martedì 30 giugno 2015

Ha vinto il partito degli astenuti: “ i politici”… molti di loro … II sacco continua.

di Maria Pia Iovino

Palermo, la città dalle mille etnie, dai mille colori, dalle mille parole, dalle mi…gliaia di menzogne, che non riesce a rinnegare se stessa. Quella parte di se stessa che disprezza la civiltà, le regole, la misura, la fatica ed il sudore del lavoro degli onesti, la trasparenza, per continuare ad annaspare e ritornare a quel vomito che ha, per un certo periodo di tempo, espulso dalle fauci insaziabili che albergano nella sporca e sordida coscienza di alcuni suoi estorsori. Quella insana coscienza che ha divorato il patrimonio storico, culturale, letterario, la memoria che, coraggiosi uomini di questa isola (la Sicilia) hanno cercato con la loro vita, di conservare per il riscatto dei posteri. Coraggiosi uomini e donne che, della coerenza, del bene collettivo, della società più giusta ed equa hanno fatto la propria ragione di vita. Quella folta schiera di illuminati cittadini che, nella quotidianità e nel nascondimento, lavorano senza proclami e senza campagne di marketing autoreferenziali; conducono delle battaglie per l’affermazione dei diritti dei cittadini più disagiati contro quel male oscuro che, l’affarismo becero e delle menti calcolatrici e ciniche spadroneggiano negli scranni della cattiva politica. Politica inconcludente e infausta che ha ridotto e riduce alla polvere i sacrifici e i sogni di uomini e donne liberi, sottrattisi (per scelta) dal virus della corruzione degli ultimi tempi”!
Eppure Palermo è stata ed è una città che, metaforicamente potrebbe assimilarsi ad una donna bella e virtuosa, idealista, religiosa e ben pensante. Quella Palermo in cui numerosi visitatori di ogni epoca e provenienza geografica hanno potuto narrarne la sua beltà e grandezza: 
«Nel giardino pubblico vicino al porto, trascorsi tutto da solo alcune ore magnifiche. È il posto più stupendo del mondo [...] (Monte Pellegrino) il promontorio più bello del mondo». (J.W.Goethe su Palermo, “Viaggio in Italia”, 1817). 
«Palermo, Museo del Mediterraneo: se volete sapere quel ch’è passato su questi flutti azzurri venite a Palermo. E’ una città deliziosa, una città dolce, una città profumata. Le sue piazze, le sue vie, i suoi giardini, i suoi monumenti sono magnifici. Ecco la Sicilia: capolavoro della natura, centro d’un mondo, terra illustre, si commovente e si nobile nel suo misterioso destino». (Gabriel Hanotoux, Diplomatico dell’Accademia di Francia, 1853 – 1944). 
«È la città greca per le sue origini, per la luminosità del suo cielo e per le mètopi del suo museo, di bellezza non inferiore a quelle di Olimpia. È città romana per il ricordo delle sue lotte contro Cartagine e per i mosaici della villa Bonanno. È città araba per le piccole cupole di alcune sue chiese, eredi delle moschee. È città francese per la dinastia degli Altavilla che l’abbellirono. È città tedesca per le tombe degli Hohenstaufen. È città spagnola per Carlo Quinto, inglese per Nelson e Lady Hamilton». (Roger Peyrefitte su Palermo, 1907 – 2000). 
Tuttavia, il palermitano che ancora sopravvive allo sciame di politici pelosi e dannosi, realizzerebbe un repellente brivido lungo la schiena se si dovessero risvegliare dalle proprie tombe gli avi che, in epoche auree hanno patinato di onore e decoro Palermo, e che una volta risvegliati, perirebbero per la seconda volta a causa dei colpi mancini e i segni indelebili che costoro hanno grottescamente inferto a Palermo oggi.
Eppure c’è chi, pur di difendere lo scempio che ha praticato e continua a impollinare in seno ai vari collegi e giunte, non riesce più ad avere una visione veritiera della realtà. C’è chi, paradossalmente, esalta le proprie capacità taumaturgiche, incapace di vedere gli ecomostri che ha partorito, la rabbia collettiva che ha generato, uniti a marginalizzazione, frustrazione, blocco socio-economico, disoccupazione, clientele, rapine, sotto l’egida della lotta alla corruzione e per la legalità.
Eppure, alcuni palermitani e residenti non hanno la memoria corta per rievocare lo scempio degli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso, gli anni del sacco di Palermo. Sacco che, il miope e scellerato boom edilizio stravolse la fisionomia architettonica della città. 
Ed oggi, nel 2015 cosa sta accadendo, cosa sta riaccadendo, ma soprattutto, menti riflessive, sagge e di intelletto raffinato si chiedono cosa deve riaccadere, perché la Palermo, la città irredimibile di Leonardo Sciascia, si veda viepiù rinnegata la possibilità di redimersi, a partire dalla possibilità di avere più ossigeno per respirare. 
Esattamente respirare “odori, profumi, verde, speranza, non puzze insulse di sporcizia a maglie larghe, che coscienze imbrattate dalla bramosia del potere e dalla popolarità a tutti i costi, saccheggiano, offuscando l’ordine costituzionalmente garantito, destabilizzando l’ordine di quanti vogliono credere e continuare a fare camminare le proprie idee sulle proprie gambe e con le proprie braccia, liberandole da ladri e saccheggiatori! 
Quei saccheggiatori che trovano nelle varie tornate elettorali un’occasione per lavare la lordura delle proprie vesti, e della pochezza morale nel bagno degli elettori astenuti, colpevoli questi ultimi di essersi stancati di assistere impotenti, alle calamità naturali che l’eletto o nominato di turno ha provocato. Eletto o nominato che, una volta divenuto tale, e avendo avuto cura di essersi assicurato la solidità della propria poltrona, si è astenuto dal condurre la politica vera, autentica, che solo gli uomini dalla coscienza pulita, dal vero amore per il prossimo, dalla condotta sana e universalmente riconosciuta tale, sanno praticare. Non di certo “ominicchi” per dirla con Leonardo Sciascia, nel suo romanzo “Il giorno della civetta” per indicare esemplari umani maschili che vivono la loro vita inseguendo le onde telluriche dell’ultimo movimento sussultorio politico, esimendosi dall’assumere la responsabilità della improba governance che hanno deciso di condurre. Risultato: un acerrimo fallimento, intere generazioni rovinate, città invivibili, una pressione fiscale selvaggia, un patrimonio culturale, ambientale e architettonico violentato, risorse (umane, organizzative e finanziarie), dilapidate. Altro che “Res publica id est, res populi”. 
Che consolazione sapere, dalle pagine di Filosofia, di un certo Marco Tullio Cicerone[1], che ci istruì e formò per una politica a passo d’uomo e al vero servizio dei cittadini!
Questi ingredienti, manieristicamente, riproducono e rievocano il sacco di Palermo degli anni ’60, condito di altri e ulteriori esaltatori di insipidità, dannosi per la salute pubblica?


[1] Nei libri IV e V dell’opera De Re Repubblica,  infatti, viene tratteggiata la figura dell'uomo di governo ideale, che Cicerone chiamava di volta in volta princeps ("primo cittadino") o tutor et procurator rei publicae ("reggitore e governatore dello stato"), o ancora con altri appellativi (moderator) per rappresentare il modello ideale di uomo politico, che sa sacrificare ogni interesse personale per il bene della collettività, assicurando (anzi, restaurando) la stabilità della repubblica senatoria, espressione della classe dirigente.

Tra fede, arte e cultura: il Palazzo Alliata di Villafranca celebra la “Santuzza”

Si avvicina, per Palermo, la festa della “Santuzza”: il 15 luglio prossimo, anticipato dal 391° “Festino” la sera precedente, il capoluogo siciliano si stringerà in processione per ricordare il ritrovamento delle ossa della Santa e che nel 1624 salvarono la città dalla peste.
Per i palermitani Santa Rosalia è la patrona, ma non solo: è simbolo, icona di una città, ma soprattutto rappresenta un appiglio, la certezza di una colonna cui sostenersi. I pellegrinaggi a Montepellegrino, le innumerevoli preghiere rivolte a Rosalia sono testimonianze forti di quanto Palermo sia legata a questa immagine, di quanto il suo volto sia esperienza concreta nel cuore e nel cammino di vita di chi vive alle falde di quel monte.
Oltre agli allestimenti per il festino del 14 luglio che vedrà in piazza migliaia di palermitani, si succedono le iniziative in preparazione del solenne evento: situato in prossimità di una delle arterie ove si celebrerà la festa, ossia a Piazza Bologni, il Palazzo Alliata di Villafranca, con la sua splendida cornice seicentesca, sarà sede di una serie di eventi che rientrano proprio nell’ambito del “festino” in onore della nostra “Santuzza”.
L’associazione omonima, Associazione Palazzo Alliata di Villafranca onlus, sta organizzando, infatti, una manifestazione dal titolo Rosalia, Nobile Santa, Installazioni, mostre e devozioni per la Santa patrona di Palermo che avrà luogo dal 1 al 20 luglio. Il palazzo sarà il suggestivo sfondo all’iniziativa che vedrà, in ordine, le seguenti proposte:
Una mostra iconografica di pittura, Imago Rosaliae, di Filippo Sapienza
Un percorso iconografico attraverso le immagini devozionali di Santa Rosalia dal titolo Rosalia, Santa del popolo, a cura di Paolo Campanella e Giancarlo Capitummino
Dal 12 al 20 luglio avrà luogo Luce di grazia, mostra personale di scultura del prof. Filippo Leto. Happening inaugurale il 12 luglio alle 21.30. Ingresso gratuito.
 Occorre segnalare che dal 1 al 14 luglio l'Associazione parteciperà al circuito "Santuzza Card", una carta che permetterà di visitare, con un contributo di soli 6 euro, tre monumenti di Palermo: la Cattedrale, Palazzo Alliata di Villafranca e la Torre di S. Nicolò all'Albergheria.


