolare valore artistico e turistico, il giovane quanto degno sacerdote aveva il pieno diritto di pretendere l'abbattimento della balaustra e dell'altare, l'eliminazione delle cappellette laterali e delle nicchie coi loro ridicoli Santi di gesso e di legno, nonché dei quadretti ex voto, dei candelabri e, insomma, di tutta l'altra paccottiglia di latta, di legno e di gesso dorati che, fino alla riforma, trasformavano le chiese in retrobottega da robivecchi.
Lei, don Camillo, aveva pur visto alla Tv il «Lercaro Show» e la concelebrazione della Messa con Rito Bolognese. Aveva ben visto la suggestiva povertà dell'ambiente e la toccante semplicità dell'altare ridotto a una proletaria tavola. Come poteva pretendere di piazzare in mezzo a quell'umile Sacro Desco un arnese alto tre metri come il Suo famoso (quasi famigerato) Cristo Crocifìsso cui Lei è tanto affezionato?
Lei aveva pur visto alla Tv, qualche giorno dopo, com'era apparecchiata la Sacra Mensa attorno alla quale il Papa e i nuovi Cardinali hanno concelebrato il Banchetto Eucaristico.
Non s'era accorto che il Crocifisso situato al centro della Tavola era tanto piccolo e discreto da confondersi coi due microfoni?
Non aveva visto, insomma, come tutto, nella Casa di Dio, deve essere umile e povero in modo da far risaltare al massimo il carattere comunitario dell'Assemblea Liturgica di cui il Sacerdote è soltanto un concelebrante con funzione di presidente?
E non aveva sentito, nel secondo «Lercaro Show» televisivo (rubrica «Cordialmente»), quanto siano soddisfatti, addirittura entusiasti, i fedeli petroniani per la nuova Messa di Rito Bolognese?
Non ha visto come erano tutti eccitati, specialmente i giovani e le donne, dal piacere di concelebrare la Messa invece di assistervi passivamente subendo il sopruso del misterioso latino del Celebrante, e dalla legittima soddisfazione di non doversi umiliare più inginocchiandosi per ricevere l'Ostia e di poterla deglutire in piedi, trattando Dio da pari a pari come ha sempre fatto l'onorevole Fanfani?
INDIETRO
DI QUALCHE SECOLO
Don Camillo: quel giovane prete aveva ragione e si batteva per una Santa Causa perché l'aggiornamento è stato voluto dal Grande Papa Giovanni affinchè la Chiesa, «Sposa di Cristo, potesse mostrare il suo volto senza macchia né ruga».
È la Chiesa che, fino a ieri semplicemente Cattolica e Apostolica, diventa (ricordi sempre Lercaro) Chiesa di Dio. E Lei, don Camillo, è rimasto indietro di qualche secolo, Lei è ancora fermo all'ultimo Papa medievale, a quel Pio XII che oggi viene pubblicamente svillaneggiato dai palcoscenici con l'approvazione - vedi la rappresentazione del Vicario a Firenze- degli studenti universitari cattolici, e che, quando il produttore avrà ottenuto la sovvenzione statale, verrà svillaneggiato anche dagli schermi e dai teleschermi.
Don Camillo: non se n'è accorto nemmeno assistendo, attraverso la Tv, alla consacrazione dei nuovi Cardinali?
Non ha sentito gli applausi fragorosi a scena aperta rivolti al neoCardinale-Operaio Cardin?
Non ha udito il Reverendo Presentatore televisivo precisare che il neoCardinale cecoslovacco Beran è semplicemente uscito dal suo «stato d'isolamento» ?
Non ha notato la pacata indignazione che vibrava nella sua voce quando il Reverendo Presentatore Tv ha denunciato il sopruso commesso dal dittatore Franco pretendendo di avvalersi del medievale, fascistico privilegio che hanno i Capi degli Stati Cattolici d'imporre personalmente la Berretta ai neoCardinali appartenenti al loro Paese?
Non ha neppure notato la diligenza encomiabile con la quale il Reverendo Presentatore Tv - come, del resto, ha fatto lo stesso Santo Padre - ha ignorato l'esistenza della cosiddetta «Chiesa del Silenzio» o «Chiesa Martire» d'oltrecortina?
Don Camillo, non s'è accorto come le Superiori Gerarchie della Chiesa evitino di parlare di quel Cardinale Mindszenty d'Ungheria che, con riprovevole indisciplina, persiste nell'ignorare la Conciliazione fra Chiesa Cattolica e Regime Sovietico, e nel ricusare di tributare il dovuto omaggio al cosiddetto «Comunismo Ateo», ritenendo addirittura valida una Scomunica Papale che è oggi oggetto di riso in tutti gli Oratori parrocchiali?