Fiera del libro per l'estate 2015


Attualità di Giovannino Guareschi "A MORTE IL RISPARMIO" URLO' LA FORMICA

di Giovanni Lugaresi
"… E’ la formica” spiegò la nonna. “E’ la buona formica che lavora tutta l’estate per mettere da parte roba. E così, quando viene l’inverno, la brava formichina è tranquilla, mentre la cicala, che ha trascorso tutta l’estate cantando, deve andare da lei a implorare un po’ d’aiuto. E la formica le risponde: ‘Se hai cantato, adesso balla!’. Bisogna sempre lavorare e risparmiare, bambino mio. Il risparmio…”.
“A morte il risparmio!” urlò la formica. “Peste e dannazione a chi ha inventato la Giornata del Risparmio, i salvadanai e la previdenza! Ho lavorato trent’anni come una negra economizzando il centesimo, mi sono fatta a costo di spaventosi sacrifici un gruzzoletto per la vecchiaia, ed ecco il magnifico risultato: le mie cinquantamila lire valgono oggi come settantacinque lire di prima della guerra!… E debbo andare io a elemosinare dalla cicale la quale, adesso, fa soldi a palate perché – avendo trascorso i suoi giorni guardando il panorama – ora tutti vengono da lei a farsi descrivere le albe rugiadose e i tramonti di fuoco e i placidi meriggi e le profumate notti del felice tempo che fu. Adesso chi ha in magazzino articoli di nostalgia fa quattrinoni!… Abbasso il risparmio!… Abbasso i capitalisti!… La proprietà degli altri è un furto!…”.
E si allontanò cantando inni sovversivi”… E’ un passo della “Favola di Natale” di Giovannino Guareschi, scritta in un lager nazista nei giorni precedenti il 25 dicembre 1944, musicata da Arturo Coppola, letta nelle baracche dei compagni di prigionia, quindi, nel dopoguerra pubblicata da Rizzoli, rappresentata, incisa su disco e audiocassetta con la voce recitante di Gianrico Tedeschi, anch’egli reduce dai campi di concentramento.

Nella Notte Santa, il figlio Albertino, con la nonna e il cane Flik, preceduti da una lucciola che illumina la strada, escono di casa per andare a trovare l’internato militare (IMI) 6865.
Tra fantasia e realtà, poesia e fede, con l’aggiunta di immancabili note umoristiche, lo scrittore, prigioniero dei nazisti dopo l’8 Settembre, per avere mantenuto fede al giuramento fatto al suo Re, si inventò questo viaggio avventuroso, ricco dunque di incontri, di imprevisti, della piccola comitiva familiare. Ci sono tante scene interessanti, emblematiche, ci sono apologhi e metafore.
Ma perché abbiamo scelto questo libro e questo passo benché lontani dalla ricorrenza del Natale?
Perché quel passo è… in quel determinato libro, e si presenta di una attualità straordinaria. Paiono scritte per l’oggi, quelle espressioni.

Con la Giornata del Risparmio siamo cresciuti anche noi della generazione della guerra; al risparmio ci hanno esortato a suo tempo genitori, parenti, educatori, politici, e gente del genere. Per arrivare dove, adesso? Ma allo stesso traguardo della povera formichina incontrata da Albertino e la cui virtù veniva messa in risalto dalla nonna.
A che pro abbiamo risparmiato? Non ci conveniva spendere tutto, scialacquare dandoci alla bella vita?
Che frutto danno quel che in lunghi anni di lavoro (nostro e/o dei nostri genitori) abbiamo messo da parte?
Abbiamo acquistato (o l’abbiamo ereditata dai nostri vecchi) una casa? Ce la stanno demolendo con pesantissime tasse, simili a bombe sganciate da aerei nemici, mentre sono invece… aerei di casa nostra.
Lasciamo i risparmi in un conto corrente bancario? Ma una volta conveniva tenerne anche parecchi, perché l’interesse era adeguato, conveniente. Adesso invece? Devi pagare tu perché la banca ti tenga i soldi! Bolli, commissioni; manca soltanto tu debba pagare l’aria condizionata degli uffici quando entri… Investi in titoli? Bravo! Anche lì ci sono balzelli: bancari? No, ti dicono, è lo Stato che impone. Comunque sia, il bastonato resti tu.
Acquisti un lingotto d’oro? A che cosa ti serve? Resta lì e un giorno, magari, quando vorresti vendere, il prezzo del prezioso metallo è giù.
No, decisamente non conviene risparmiare, mettere da parte, perché non sai come muoverti per investire. Il mondo va a rovescio e in questa Italia diventata stato di polizia, occhiuto e prepotente, dove trovi sempre qualcuno che ti controlla, e dove la fantasia al potere viene esercitata soltanto per inventarsi accrescimenti di dispendiose, ignobili burocrazie, e modi per impoverirti, non vale la pena mettere da parte qualcosa. E’ il tempo delle cicale, tanto è vero che per primo chi ci governa sperpera, ignora che cosa significhi oculata amministrazione, canta, canta e canta ancora. Poveretta, la formica che non potrà più presentarsi, più dire nulla, perché sarà già morta… di fame e di sete.

La formica, cioè il ceto medio chiamato a pagare per l’insipienza, l’incapacità (anche cialtroneria?) di chi, avendo un qualsiasi potere, ne approfitta a tutti i livelli. E non ci vengano a raccontare che è il sistema liberale, capitalista che comporta più tasse. Sono enormi balle. Un liberale “doc” come Luigi Einaudi diceva che qualsiasi imbecille è capace di mettere tasse. Infatti…
Guareschi, sempre attuale, per concludere, e purtroppo! Non avrebbe immaginato che 71 anni dopo la sua “Favola di Natale” la protesta della formichina sarebbe stata di una attualità stringente.


venerdì 26 giugno 2015

“Alla fine siamo arrivati a sguainare le spade per dimostrare che le foglie d’estate sono verdi…”

di Domenico Bonvegna

Lo aveva detto nel secolo scorso, Gilbert Keith Chesterton, il grande scrittore inglese, lo ripete il settimanale Tempi, nella bella e interessantissima intervista del 19 giugno scorso a monsignor Carlo Caffarra, arcivescovo di Bologna e cardinale di Santa Romana Chiesa. Il cardinale nell’intervista ha risposto alle sollecitazioni del direttore Luigi Amicone in merito a temi etici di grande rilevanza e drammatica attualità: l’ideologia del Gender, l’unione gay, il matrimonio, la famigliae soprattutto la manifestazione “Difendiamo i nostri figli” del giorno dopo a Roma in piazza S. Giovanni. E dunque ci siamo. Dopo il referendum di Dublino e il voto del Parlamento di Strasburgo che raccomanda a tutti paesi dell’Unione l’istruzione di massa al gender e legislazioni matrimoniali gay friendly, viene il momento di allinearsi anche per l’Italia. “Fanalino di coda” dell’Europa, come dice il giornalismo giunto nella fase della sua automatizzazione e immissione nella catena di montaggio fordista” (Luigi Amicone, Famiglia. Caffarra: «Bisogna che il popolo combatta per la legge come per le mura della città», 19.6.15 Tempi).
Naturalmente vi invito calorosamentea leggere integralmente le riflessioni del cardinale, che padre Livio a Radio Marianon ha esitato a definirle una vera Magna Charta,qui mi limito a presentare alcuni passaggi, è mia intenzione più avanti presentare uno studio che monsignor Caffarra aveva scritto qualche anno fa, “L’Amore insidiato”, il secondo volume del dittico, “Non è bene che l’uomo sia solo. L’amore, il matrimonio, la famiglia nella prospettiva cristiana”, pubblicati da Cantagalli (2008), che ha molto a che fare con l’intervista a Tempi.
Le dure riflessioni di Caffarra si snodano in quattro pensieri: 1°, “Siamo alla fine, l’Europa sta morendo, forse non ha neanche più voglia di vivere”. Inoltre, il cardinale ci tiene a precisare che tutte le civiltà che hanno nobilitato l’omosessualità, sono morte, le uniche che non l’hanno fatto, hanno resistito per millenni. E il suo pensiero va al popolo ebreo.“Sono stati quei due popoli che soli hanno condannato l’omosessualità: il popolo ebreo e il cristianesimo. Dove sono oggi gli assiri? Dove sono oggi i babilonesi? - Si domanda Caffarra - E il popolo ebreo era una tribù, sembrava una nullità al confronto di altre realtà politico-religiose. Ma la regolamentazione dell’esercizio della sessualità quale ad esempio noi troviamo nel libro del Levitico, è divenuta un fattore altissimo di civiltà. Questo è stato il mio primo pensiero. Siamo alla fine”.
Nel 2° pensiero che riguarda la fede, monsignor Caffarra si interroga: come è possibile che nella mente dell’uomo si oscurino delle evidenze così originarie, come è possibile? E la risposta alla quale sono arrivato è la seguente: tutto questo è opera diabolica. In senso stretto. È l’ultima sfida che il satana lancia a Dio creatore, dicendogli: “Io ti faccio vedere che costruisco una creazione alternativa alla tua e vedrai che gli uomini diranno: si sta meglio così. Tu gli prometti libertà, io gli propongo la licenza. Tu gli doni l’amore, io gli offro emozioni. Tu vuoi la giustizia, io l’uguaglianza perfetta che annulla ogni differenza”».
Tuttavia, sempre a forma di domanda, il cardinale continua: “Fino a quando Signore?”. Quando si concluderà tutto questo abominio che ci circonda. L’ultimo pensiero lo trae da una risposta che diede a dei pescatori tanto tempo fa. Ripensando a quella risposta, il cardinale ora si domanda: “tutto questo tentativo di sfigurare e distruggere la creazione, ha una tale forza che alla fine vincerà? No. Io penso che c’è una forza più potente che è l’atto redentivo di Cristo, RedemptorHominisChristus, Cristo redentore degli uomini”.
Il cardinale conclude l’intervista , interrogandosi sui protagonisti, osugli attori, che devono affrontare questa specie di pandemia in atto oggi nella società odierna. Chi è pronto a combattere per difendere il buon senso, cioè che “le foglie d’estate sono verdi”. Fondamentalmente per Caffara  in primis sono i pastori della Chiesa, i vescovi e poi gli stessi sposi cristiani. “I pastori della Chiesa: perché loro esistono per questo. Hanno ricevuto una consacrazione finalizzata a questo, la potenza di Cristo è in loro. “Sono duemila anni che in Europa il vescovo costituisce uno dei gangli vitali, non soltanto della vita eterna, ma della civiltà” (G. De Luca). E una civiltà è anche l’umile, magnifica vita quotidiana del popolo generato dal Vangelo che il vescovo predica. E poi gli sposi. Perché il discorso razionale viene dopo la percezione di una bellezza, di un bene che tu vedi davanti agli occhi, il matrimonio cristiano”.
Dopo aver raccontato lo straordinario episodio della grande conversione di S. Agostino tramite l’altro grande vescovo S. Ambrogio, il cardinale tratta dell’importanza delle Leggi e a questo proposito cita Eraclito che diceva, “Bisogna che il popolo combatta per la legge come per le mura della città”. “Più sono invecchiato - afferma Caffarra - e più mi sono reso conto dell’importanza della legge nella vita di un popolo. Oggi sembra che lo Stato abbia abdicato al suo compito legislativo, abbia abdicato alla sua dignità, riducendosi a essere un nastro registratore dei desideri degli individui. Con il risultato che si sta creando una società di egoismi opposti, oppure di fragili convergenze di interessi contrari”. Tacito dice: “Corruptissima re publica, plurimaeleges”. Moltissime sono le leggi quando lo Stato è corrotto. È la situazione di oggi. Oggi secondo Caffarra, le leggi si sono ridotte a un circolo vizioso, “a nastro registratore di desideri. Questo inevitabilmente genera un sociale conflittuale, di lotta, di supremazia del più prepotente sul più debole, cioè la corruzione dell’idea stessa del bene comune, della res publica. Allora si cerca di rimediare con le leggi dimenticando che non ci saranno mai delle leggi così perfette da rendere inutile l’esercizio delle virtù. Non ci saranno mai”.
Caffarra fa una interessante critica ai suoi confratelli vescovi, “noi pastori abbiamo una grande responsabilità, di aver permesso la irrilevanza culturale dei cattolici nella società. L’abbiamo permessa, quando non giustificata. Quando mai la Chiesa ha fatto questo? Quando mai i grandi pastori della Chiesa han fatto questo?”.
Alla fine il settimanale chiede il parere sulla manifestazione delle famiglie a Roma. “dove cattolici e non cattolici manifesteranno perché venga mantenuto intatto a livello legislativo il principio che il matrimonio è tra un uomo e una donna e che il diritto di ogni bambino ad avere un padre e una madre, a essere educato e non manipolato con l’ideologia gender, va salvaguardato da ogni desiderio degli adulti e ogni istruzione di Stato”.
Il religioso non ha nessun dubbio si schiera con i promotori. Noi non possiamo tacere. Guai se il Signore ci rimproverasse con le parole del profeta: cani che non avete abbaiato. Lo sappiamo, nei sistemi democratici la deliberazione politica è presa secondo il sistema della maggioranza. E mi va bene perché le teste è meglio contarle che tagliarle. Però, di fronte a questi fatti non c’è maggioranza che mi possa far tacere. Altrimenti sarei un cane che non abbaia. Mi preme soprattutto, e ho molto apprezzato che quella giornata sia impostata su questo: la difesa dei bambini. Papa Francesco ha detto cheil bambino non può essere trattato come una cavia.  Si fanno degli esperimenti pseudo pedagogici sul bambino. Ma che diritto abbiamo di farlo? La cosa più tremenda, il logos più severo detto da Gesù, riguarda la difesa dei bambini”Tuttavia il cardinale Caffarra è convinto che bisogna dirlo chiaramente: le unioni tra persone dello stesso sesso è profondamente ignobile. Glielo dobbiamo dire sempre. Quando il Signore dice al profeta Ezechiele: “Tu richiama” e sembra che il profeta dica: “Sì, ma non mi ascoltano”. Tu richiama e sarà chi è da te richiamato responsabile, non tu, perché tu l’hai richiamato. Ma se tu non lo richiamassi, sei responsabile tu. Se noi tacessimo di fronte a una cosa così, noi saremmo corresponsabili di questa grave ingiustizia verso i bambini, che sono stati trasformati da soggetto di diritti come ogni persona umana, in oggetto dei desideri delle persone adulte. Siamo tornati al paganesimo, dove il bambino non aveva nessun diritto. Era solo un oggetto “a disposizione di”. Quindi, ripeto, secondo me è un’iniziativa da sostenere, non si può tacere».

Mi scuso se sono andato oltre, ma le riflessioni di Caffarra sono troppo importanti.

Maria Anna Giordano, "Il passato Ritrovato"




giovedì 25 giugno 2015

Compie 800 anni la Magna Carta d’Inghilterra

di Giuseppe Bagnasco

   Ottocento anni fa, per la precisione il 15 giugno 1215, a Runnymede, località della Contea di Surrey posta nel sud-est di Londra, accadde un fatto che risulterà propedeutico nel processo dell’ evoluzione della libertà dell’uomo. Quel giorno il re d’Inghilterra, Giovanni Senza Terra (John Lackland), succeduto sul trono al più famoso fratello Riccardo Cuor di Leone, fu costretto dai baroni del regno a sottoscrivere la Magna Carta. Il documento redatto in latino col titolo Magna Charta Libertatum (Grande Carta delle Libertà), assurge a rilevante importanza storica perché con essa per la prima volta veniva riconosciuta l’inviolabilità dei diritti della persona contro ogni arbitrio perpetrato dal potere. L’eccezionale evento  è fatto risalire ad un fatto d’arme verificatosi l’anno precedente. Fu infatti nel 1214 che il re Giovanni, privato dal re di Francia dei suoi possedimenti continentali (da ciò il soprannome di Senza Terra), per riprenderli gravò di tasse i suoi baroni che si ribellarono ritenendo arbitrarie le dette imposizioni. La rivolta portò ad un compromesso con cui il re si obbligava a riconoscere e concedere alcuni diritti in cambio di un rinnovato impegno di fedeltà. Tuttavia questi diritti, in definitiva, interessavano e difendevano soprattutto i privilegi della nobiltà e dell’alto clero sebbene in effetti la Carta garantisse oltre i diritti dei feudatari e quelli della Chiesa, anche quelli delle città inglesi e di tutti gli “uomini liberi”. Ciò significava esclusione dei servi e degli schiavi. Fu sic et simpliciter una cessione di parte del potere della corona su tutti i campi nella vita della società del tempo. Tra i tanti la Carta stabiliva e garantiva ciò che in seguito, nel campo giuridico, sarebbero stati considerati diritti umani come ad esempio: 1) La garanzia per tutti gli uomini “liberi” (cioè non schiavi, né servi) di non poter essere arrestati e detenuti senza un regolare processo e senza una prova (l’habeas corpus integrum). 2) La proporzionalità della pena rispetto il reato commesso. 3) La possibilità per gli uomini liberi di poter ereditare la proprietà esonerando le vedove dall’obbligo di doversi risposare. Oltre a ciò prevedeva la libertà e l’integrità della Chiesa inglese, messa in precedenza in discussione dal re Enrico II (padre di Giovanni) con l’arcivescovo di Canterbury Tommaso Bechet che finirà assassinato nella sua cattedrale. Il che  provocò la scomunica di Papa Innocenzo III, lo stesso che aveva accettato la protezione  del piccolo Federico Ruggero (il futuro Imperatore Federico II) richiesta dalla madre Costanza d’Altavilla. Prevedevano ancora l’istituzione di una Commissione di 25 baroni col potere di promuovere la destituzione del re qualora avesse violato i suoi solenni impegni e l’introduzione di disposizioni che perseguivano la corruzione dei pubblici ufficiali. Però ciò che più conta, anche alla luce dell’importanza evidenziata in questo testo, fu il tassativo divieto imposto al re di poter stabilire nuove tasse ai suoi diretti vassalli senza il consenso del “Commune consilium regni”. Un organo composto da arcivescovi, abati, conti e tra i più importanti baroni del regno che doveva convocarsi con un preavviso di 40 giorni e agire con potere deliberante a maggioranza dei presenti. La creazione di questo Consiglio, in cui erano presenti tutti i grandi feudatari del clero e dell’aristocrazia, è comunemente intesa come la prima pietra del futuro Parlamento. Da notare che a quella data, in Europa esisteva già un Parlamento (il primo nella storia) ed era quello creato in Sicilia dal normanno Ruggero II, la cui composizione sarebbe stata implementata nel 1240 dallo svevo Federico II con l’inclusione dei rappresentanti delle città demaniali. Innovazione introdotta in Inghilterra solo nel 1264. Però fu con la redazione scritta della Magna Carta che uscirono modificati i rapporti feudali tra il re, che in fondo era un signore feudale, e i suoi vassalli ai quali era legato da un contratto personale per cui doveva rispettare i vincoli oltre  le leggi del regno. In definitiva fu la prima volta che, dopo il diritto romano e quello canonico (ecclesiastico), venne codificato in diritto pubblico quello feudale. E’ da rilevare comunque che, a parte questi, norme scritte esistettero già nell’antichità. Nello specifico ci si riferisce al Codice Hammurabi (1760 a.C.) della civiltà vetero-babilonese nel quale venivano elencate quelle riferite al furto, ai reati penali, al matrimonio ecc,.  Norme scritte quindi, anche allora non dissimili da quelle della Magna Carta che, dalla sua sottoscrizione, potevano così essere invocate da chiunque avesse visto violati i propri diritti. E ciò rappresentò sia la protezione legale degli uomini liberi sia l’affermazione dell’uguaglianza di tutti i cittadini (esclusi sempre gli schiavi e i servi). Principi ancora ripresi dal Parlamento inglese nel 1628 con la Petizione dei Diritti umani inviata al re Carlo I in cui, oltre a riaffermare leggi e statuti precedenti, era previsto il rifiuto del cittadino ad alloggiare soldati e il divieto di promulgare la legge marziale in tempo di pace . Per tutto ciò  la Magna Carta  è indicata come la base del Costituzionalismo moderno. In Inghilterra  solo nel Trecento il Parlamento fu diviso in due Camere: quella del Lords e quella del Comuni e che risulterà da guida per i futuri parlamenti d’Europa, laddove essi si formarono. E in effetti i suoi contenuti nel particolare riguardo ai diritti individuali delle persone, furono ripresi nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 dalla Rivoluzione Francese e questa sulla falsariga della Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America del 1776. Il tutto poi  riconfermato nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo adottata dalle Nazioni Uniti nel 1948. Per quel che riguarda la storia della nostra Sicilia, c’è da sottolineare che molti principi della Costituzione inglese, furono proposti dal termitano Paolo Balsamo e introdotti nella pur breve  Costituzione siciliana del 1812. Essa fu concessa dal re Ferdinando III di Sicilia (già re Ferdinando IV di Napoli), su “suggerimento” di lord Bentick, plenipotenziario inglese nella Sicilia “britannica” e antinapoleonica e che precedette di ben 36 anni lo Statuto albertino. In essa si stabiliva tra gli altri articoli, il principio della libertà personale (vietava l’arresto), della libertà di stampa e, cosa veramente innovativa, quella dell’inviolabilità del domicilio e della posta. Ma tutto svanì e fu annullato dalle regole della Restaurazione sancite dal Congresso di Vienna che riportò l’Europa all’Ancien Regime. Nel definire i nuovi assetti politici fu deciso tra l’altro di  riportare sul trono di Napoli il re Ferdinando I, questa volta come re delle Due Sicilie ( per riaverlo pagò milioni di ducati , anche al Metternich), ma a patto che osservasse le direttive congressuali e che si impegnasse a reprimere qualunque rivolta tesa a sovvertire l’ordine costituito, pena l’intervento dell’esercito austriaco. La soppressione del Regno di Sicilia dopo settecento anni di vita e conseguentemente, del suo Parlamento rappresentò per i siciliani un duro colpo che radicherà nel loro animo quel sentimento antiborbonico che sfocerà nella rivolta del ’21 e porterà alla fatale rivoluzione del ’48. Sentimento, sottolineamo, che non fu mai antiaustriaco come in tanta parte degli altri Stati italiani dove si sviluppò la storia risorgimentale.       