Don Camillo, perché si rifiuta di capire?
Perché, quando il giovane prete inviatoLe dall'Autorità Superiore Le ha spiegato che bisognava ripulire la chiesa e vendere angeli, candelabri, Santi, Cristi, Madonne e tutte le altre paccottiglie fra le quali anche il Suo famoso Cristo Crocifisso, perché, dico, Lei lo ha agguantato per gli stracci sbatacchiandolo contro il muro?
Non ha capito che sono in ballo i più sacri princìpi dell'economia? Che sono in ballo miliardi e miliardi e la stessa sacra Integrità della Moneta?
Quale famiglia "bene", oggi, vorrebbe privarsi del piacere di adornare la propria casa con qualche oggetto sacro? Chi può rinunciare ad avere in anticamera un San Michele adibito ad attaccapanni, o in camera da letto una coppia d'angeli dorati come lampadario, o in soggiorno un Tabernacolo come piccolo bar?
INSEGUIRE
LA MODA
Don Camillo, la Moda è una potenza che muove migliaia di fabbriche e migliaia di miliardi: la Moda esige che ogni casa rispettabile possegga qualche oggetto sacro. La ricerca è rabbiosa tanto che, se non immetteremo nel mercato dell'Arredamento Santi, angeli, pale d'altare, candelabri, Crocifissi, Tabernacoli, Cristi, Madonne e via discorrendo, i prezzi raggiungeranno cifre iperboliche. E ciò pregiudicherà la sacra Integrità della Lira, onorata dagli stranieri con l'Oscar delle Monete.
La Chiesa non può più estraniarsi dalla vita dei laici e ignorarne i problemi.
Don Camillo, non mi faccia perdere il segno. Lei, dunque, è nei guai ma la colpa è tutta Sua.
Sappiamo ogni cosa: il pretino inviatoLe dai Superiori Le ha proposto - demolito il vecchio altare - di sostituirlo non con una comune Tavola come quella del «Lercaro Show», ma col banco da falegname che il compagno Peppone gli aveva vilmente fatto offrire in dono suggerendogliene l'utilizzazione. E ciò ricordando che il padre Putativo di Cristo era falegname e che il piccolo Gesù, da bambino, spesso lo aveva aiutato a segare e piallare tavole.
Don Camillo: si tratta di un prete giovane, ingenuo, pieno di commovente entusiasmo. Perché non ne ha tenuto conto e ha cacciato il pretino fuori dalla chiesa a pedate nel sedere?
Bel risultato, don Camillo. Adesso, nella Sua chiesa, c'è il pretino che fa quel che gli pare e Lei si trova confinato quassù a S., ultima miserabile parrocchia della montagna. Un paese senza vita perché uomini, donne e ragazzi validi sono tutti a lavorare all'estero e qui abitano soltanto i vecchi coi bambini più piccoli.
E Lei, Reverendo, ha dovuto sistemare la chiesa secondo le nuove direttive, così, dopo aver concelebrato la prima Messa con Rito Bolognese, si è sentito dire dai vecchi che, fino a quando Lei rimarrà in paese, loro non verranno più alla Messa.
VOX POPULI, 
VOX DEI
Don Camillo, le cose si vengono a sapere. Lei - ricordando le parole del pretino - ha spiegato che, adesso, la Messa deve essere celebrata così e il vecchio Antonio Le ha risposto:
«Ho novantacinque anni e, per quel poco o tanto che ho ancora da vivere, mi basta la scorta di Messe in latino che mi son fatto in novant'anni».
«Roba da matti» ha aggiunto la vecchia Romilda. «Questi cittadini vorrebbero farci credere che Dio non capisce più il latino!»
«Dio capisce tutte le lingue» ha risposto Lei. «La Messa viene celebrata in italiano perché dovete capirla voi. E, invece di assistervi passivamente, voi partecipate al sacro rito assieme al sacerdote.»
«Che mondo» ha ridacchiato Antonio. «I preti non ce la fanno più a dire la Messa da soli e voglion farsi aiutare da noi! Ma noi dobbiamo pregare, durante la Messa!»