mercoledì 24 giugno 2015

ThuleLibri per informare

ThuleLibri è il nuovo blog della Fondazione Thule Cultura (via Ammiraglio Gravina 95, 90139 Palermo), che si affianca al nostro sito www.edizionithule.it per proporre in tempo reale le novità editoriali, le recensioni, le presentazioni, gli avvenimenti, le iniziative, i premi e i concorsi, e riproporre altresì, attraverso l'Archivio Storico della F.T.C., immagini, recensioni e profili della vita culturale e dei libri di Thule, operante come noto dal 1971, fondata e diretta da Tommaso Romano, come associazione no profit. Preghiamo tutti di usare per le corrispondenze la mail fondazionethulecultura@gmail.com.

martedì 16 giugno 2015

Presentazione di "Hans Thorkild - Ritorno in Norvegia" di Roberta Strano

Mercoledì 24 giugno 2015 nella Libreria "Interno 95", via Dante 95, Bagheria, Giuseppe Bagnasco presenterà il libro di Roberta Strano "Hans Thorkild - Ritorno in Norvegia". Modererà Paola Galioto Grisanti. 
Letture dei brani a cura di Adele Musso. 

Presentazione di "Dentro le Quinte" di Lorenzo Maria Bottari



martedì 9 giugno 2015

Premio Nazionale di Poesia “Giacomo Giardina” XIV^ Edizione 2015

Il Circolo Culturale “Giacomo Giardina” di Bagheria, con il patrocinio del Comune di Bagheria, bandisce la quattordicesima edizione del Premio di Poesia intitolato all’ultimo dei poeti futuristi siciliani.
Regolamento
Art.1
Il concorso è riservato a opere inedite e si articola in:
Sez. A) Poesia in lingua italiana
Sez. B) Poesia in lingua siciliana
Set. C) Poesia d’amore (Targa M.llo Lo Iacono)
Art.2
I partecipanti possono concorrere con un massimo di due composizioni a tema libero ciascuna (max 40 versi).
Non è permesso ai vincitori della edizione precedente di partecipare nella stessa sezione.
Solo una delle cinque copie dattiloscritte e leggibili da presentare, deve riportare: indirizzo, recapito telefonico, indirizzo e-mail (per chi ne è in possesso) e la seguente dichiarazione firmata: "la poesia qui acclusa è frutto della mia personale creazione".
Si può partecipare a più sezioni, ma in questo caso le liriche delle diverse sezioni, devono essere inserite in distinte buste, sulle quali apporre la sezione di appartenenza all’interno dello stesso plico.
Art.3
Il plico contenente le opere deve essere inviato entro il 26 giugno 2015(farà fede il timbro postale) a:
Segreteria del Circolo Culturale “G. Giardina”, tredicesima edizione premio di poesia, via Passo del Carretto n.14, 90011 Bagheria (PA)
E’ ammesso anche il recapito a mano, tutti i mercoledì fino al 17 giugno 2015,ed ultimo giorno per il recapito a mano venerdì 26 giugno presso il domicilio di Villa Galioto, sita in Bagheria via Palagonia n.141,dalle ore 17.30 alle ore 18.30 .
Art.4
Le opere inviate non saranno restituite riservandosi l’Organizzazione del Premio di pubblicare, senza fine di lucro quelle premiate o meritevoli, senza compenso alcuno per gli autori.
Ogni partecipante risponde a norma di legge del contenuto delle proprie opere.
Art.5
La giuria, composta da docenti letterati e poeti, inappellabile e insindacabile nel suo giudizio, premierà i primi tre classificati per ogni sezione con la facoltà di assegnare segnalazioni di merito e conferire premi speciali.
Ai vincitori di ogni Sezione saranno assegnate opere bronzee del M/o Carlo Puleo.
Ai secondi classificati sculture in pietra dell’artista Giovanni Varisco.
Ai terzi tipolitografie del M/o Nino Bellia.
I premi se non ritirati resteranno a disposizione dell’Organizzazione.
Art.6
L’utilizzo dei dati, ai sensi della L.975/96, sarà fatto per tutte le occorrenze dettate dal presente concorso,
col silenzio-assenso del partecipante.
Art.7
La semplice partecipazione al premio implica l’accettazione automatica di tutte le norme del presente regolamento.
Al concorso non sono ammessi i soci del Sodalizio sia ordinari che onorari.
Art.8
La quota di adesione, in quanto parziale contributo per spese di organizzazione, segreteria e lettura è stabilita in Euro 10,00 per sezione e non sarà soggetta a rimborso in caso di violazione del precedente art.2 (mancata firma di responsabilità).
E’ consentito inviare ulteriori liriche aggiungendo alla quota ordinaria € 5,00 per ogni opera.
Il contributo in carta-moneta deve essere incluso nel plico in busta a parte non trasparente.
Art.9
La data ed il luogo della premiazione, che avverrà presumibilmente entro il bimestre settembre-ottobre 2015, saranno resi visibili sui seguenti siti internet dell’associazione culturale www.ggiardina.blogspot.com www.vincenzoaiello.com www.giovannimannino.blogspot.com
Solo i premiati saranno avvertiti per lettera o telefonicamente.

Per eventuali informazioni: Cell.320 4846294 – 338 6984310 – 339 5971902 – 091 8880598

lunedì 8 giugno 2015

Torino, convegno su: Araldica attualità e prospettive



Su Giuseppe Di Giovanni di Vittorio Riera

Due parole sull’indole ‘Santa’ di Giuseppe di Giovanni
pittore dell’ottocento palermitano

di Vittorio Riera

Che Giuseppe Di Giovanni (1814-1898), capostipite di una famiglia di artisti operanti lungo l’intero Ottocento e buona parte del secolo successivo, fosse d’indole buona, lo dimostrano i numerosi indizi che si ricavano dal saggio uscito per i tipi delle Edizioni Thule in occasione del bicentenario della nascitadel pittore (Vittorio Riera – Aldo Nuccio, L’Ottocento palermitano del pittore Giuseppe Di Giovanni (1814-1898) con cenni biografici curati dal figlio Salvatore. Palermo 2104.Presentazione di F. P. Campione e Postfazione di T. Romano).
Già il figlio Salvatore, nei brevi cenni biografici sul genitore premessi al saggio, ricorda come sino agli ultimi giorni della sua vita il pensiero andasse a Luigi Persico, ilbenefattore che lo aiutò economicamente“assegnandogli del proprio una pensione mensuale di 60 Ducati, trenta per lui, e trenta per la famiglia, fino a quando, per grazia sovrana, avesse conseguito una sufficiente pensione nel bilancio del Decurionato di Palermo”.
Lo scultore napoletano (1791-1860) non fu l’unico a volere premiare l’arte di un pittore che versava peraltro in disagiate condizioni economiche – sono, queste, parole, del figlio, – perché già, ancora prima del Persico, il conte Lucio Tasca aveva voluto incoraggiare il giovane artista chiamandolo assieme ad altri a decorare il suo palazzo di via Lincoln oggi non più esistente.
Ancora più significativo il necrologio apparso nella“Sicilia Cattolica” del 2-3 giugno 1898, lo stesso giorno della morte del DiGiovanni. Ecco come il pittore veniva ricordato: «Come padre di famiglia, il Prof. Di Giovanni fu esemplarissimo, e così pure si rese modello per religiosa virtú e per divozione singolare. Bisognava vederlo quell’uomo tutti i giorni, di buon mattino, nella chiesa del Monastero di Santa Caterina per ascoltare la Messa; tutte le sere nelle chiese dov’era esposto il Santissimo Sacramento per l’adorazione delle Quarantore. Ed a tanta virtú, a tanta divozione, tutti, tutti restavano edificati.»
Così come non si può restare ‘edificati’ allorché apprendiamo che non esitava a restituire il denaro ricevuto per opere che per un motivo o per un altro non era riuscito a realizzare. E possiamo immaginare con quale riservata sofferenza egli doveva togliersi denaro da tasche che non ne contenevano molto. Questo stile di vita non poteva suscitare che simpatia e ammirazione. Non deve stupire allora se, lui in vita, gli vengono riservati versi che esaltano assieme all’artista, la bontà d’animo, quella bontà così descritta da certo Paolino Nicastro in una lettera inviatagli nell’agosto del 1859 mentre il pittore era a Napoli:“Spero che Dio vi assisterà, perché voi siete buono, anzi ottimo sotto tutti i riguardi.” Non sappiamo il motivo per il quale questo sconosciuto ammiratore invochi addirittura Dio perché vegli sul Di Giovanni e ne preservi il suo essere ‘ottimo sotto tutti i riguardi’. Certo è che gli indizi di cui si diceva all’inizio convergono verso il ritratto di un artista che dell’onesta aveva fatto il suo stile di vita e di un uomo dall’indole buona anzi ‘santa’ come si legge in trafiletto apparso in “Letture domenicali” del 19 giugno 1898. Più precisamente così scriveva il Settimanale cattolico: “Fate suffragi a Giuseppe Di Giovanni, gran pittore, vissuto e morto in fama di santità, decano della Congregazione di Maria Santissima del Rifugio”. (Si ringrazia qui l’architetto Luigi Albanese per l’importante segnalazione fornitaci). Vittorio Riera 

martedì 2 giugno 2015

Ricordo di Umberto II ultimo Re d'Italia



di Cristina Siccardi


Nel 1946  nasceva la Repubblica e andava in esilio volontario Umberto II di Savoia (1904-1983). Sono trascorsi 110 anni dalla nascita dell’ultimo Re d’Italia, ma i media tacciono e con loro i politici repubblicani: troppo signore e troppo cattolico per parlarne…
Dopo i brogli elettorali del referendum istituzionale del 1946 (al riguardo esiste una nutrita bibliografia storiografica), le truppe polacche del generale Władysław Anders, che ebbe un ruolo fondamentale nella liberazione dell’Italia dai nazisti, offrirono la loro collaborazione, così come l’Esercito regio e l’arma dei Carabinieri, ad Umberto di Savoia, che «come molti sovrani», sta scritto nel bellissimo libro di Luciano Garibaldi Gli eroi di Montecassino. Storia dei polacchi che liberarono l’Italia (Oscar Mondadori), «ben diversi da tanti presidenti e dittatori, non volle però versare il sangue del suo popolo per conservare il trono. Finirono entrambi la loro vita in esilio, ma la loro coscienza era tranquilla». Umberto II, scegliendo l’esilio, risparmiò all’Italia una seconda guerra civile. Pio XII dimostrò la sua benevolenza ad entrambi: ad Umberto II, espropriato dallo Stato italiano di tutti i suoi beni, donò una somma di denaro per i primi duri tempi di Cascais; mentre ricevette in una commossa udienza il generale Anders, al quale, già nel 1944, aveva consegnato la medaglia di Defensor Civitatis.
L’aereo che condusse in esilio Umberto II decollò alle 16,10 del 13 giugno 1946, mentre dalla torre del Quirinale un graduato ammainava il tricolore con lo scudo sabaudo… Ben altro futuro si prospettava per l’erede al trono di Casa Savoia quando cento e uno salve di artiglieria, nel secolare parco del castello di Racconigi (CN), salutarono il Principe nel giorno della sua nascita: era il 15 settembre 1904. La giornalista Matilde Serao scriveva sulle colonne de «Il Mattino»: «Che chiederemo a Dio, che chiederemo alla Provvidenza, per te, per adornare la tua vita?… È vero, il mondo ha sete di pace, ma la pace non basta né all’uomo, né alla società, perché l’anima umana si elevi e si esalti in volo d’aquila. O piccolo Principe, il mondo ha sete di bene: il mondo ha orrore del male possa tu, o neonato di Elena e di Vittorio, o futuro Re d’Italia, diventare forte, ma restare buono; diventare un grande per te, per la tua nazione, per i tuoi tempi, ma restar buono. Rimanga in te, Principe, l’orrore del male; rimanga in te la innata invincibile incapacità del male: rimanga in te, o Re dei tempi novissimi, la savia innocenza del fanciullo». Umberto rimase «buono» e con l’«orrore del male», nonostante le guerre mondiali, i totalitarismi, la scristianizzazione dell’Europa, la solitudine della sua drammatica esistenza.
Egli, nella quiete di Villa Savoia, dove i reali si erano trasferiti per essere distanti dal Quirinale (loro precedente residenza), non si trovò a vivere in una corte, ma in un focolare domestico, fra la gioia e la protezione della materna regina Elena. Tuttavia il clima mutò allorquando iniziò gli studi: Vittorio Emanuele III (che stabilì sempre un rapporto di soggezione e sudditanza nei confronti del figlio, la cui simpatia e prestanza fisica creavano fra loro un enorme distacco) decise che occorreva formarlo militarmente: disciplina, caserma, accademia, esercitazioni; fu così posto sotto la direzione dell’ammiraglio Bonaldi, il quale piegò il suo spontaneismo ad un ferreo autocontrollo, che divenne il filo conduttore di tutta la sua vita. Umberto non andrà al funerale di Attilio Bonaldi: un segnale importante della sua personalità, che non fu mai ipocrita, neppure per interesse della propria immagine pubblica; dissimulatore non riuscirà neppure ad esserlo nella vita coniugale.
A Torino visse i suoi anni spensierati dal 1924 al 1929. Amava gli sport, il ballo, le conversazioni, la compagnia di amici e amiche in un giovane clima goliardico… Ma venne richiamato all’ordine dai suoi doveri, inoltre era giunto il tempo si sposarsi. Il matrimonio (8 gennaio 1930) fra Umberto e la principessa belga Maria José, assai fiera delle simpatie socialiste dei genitori, fu combinato a tavolino. Due culture differenti e opposte quella del Belgio e quella italiana.
Umberto manifestava la sua religiosità apertamente. Peccato ed espiazione gli erano sempre dinnanzi. Significativa, negli anni torinesi, la sua Messa solitaria alle sette di mattina della domenica, al Cottolengo. Da ricordare anche le sue partecipazioni alle processioni religiose, dove indossava il saio, e i pellegrinaggi a Santiago di Compostela, a Nazaret, a Betlemme…
Mussolini lo detestava, lo temeva per il consenso che mieteva intorno a sé, per tale ragione l’Ovra (polizia segreta del Regime) aveva gli occhi puntati su di lui e seguiva tutti i suoi spostamenti. Nacquero così calunnie e pettegolezzi infamanti sull’erede al trono.
Arriva l’8 settembre del 1943: Umberto è contrario a lasciare Roma per raggiungere il Sud, tuttavia Vittorio Emanuele III non transige. Poi l’abdicazione… ma la Monarchia non piace né a De Gasperi, né agli Stati Uniti, tantomeno ai comunisti, che si sono “distinti” nella lotta partigiana e perciò hanno parecchia voce in capitolo, tanto che l’operazione “brogli” sul referendum istituzionale viene manovrata da Palmiro Togliatti in persona, che interviene direttamente per ritardare il rientro in Italia dei reduci dai campi di prigionia russi. Non possono votare neppure coloro che si trovavano ancora nei campi di prigionia o di internamento negli altri Paesi. Inoltre sono escluse dal voto la provincia di Bolzano con Bolzano, la Venezia Giulia con Gorizia, Trieste, Pola, Fiume, Zara, zone controllate o dall’autorità militare alleata o dalla Jugoslavia di Tito. Insomma, si contano 2 milioni di voti sottratti alla Monarchia. Che cosa importano 2 milioni di voti ai “democratici” Togliatti e De Gasperi?
Il regno di Umberto II durò dal 9 maggio al 2 giugno, 23 giorni appena. L’esilio 37 anni. Trovò una sistemazione a Cascais, sulla Costa del Sol, a circa 30 chilometri da Lisbona. Si faceva chiamare Conte di Sarre. Non andava mai nei ristoranti eleganti, cercava trattorie e pizzerie. Scelse un ritirato stile di vita, quasi eremitico fra libri, ricordi e i fedeli amici che andavano a trovarlo a Villa Italia, dove trovava spazio una profonda vita di Fede praticata, nella continua ricerca della modestia, della preghiera, della mortificazione. Non si considerava ex Re d’Italia, ma un esiliato e viaggiava con un passaporto da apolide, perciò, ad ogni frontiera, veniva invitato al posto di polizia per accertamenti.
Incarnò il suo ruolo secondo uno stile personale, improntato alla riservatezza, alla discrezione, ad un codice etico e religioso di rigorosa severità interiore e di grande dignità. Il Presidente della Repubblica, l’ex partigiano Sandro Pertini, gli fece sperare che un giorno sarebbe tornato in Italia e che sarebbe morto nel proprio Paese… danni e beffe da quella beffarda e sgangherata Repubblica, nata da un vero e proprio colpo di Stato.
Il Re tornò a parlare agli italiani in un’intervista televisiva del 1976. Nessun accento polemico, ricordò soltanto che Carlo Alberto rimase in esilio tre mesi, «io trent’anni», un nodo gli serrò la gola e con la mano fece cenno di non voler aggiungere altro. Struggente rivedere quella testimonianza di un galantuomo che mai si macchiò di corruzione, di menzogna o di truffe, ma visse in maniera evangelica il suo dovere di stato.
Profondamente addolorato dai mondani stili di vita dei figli e della moglie, si spense il 18 marzo del 1983, con la parola Italia sulle labbra, all’età di 79 anni nell’Ospedale Cantonale di Ginevra. Il 24 marzo la sua salma trovò dimora nell’Abbazia di Hautecombe, in Savoia. Per le sue esequie erano presenti diecimila persone, ma neppure un ministro italiano presenziò e la RAI non trasmise la diretta televisiva; l’unico segno di lutto fu portato dai calciatori della Juventus per volontà di Giovanni Agnelli.
Umberto II ha voluto che nella propria bara fosse riposto il sigillo reale, un grande timbro che si trasmette di generazione in generazione quale simbolo della legittimità nella linea dinastica; così facendo non passò nessuna consegna ai suoi eredi.
Questo sovrano signore, che non volle spargere altro sangue nella sua amata terra, ebbe una grande devozione per il Sommo Pontefice. Appena nominato Luogotenente (8 giugno 1944) rese omaggio a Pio XII; il 14 maggio 1982 incontrò Giovanni Paolo II a Fatima e al Papa donò, per volontà testamentaria, la Sacra Sindone.
Fra le carte di Re Umberto II si rinvenne nella sua scrivania uno scritto di suo pugno, che riportava un passo della lettera di san Paolo ai Corinzi (1 Cor 4, 3-4), ricopiata in latino e tradotta in italiano: «Mihi autem pro minimo est ut a vobis iudicer (aut ab humano die). Sed neque meipsum iudico. Nihil enim mihi conscius sum: sed non in hoc iusticatus sum; qui autem iudicat me, Dominus est», «Poco importa a me d’essere giudicato da voi (o da un tribunale di uomini)… né mi giudico da me stesso, poiché non ho coscienza di aver commesso alcunché; ma non per questo sono giustificato: mio giudice è il Signore!».
da: www.riscossacristiana.it