«Appunto, così pregate tutti assieme, col prete» ha tentato di spiegare Lei. Ma il vecchio Antonio ha scosso il capo:
«Reverendo, ognuno prega per conto suo. Non si può pregare in comuniorum. Ognuno ha i suoi fatti personali da confidare a Dio. E si viene in chiesa apposta perché Cristo è presente nell'Ostia consacrata e, quindi, lo si sente più vicino. Lei faccia il suo mestiere, Reverendo, e noi facciamo il nostro. Altrimenti se Lei è uguale a noi a che cosa serve più il prete? Per presiedere un'assemblea sono capaci tutti. Io non sono forse presidente della cooperativa boscaioli? E poi: perché ha portato via dalla chiesa tutte le cose che avevamo offerto a Dio noi, coi nostri sudati quattrini? Per scolpire quel Sant'Antonio di castagno che lei ha portato in solaio, mio padre ci ha messo otto anni. Si capisce che lui non era un artista, ma ci ha impiegato tutta la sua passione e tutta la sua fede.
«Tanto è vero che, siccome lui e la mia povera madre non potevano avere figli, appena finita e benedetta la statua, Sant'Antonio gli ha fatto la grazia e sono nato io. Se lei vuole fare la rivoluzione, la vada a fare a casa sua, reverendo».
Don Camillo, io capisco quello che Lei ha dovuto provare. Ma la colpa è Sua se si è invischiato in questi guai.
A ogni modo, io non Le scrivo solo per dirLe cose cattive, ma per confortarLa un po'.
Il pretino che è ora al Suo posto ha già smantellato la chiesa. Non ha installato al posto dell'altare il banco da falegname bensì un normale tavolo perché, con bel garbo, le Superiori Autorità gli hanno fatto capire che, pure essendo l'idea bellissima e nobilissima, questa preferenza data alla falegnameria avrebbe potuto offendere i fabbri e gli altri artigiani.
Balaustra, angeli, candelabri, ex voto, statue di Santi, Madonnine, quadri e quadretti, Tabernacolo e tutti gli altri arredi sacri sono stati venduti e il ricavato è servito per sistemare la chiesa, per l'impianto stereofonico, dei microfoni, degli altoparlanti, del riscaldamento eccetera.
Anche il famoso Cristo è stato venduto perché troppo ingombrante, incombente, spettacolare e profano. Però metta il cuore in pace: tutta la roba non è andata lontano. L'ha comprata il vecchio notaio Piletti che l'ha portata e sistemata nella cappella privata della sua villa del Brusadone.
Manca soltanto la balaustra dell'altar maggiore: l'ha comprata
Peppone e dice che ci farà il balcone della Casa del Popolo. Però mi risulta che colonnine e ogni altro pezzo della balaustra sono stati imballati, incassati uno per uno con gran cura e riposti in luogo sicuro.
Lei sa che, per quanto mi conosca come uno stramaledetto reazionario nemico del popolo, Peppone con me si lascia andare e m'ha fatto capire che sarebbe disposto a trattare. Vorrebbe, in cambio della balaustra, il mitra che Lei gli ha fregato nel 1947. Dice che non ha la minima intenzione di usarlo perché oramai anche lui è convinto che i clericali riusciranno a fregare i comunisti mandandoli al potere senza dar loro la soddisfazione di fare la rivoluzione. Lo rivuole perché è un ricordo.
LA MESSA
CLANDESTINA
Don Camillo, io sono certo che quando Lei fra poco tornerà (e La faranno tornare presto perché, adesso, in chiesa ci vanno, per far dispetto a Lei, soltanto Peppone, lo Smilzo, il Brusco e il Bigio), Lei troverà tutte le Sue care cianfrusaglie perfettamente sistemate nella chiesetta del notaio.
E potrà celebrare una Messa Clandestina per i pochi Suoi amici fidati. Messa in latino, si capisce, e con tanti oremus e kirieleison.
Una Messa all'antica, per consolare tutti i nostri morti che, pure non conoscendo il latino, si sentivano, durante la Messa, vicini a Dio, e non si vergognavano se, udendo levarsi gli antichissimi canti, i loro occhi si riempivano di lacrime. Forse perché, allora, il Sentimento e la Poesia non erano peccato e nessuno pensava che il dolce, eternamente giovane «volto della Sposa di Cristo» potesse mostrare macchie o rughe.
Mentre oggi Essa si presenta a noi dal video profano, col volto sgradevole e antipatico del Cardinale Rosso di Bologna e dei suoi fidi attivisti, gentilmente concessi alla Curia dalla locale Federazione Comunista.
Don Camillo, tenga duro: quando i generali tradiscono, abbiamo più che mai bisogno della fedeltà dei soldati...
La saluto affettuosamente e Le mando, per Sua consolazione, una immaginetta del Molto Reverendo Pietro Nenni, esperto in Encicliche Papali, e chiamato dagli amici "Peter Pan e Salam".