Il Caravaggio a Caltanisetta


Ricordo di Pino Giacopelli

Domenica 31 ultimo scorso, nel salone d'Italia di Monreale, con l'intervento del Sindaco, delle Autorità e della famiglia con numerosi amici ed estimatori presenti, si è ricordata la figura e l'opera del poeta e saggista Pino Giacopelli, nel primo anniversario della scomparsa. Pubblichiamo l'intervento del Maestro Salvatore Caputo che ne ricorda la personalità. Nei prossimi giorni sarà disponibile l'intervento di Tommaso Romano quale ulteriore apporto alla manifestazione su invito della famiglia.

Come saprete, sono un pittore, quindi non è con le parole che sono abituato ad esprimere le mie emozioni. Per questo il mio discorso sarà breve, ma per me sicuramente intenso: è, infatti, l’espressione del mio affetto e della mia stima immutati per Pino.
Ogni commemorazione ha un gusto agrodolce per chi – come me oggi – è chiamato a ricordare un amico che non c’è più. Dover ripercorrere le vie della memoria in assenza di chi ha fatto parte della nostra vita è, infatti, un compito ingrato, perché riapre ogni volta una ferita profonda. Ma il compito è ingrato solo in parte, giacché, d’altro canto, ci permette di celebrare ancora una volta non il passato, ma il presente; non il vuoto ricordo, ma la tangibile presenza, la fruttuosa eredità – umana e culturale – di chi, come Pino Giacopelli, ha saputo lasciare un segno importante dietro di sé. Ed è appunto con questo spirito che mi accingo a celebrare il mio amico, qui, oggi.
Ho conosciuto Pino negli anni ’80 del secolo scorso, qui a Monreale. Di lui mi colpirono subito l’entusiasmo, l’umiltà e l’umanità. Intellettuale impegnato, Pino non si limitava a scrivere le sue – belle ed intense – poesie: si spese sempre moltissimo per la sua città d’adozione. Era un uomo che metteva tutta l’anima in quello che faceva, e questo lo portò, oltre all’impegno culturale, anche a quello politico. Quella fu una stagione intensa, sia per Monreale che per i numerosi artisti coinvolti nelle continue, qualificate e qualificanti attività frutto delle idee di Pino.
Furono gli anni delle estemporanee di pittura, dei premi di poesia, di una lunga serie di manifestazioni improntante a una magnifica sinergia di arti, in cui il dato visivo, il suono e la parola trovavano ognuno un suo posto e si mescolavano a creare momenti di rara intensità. Questi sono i primi ricordi che ho di Pino, di lui come organizzatore, o – meglio ancora – come agitatore culturale.
Le prime collaborazioni sono state alcune mostre sia estemporanee che collettive, organizzate dal nostro amico. Ma non erano le solite mostre: erano occasioni di incontro, di confronto, e anche di goliardia. Da questi primi contatti, a poco a poco le nostre affinità divenivano sempre più evidenti. Ma Pino, ovviamente, non si limitava ad organizzare mostre, bensì manifestazioni ben più articolate e coinvolgenti. Coinvolgenti nel senso che, anche se si trattava di un premio letterario – e mi riferisco al “Premio Giacalone”, storico premio da lui organizzato – coinvolgeva anche artisti di tutte le tendenze e le specialità, nel senso che le serate, lunghe e piacevoli, vedevano momenti di letteratura, momenti di poesia, momenti di musica ed a volte anche intrattenimento da parte di attori conosciuti e bravi, che partecipavano a questa manifestazione per l’amicizia che li legava a Pino Giacopelli.
Il Premio Giacalone, di cui mi onoro di aver realizzato un anno (nel 1988) le scenografie, vedeva la partecipazione di qualificatissimi autori sia a livello nazionale e a volte anche internazionale. Il tutto era condito dall’affabilità e dalla innata capacità comunicativa di Pino, che rendeva il tutto armonioso e piacevole. Per dire ancora dei suoi molteplici interessi, voglio ricordare che quello stesso anno egli si fece promotore presso l’Amministrazione Comunale della realizzazione di una medaglia commemorativa che realizzai, esaltando i simboli di Monreale, e della quale penso sia una tra le opere medaglistiche mie più riuscite. La rete di relazioni e collaborazioni che Pino riusciva a tessere fece sì che si potè realizzare una bella cartella di serigrafie – “Fontanalia”, ispirate ovviamente a Monreale – che ha visto la luce in quel periodo e che ha preso il volo per tutte le parti del mondo.
La vitalità vulcanica di Pino lo portò anche a cercare nella zona più antica di Monreale, cioè la Ciambra, un piccolo locale per farne una galleria d’arte. In questa sede – La Ciambrina, appunto – furono tenute diverse mostre, e tra le tante anche una mia personale. In quest’occasione Pino si adoperò per fare di una semplice mostra un evento, coinvolgendo un gran numero di persone e personalità.
Anche l’occasione della presentazione di un libro diventava il pretesto per passare una magnifica giornata insieme. Mi ricordo, infatti, di un piacevolissimo giorno che Pino ci fece trascorrere in un bell’agriturismo, di cui non ricordo né il nome né la collocazione, in occasione della presentazione dell’antologia poetica  “Confetto rosso”, per cui avevo realizzato la copertina. La giornata trascorse tra gli interventi, le battute, le poesie degli intervenuti – poeti, pittori, amici – presenti all’evento. Ricordo con immenso affetto quei momenti, che furono una delle tante occasioni che cementarono la mia amicizia con Pino.
Un’altra volta, Pino organizzò una bella manifestazione artistica in una località del trapanese, Triscina. L’evento era, per così dire, bifronte. Da una parte, ogni pittore portò delle opere per fare una mostra nei locali di un villaggio turistico del luogo. Dall’altra, vi fu una sorta di happening, un’estemporanea da cui nacquero delle opere ispirate agli “umori” del posto in cui stavamo trascorrendo quei giorni. Questa fu l’occasione per stringere nuovi rapporti. Anche col proprietario del villaggio si instaurò da subito una bella sintonia. L’uomo, dalla simpatia travolgente, era anche lo chef della struttura che ci ospitava, e riusciva sempre a coinvolgerci e a farci veramente stare in armonia grazie alle grandi tavolate, per le quali preparava spesso enormi pesci riccamente decorati. E si passavano pomeriggi e serate a discutere, chiacchierare e ridere.
Insomma, ogni evento – che fosse un premio, una cena o un concerto – era, soprattutto, un’occasione per passare del tempo fra amici, chiacchierando amabilmente ora del serio e ora del faceto, per immaginare nuove future collaborazioni, con l’attenzione leggera che Pino sapeva dare alle cose. Queste erano le cose che Pino sapeva organizzare.
Forse, però, il ricordo più caro che serbo di Pino e di tutta la sua famiglia erano le magnifiche cene a casa Giacopelli, preparate con amore e grande perizia culinaria dalla moglie Lydia, occasioni di fervido scambio culturale ma, soprattutto, piacevolissimi momenti di armonia, di “eufonia”, per così dire, tra persone che condividevano da angoli diversi lo stesso amore per la cultura e l’arte. Oltre agli amici più stretti, fra i commensali si potevano incontrare registi, giornalisti, attori. Fu, appunto, durante una di queste cene che incontrai con grande piacere il poeta Vittorio Vettori e Livia Pomodoro, amici di Pino. Ma il “personaggio centrale” di queste occasioni conviviali era certamente Mimmino, il gatto di casa Giacopelli, amato quasi come un figlio, le cui dimensioni considerevoli incutevano in tutti noi un certo rispetto.
Ed è così, con un sorriso, che mi piace ricordare Pino. Perché questo sorriso è l’evidente segno di quanto di buono questo mio amico è riuscito a regalare a tutti e a ognuno di noi. Solo chi lascia qualcosa di veramente profondo, infatti, solo chi lascia – assieme all’innegabile vuoto – un grande calore nei nostri cuori, può essere ricordato con la leggerezza di un sorriso. E Pino, sicuramente, questo onore se l’è ampiamente guadagnato.

Grazie, Pino.

Divorzio breve, passo avanti della rivoluzione.

di Carmelo Bonvegna

 Col presente “foglietto” i “5” amici lettori sono costretti a rileggere la “premessa” di un altro mio scrittarello intitolato “Prove di Rivoluzione di Pisapia col Gay Pride” del luglio 2011. Se lo ripeto qui, è perché ripetitiva e monotona, come le cattive abitudini, è la Rivoluzione. Mi scuso ma “repetìta iùvant”.
Studiosi cattolici col termine “Rivoluzione” intendono quel processo negativo che nasce dalle tendenze disordinate dell’animo dell’uomo, conseguenza del peccato originale; diventa a poco a poco abitudine, costume prima nel singolo individuo, poi pensiero e filosofia nelle società e, quindi, legge codificata; essa tenta di sovvertire i Dieci Comandamenti e il Diritto naturale e di instaurarne altri diversi e contrari; ovviamente si oppone anche alla Chiesa e alla sua Dottrina. La Rivoluzione è sempre esistita e si è manifestata in vari modi a seconda delle epoche, degli uomini e delle circostanze; ma negli ultimi tempi, a partire dall’Illuminismo (sec. XVIII), la sua presenza è diventata più esplicita e pressante anche col sorgere della Massoneria in Inghilterra (1717) e il suo diffondersi in Europa, e l’instaurazione dei regimi demo-liberali nell’800 che hanno osteggiato anche se tollerato la Religione Cattolica e quelli social-comunisti e nazional-socialisti, nel 900, che l’hanno perseguitata fino a spargerne il sangue.
Finito, finalmente, il regime sovietico per suicidio del Comunismo (1989) e con esso la persecuzione, diciamo, “diretta” che ha prodotto un numero di Martiri  mai visto prima nella storia, la “Rivoluzione” in Occidente si è fatta più subdola e, forse, più pericolosa perché è “ritornata” alla originaria insidia colpendo con forza maggiore “in interiore homine” (S. Paolo/S. Agostino) cioè nelle tendenze e nelle passioni in cui l’uomo moderno europeo è più vulnerabile; in questa impresa, sempre in evoluzione, oggi si serve della filosofia del “relativismo”, esaltata apertamente da tanti cattivi maestri di pensiero (Joseph Ratzinger, nel suo ultimo discorso da cardinale , 18-04-2005, parlò, a ragione, di “dittatura del relativismo”) e che non distingue più il bene dal male e, pertanto, conduce i singoli e le società alla confusione, all’indifferenza e al nichilismo. Ed è ciò che vediamo ogni giorno. La ricaduta di tale “filosofia” sulla Famiglia è devastante: contro questa, infatti, specie dal Sessantotto in poi, la Rivoluzione si accanisce con un odio mirato, frontale e massiccio.
La presente premessa può servire da introduzione a tutti gli eventi “storici” negativi, piccoli o grandi, che ci passano davanti; uno di questi, oggi, si chiama “divorzio breve” (votato il 22-IV-2015), l’ultimo (per ora!) di una serie che, schematizzando, facciamo partire dalla Rivoluzione del 1968.
Il “1968” io lo vidi esplodere  mentre ero all’Università Cattolica e ne sono testimone diretto perché vi presi parte in prima persona. Fu un evento epocale che nella sua fase “calda” si protrasse fin quasi alla fine degli anni 1970 e rappresentò lo snodo di tante forze negative incubate in precedenza nella società ormai “post-cristiana”. Il “68” fu in gran parte “radical-borghese” ed ebbe due “anime” conviventi: una “politica” che si connotò quasi dall’inizio come marxista-comunista e un’altra detta “culturale” o “sessuale” o del “costume”; la “prima”, che tentava di instaurare il comunismo, fallì e perché arrivava in ritardo mentre le nazioni dell’Est cercavano di scuoterne il giogo (Budapest 1956, Praga 1968) e, soprattutto, per la refrattarietà del popolo italiano che non lo ha mai voluto; la “seconda”, invece, irruppe e vinse su tutta la linea e trascinò molta parte della società, compresa la cattolica. È questa che chiamiamo “Rivoluzione culturale del Sessantotto” e contro cui mi schierai fin da subito.
In estrema sintesi, il salto di qualità allora fu il seguente: cose che prima erano riprovate come “cattive”, dopo si ritennero “buone” e, di conseguenza, se ne pretese la legalizzazione da parte dello Stato; esse, preparate in tanti anni di corruzione, vennero salutate come frutto di “libertà”, “progresso”, “civiltà”, “uguaglianza”, “democrazia”, liberazione dal “medioevo”, dalla “reazione”, dal “fascismo”, etc. I risultati immediati furono divorzio (1970) e aborto (1978): due colpi mortali, l’uno alla Famiglia, l’altro alla Vita umana; per molti (specie riguardo al divorzio) ritenuti “necessari” e “inevitabili” per “risolvere” i “casi pietosi”  per altro moltiplicati e gonfiati a dismisura dalla propaganda; sicuramente, però, costituirono il varco attraverso cui passò e passerà – salvo miracoli – tutto il “resto”! Da quel momento la Rivoluzione ha acquistato vigore e velocità scivolando su un piano inclinato senza freni e senza “paletti”, immaginati dai benpensanti, nella furia di inventare, stimolare e legalizzare le spinte, le tendenze, le pulsioni, i desideri, le passioni e gli stessi vizi dell’uomo.
Aperta la breccia, questa fatalmente diventa voragine senza limiti da cui avranno diritto a passare infiniti “casi pietosi” (“mia moglie/mio marito russa/non mi piace lavare i piatti etc., voglio il divorzio!”): è inutile illudersi, la Rivoluzione maneggia una “materia” delicata e “pericolosa”, quindi non può avere fondo e – stando così le cose – non ne avrà per secoli!
Ecco, in questa “corsa”, il “divorzio breve” è solo una tappa prevista e – sicuramente – presto sarà superata dal “divorzio lampo”, sorta di “usa e getta” di anime e corpi di uomini, donne e bambini, del resto già in progetto con le “unioni di fatto” o “a tempo” o “a prova”; questa “fase” si concluderà, poi, con la cancellazione del matrimonio stesso, nel frattempo reso “banale” e “inutile” dalla dissoluzione completa della società. Così, il “Padrone del mondo” (è l’Anticristo?) che presiede a tale dissoluzione, tenterà di ridurci ad atomi, individui soli, divisi, instabili, poveri e disperati dopo averci fatto assaporare la effimera ed egoistica “libertà” di quelle conquiste dette “civili”. E difatti tale suo dominio viene perfino applaudito  con la frenesia di sudditi stolti i cui figli saranno i primi a pagare il disordine da essi coltivato: alla Camera dei Deputati (è la stessa “Aula sorda e grigia” del Novembre 1922) il “divorzio breve” ha ottenuto ben 398 sì, contro appena 28 no, una maggioranza “sovietica”. E dire che, mentre questi “statisti” – nel silenzio assoluto dei mezzi democratici di informazione – votavano il “passo avanti” contro la Famiglia, nel sole di piazza San Pietro, il buon Papa Francesco, di cui coloro ogni tanto fanno finta di dire un gran bene, parlava della santità e bellezza del matrimonio tra un uomo e una donna!
Alcune riflessioni e domande finali:
1) è evidente che quando si tratta di andare contro il Diritto naturale, tutti i partiti sono coalizzati; hanno votato no solo Lega  Nord e gli on.li Roccella, Meloni, Gasparri, Marinello, Pagano: coraggiosi ribelli agli “ordini” impartiti dalla piramide massonica?
Fra i “398” c’è qualcuno che avrà il coraggio e il cattivo gusto di chiedere il  mio voto alle prossime elezioni? Attenzione, io ho buona memoria!
Ma cosa ci guadagna la Rivoluzione nel sovvertire il Diritto naturale? La risposta/spiegazione non può che essere “religiosa”: chi, al vertice, organizza il disordine nel mondo, non ha guadagno “materiale” o in moneta sonante. Il suo è soltanto “guadagno”  “spirituale” e “metafisico”; esso non consiste nella liberazione delle persone in difficoltà (tale “liberazione” è una favola per ingenui: a costui non ha mai importato nulla del “dolore” vero del prossimo!) a lui basta la soddisfazione superba, diabolica, prometeica di contrastare il disegno di Dio; però succede che, non potendo aggredire Dio, puro spirito che non vede e non tocca, si rifà sulle sue creature e, soprattutto, sull’uomo che ne è immagine privilegiata: in passato, a tal proposito si usavano parole come “mysterium iniquitatis”; ora, però, il vocabolo “inìquitas”, troppo duro (in latino poi!) è passato di moda, ma il “mistero del male” resta tutto intero e chiede comunque un tentativo di spiegazione. So che l’argomento diventa “difficile” anche per molti buoni fratelli non più abituati a simili discorsi; sicuramente fa sorridere gli intellettuali boriosi; ridono in molti soprattutto se politici, oscuri esecutori di ordini calati dall’alto. Io invece immagino che i loro “superiori”, assisi nei sinedri delle logge, non ridano affatto; costoro, anzi, credono in Dio (anche il Diavolo ci crede, e come!) ma Lo odiano insieme al suo Disegno, al suo Vangelo, alla sua Religione, alla sua Chiesa Cattolica e, in definitiva, all’uomo stesso.
 Pertanto, se c’è qualche volenteroso che voglia opporsi alla Rivoluzione, non deve far altro che “il  contrario della Rivoluzione” come diceva Joseph De Maistre ai primi dell’800, cominciando a contrastare le tendenze disordinate del proprio cuore: è un esercizio spirituale di cui, data la “materia” montante delle “maggioranze” nel mondo molle di oggi, diviene difficile perfino parlare con gli amici. Tuttavia questo è il solo modo per l’inizio di un cambio di rotta: le impreviste, bellissime insorgenze di popolo in occasione del referendum sulla “legge 40” (12/13-VI-2005) voluto dalle forze anticattoliche e da queste perso rovinosamente e il “dies familiae” (15-V-2007) che vide a Roma presso la Basilica di San Giovanni due milioni di persone, sono segnali di un tale possibile “cambio”, ma possono venire solo dopo una “metanoia” spirituale e personale.
Ricordo, qui di passaggio, che nel grandioso raduno di Roma, Matteo Renzi disse: “non c’è bisogno di essere cattolici per difendere la famiglia”; ma oggi, forse ha cambiato idea e, stando ad “Avvenire” (3-V-2015), avrebbe  dichiarato: “Il divorzio breve è legge. Un altro impegno mantenuto. Avanti, è la volta buona”. Spero che ciò non sia vero ché, altrimenti, quando il giovine cattolico Renzi, manderà anche a me la classica letterina elettorale con “Caro amico…” saprò cosa fare!

Il sud alza la testa !


La fine della rappresentanza in Italia

di Domenico Bonvegna

Tra le grandi fratture che segnano il nostro tempo, c’è sicuramente la crisi della rappresentanza. Ormai da troppo tempo c’è tanta gente che non si reca più a votare perché non trova forze politiche e candidati credibili. Gli italiani hanno perso la fiducia nella politica, e non si sentono più rappresentati.
Ma non è stato sempre così per De Rita e Galdo, nel libretto “Il popolo e gli dei”, edito da Laterza, raccontanola politica degli anni cinquanta, sessanta e settanta, quando gli italianiandavano a votare in massa, la politica appassionava e coinvolgeva, generava appartenenza quotidiana, nella durezza dello scontro tra le diverse famiglie-comunità dei partiti, anche perché riusciva a stimolare la crescita, individuale e collettiva, verso un’emancipazione nella scala sociale. La politica era un motore delle aspettative della società, includeva i cittadini con le loro diversità economiche e sociali, faceva sognare tutti e ciascuno di potere diventare altro da quello che si era. Una volta che si è rotto questo meccanismo, il distacco è stato inevitabile e tutti gli indicatori lo registrano”.Nonostante la cronica instabilità politica, che vedeva all’opera un governo all’anno, la quasi totalità degli aventi diritto al voto accorreva alle urne, il 94 per cento alle politiche, 92 per cento alle amministrative, l’87 per cento alle europee. Mentre oggi alle ultime elezioni politiche del 2013, oltre 14 milioni di italiani hanno scelto di non recarsi alle urne, con un aumento di oltre 3 milioni in appena cinque anni, mentre gli aventi diritto al voto, nello stesso periodo, sono aumentati di 330.000 unità.“Laddove eravamo i primi, siamo diventati gli ultimi”. Nei giornalisti affiora una certa simpatia per laI Repubblica.
Una volta “un dirigente politico, nei partiti che funzionavano, veniva selezionato dal conflitto interno ed esterno al proprio mondo di riferimento, cresceva nelle palestre delle sezioni, dei consigli comunali, delle assemblee rappresentative, dal più piccolo degli enti locali fino al parlamento”. Oggi può capitare ad un dirigente politico di ritrovarsi direttamente al governo “dopo essere passato per qualche salotto televisivo”.
 Ormai il discredito dei partiti e di conseguenza della politica, ha raggiunto livelli alti, “la furia popolare ha travolto la credibilità dei partiti, dei loro apparati e dei rispettivi dirigenti”. Il disgusto e la rabbia verso la politica è un sentimento diffuso nella percezione collettiva. “E’ un universo di raccomandati, dove non si fa carriera per merito, per competenza e per capacità”. A questo proposito i due economisti scrivono che esiste “una rabbia generalizzata che colpisce più della metà degli italiani, al primo posto, tra i focolai del malcontento di moltitudine, torna il tema del disprezzo nei confronti della politica e l’indignazione per i comportamenti del pezzo di establishment che gravita tra le istituzioni e i partiti: l’80 per cento degli italiani si sente pronto a partecipare spontaneamente a manifestazioni contro i privilegi della classe politica e dei rappresentanti istituzionali”.
Tuttavia la politica ha bisogno di autorevolezza, non di autoritarismo, “E un valore etico che non è riconducibile soltanto al fondamentale comandamento di «non rubare»: senza un progetto, un orizzonte di lungo respiro, la politica diventa solo gestione dell’esistente e scivola nella dimensione del potere fine a se stesso”.
De Rita e Galdo concordano che tra le varie cause della crisi politica c’è soprattutto “l’eclissi di leadership”, un fenomeno in evidente crescita, che non può essere sostituita dal “salvatore della patria di turno, dall’uomo della provvidenza”. Ho presente l’interessante ciclo di conferenze organizzate qualche anno fa dall’ex sottosegretario Alfredo Mantovano a Lecce, dal titolo, “Le sfide della leadership”. L’ex politico pugliese intendeva dare delle risposte precise su che cosa significa leader di una comunità, su come si formano le guide nei vari settori della vita quotidiana, quale deve essere il loro ethos e quali strumenti per comunicare.
I due giornalisti smontano anche ilfalso mito della società civile. “Chi conosce la società italiana sa bene quanto il corporativismo, grande e piccolo, e la tendenza a fare cordate o tribù, appartengono ormai agli elettori come agli eletti - pertanto secondo De Rita e Galdo- la pomposa mistica della società civile, come serbatoio di eccellenze da prestare alla vita pubblica, non ha alcun fondamento nella realtà”.
Non è facile riaccendere la scintilla della rappresentanza negli italiani, La politica ha bisogno di stare nella realtà delle cose, con una cultura di governo pragmatica e realista, e allo stesso tempo di riscoprire il fascino di un sogno collettivo, del pathos di una condivisione nazionale, di un impulso alla crescita del corpo sociale. Se resta piatta e vuota, come appare oggi, il suo primato spinge alla regressio­ne e non alla propulsione, e nell’ombra di questo arretramento si nascondono le peggiori insidie del populismo, dell’invidia sociale e del livellamento, che si contrappongono a una sana competizione e a una crescita verso l’alto della società. Per funzionare, secondo una efficace dinamica di rappresentanza democratica, la politica ha una necessità vitale di organizzazione, ancorata al progetto e al territorio”.De Rita e Galdo ci tengono a precisare che non intendono riproporre la politica della I Repubblica. Però sono contro quei politici che passano “da un talk show televisivo a un altro senza soluzione di continuità”. Oppure qulli che assomigliano a degli“attori sempre impegnati a studiare la parte da interpretare, padroni di un territorio un tempo riserva esclusiva di professionisti dell’intrattenimento e di cantanti, vengono naturali alcune domande: ma dove trovano il tempo per metabolizzare un pensiero, un’idea? E il tempo per accorgersi di quanto accade realmente attorno a loro, nella realtà del quotidiano e non nella finzione di uno studio televisivo?”Chissà se hanno il tempo di leggere un libro, di studiare. Del resto questa è una società impersonale, dove l’istruzione e la cultura non sono considerate priorità, il linguaggio si impoverisce, i sentimenti siraffreddano fino ad esprimersi nella sintesi internettiana del ‘mi piace’. Siamo alla fine della storia, della politica? L’unica via per uscire dalla crisi della rappresentanza è quella del ritorno della politica, con profonde radici culturali, per sconfiggere il virus del populismo. Papa Francesco nel suo primo discorso del suo pontificato ha fatto riferimento esplicito alla necessità di ricostruire “la fiducia tra il vescovo e il suo popolo: ‘camminiamo insieme, vescovo e popolo…’, Sono parole valide anche per la politica.