lunedì 30 novembre 2015

Dopo Parigi, l'Occidente e' disposto a combattere e morire?

di Domenico Bonvegna

Dopo i gravi fatti terroristici di Parigi del 13 novembre scorso, è necessario fare alcune riflessioni, per capire cosa siamo e soprattutto se siamo disposti a combattere. Dopo le prime inevitabili emozioni e reazioni alla mattanza di uomini e donne del jihadismo islamista nelle strade di Parigi, molti hanno gridato, “Siamo in guerra”. L'hanno dovuto ammetterlo perfino i più acerrimi utopisti, aggrediti all'improvviso dalla realtà, come il presidente Francoise Hollande. Passato qualche giorno, gli opinionisti, i politici, e tanti altri, hanno iniziato a fare i primi distinguo, su cosa è più giusto fare. Attenzione stiamo parlando di una guerra che l'Occidente potrebbe vincere tranquillamente, perché possiede le migliori armi e le migliori tecnologie. Ma è una guerra che può perdere, anzi, forse, l'ha già persa, “perché gli manca l'essenziale”, scrive il professore Massimo Introvigne: “una spiritualità della guerra”.
I terroristi, da al-Qaida all'Isis, lo ripetono da tempo: “vinceremo noi, perchè voi amate la vita e noi amiamo la morte”. Per loro farsi esplodere o cadere in uno scontro con la polizia è una forma di martirio, che assicura la gloria in terra e il paradiso in Cielo. Infatti,“L'Occidente moderno considera la morte in battaglia inaccettabile. Tutti i governi democratici cercano di fare la guerra con la sola aviazione, o meglio ancora con i droni senza piloti, perché sanno che un intervento militare di terra comporterebbe dei caduti. E soldati che tornassero in patria in una bara avvolta da una bandiera nazionale farebbero perdere le elezioni al governo che li avesse mandati a combattere in terre lontane”.(Massimo Introvigne, La loro forza è nella morte per Allah. E la nostra?”, 22.11.15, LaNuovaBQ.it)
Probabilmente a questo punto per noi occidentali, l'alternativa non è più fra l'avere o non avere morti ammazzati, ma la scelta è “su chi dovrà morire: i soldati sul campo o i civili che vanno a cena in un ristorante, a una partita di calcio o ad ascoltare musica in un teatro”.
Pertanto se c'è una guerra, e pare che sia proprio così, i primi in assoluto che dovrebbero combatterla anche se hanno anche loro una mamma, sono i soldati. Certamente noi siamo abituati a vederli come quelli che sono impiegati nelle missioni di pace, tutto vero. “I militari non sono questo, o per lo meno non sono solo questo. La loro missione comporta affrontare la morte, e anche dare la morte in battaglia, con lealtà e senza odio”.
E' evidente che al nostro mondo ci manca quella merce rara che è lo spirito militare. Il pensatore brasiliano Plinio Correa de Oliveira, nella sua classica opera, “Rivoluzione e Contro-Rivoluzione”, vedeva nel venir meno di questo spirito una caratteristica saliente del processo di abbandono del cristianesimo che chiamava Rivoluzione. La divisa militare, scriveva: “La divisa militare, scriveva, «con la sua semplice presenza, afferma implicitamente alcune verità, a quanto generiche, ma per certo di natura contro-rivoluzionaria. L'esistenza di valori superiori alla vita e per i quali si deve morire», il che è contrario alla mentalità moderna, «tutta fatta di orrore per il rischio e per il dolore, d'adorazione della sicurezza e di grandissimo attaccamento alla vita terrena. L'esistenza d'una morale, perché la condizione
militare è totalmente fondata su ideali d'onore, di forza posta al servizio del bene e rivolta contro il male e così via».
Qui occorre fare una necessaria distinzione tra la forza e la violenza. Noi che siamo cristiani anche nelle guerre non dovremmo usare la violenza che è intrinsecamente sovversiva e immorale, perché non opera al servizio dell'ordine ma per sovvertirlo. La forza, [invece], dopo il peccato originale, è necessaria e legittima. Difende il debole mettendo l'aggressore in condizione di non nuocere, se necessario dando la morte e affrontando la morte”.
Peraltro, per un cristiano, salvare la propria vita non dovrebbe essere il valore supremo, non per nulla la Chiesa ha canonizzato migliaia di martiri, non solo, ma anche qualche centinaio di militari, che hanno combattuto, hanno dato la morte e qualche volta sono morti in battaglia. A questo proposito recentemente, Il 26 aprile 2009, Benedetto XVI ha canonizzato San Nuno Alvares Pereira, non è un calciatore, morto nel 1431 e figura decisiva per l'indipendenza del Portogallo dalla Spagna. San Nuno era un generale, che ha sempre combattuto in prima fila e pare che abbia personalmente  ucciso circa cinquemila persone, “certamente il santo diede la morte a molti nemici. Passò gli ultimi anni di vita in un convento, ma di lì continuò a far giungere consigli ai portoghesi su come fare la guerra. Nel l'omelia della canonizzazione, Benedetto XVI chiarì che San Nuno non era stato canonizzato «nonostante» fosse stato un militare, avesse combattuto e avesse ucciso nemici, ma perché era stato un buon militare, e un militare santo”. (Ibidem)
Qualcuno osa scandalizzarsi? Fatelo pure, ma sappiate che “C'è una vera spiritualità della vita militare e della guerra. Una spiritualità che non ama la guerra, non la cerca, preferisce la pace. Una spiritualità che non odia i nemici, sa che sono anche loro figli di Dio e fratelli in Cristo, eppure assume la necessità di combatterli lealmente come una croce e una dolorosa missione. È la stessa spiritualità dei poliziotti e dei carabinieri, che portano le armi e qualche volta devono usarle per proteggere gli onesti contro i malviventi, dei giudici che devono pronunciare severe condanne e qualche volta - lo sappiamo bene in Italia - rischiano anche loro di pagare con la vita” (Ibidem). È la spiritualità dell'eroismo, e l'eroismo consiste precisamente nel sapere che ci sono valori per cui vale la pena di combattere e di morire. Se l'Occidente, e anche tanti cristiani, hanno perso questa spiritualità, e neppure sono più in grado di capirla, allora bin Laden aveva ragione, e anche l'Isis ha già vinto.

sabato 28 novembre 2015

La BlogsferaThule: siti, blog, indirizzi, video

Riportiamo di seguito tutti gli indirizzi disponibili con cui collegarsi:

Il sito personale di Tommaso Romano, con notizie e attività.
Il sito delle Edizioni Thule di Palermo, fondate nel 1971, con il prestigioso catalogo, notizie e novità.
Blog che Tommaso Romano aggiorna periodicamente con le sue idee controcorrente e l’informazione sulle sue attività
Blog di recensioni e notizie sui libri delle Edizioni Thule e della Fondazione Thule Cultura
Blog generalista di recensioni librarie e novità segnalate
Le Stanze della Fondazione Thule Cultura a Palermo, fra Liberty, Decò e contemporaneo, un viaggio fra libri, oggetti, mobili e bellezza
Blog che riunisce integralmente tutti i numeri della prestigiosa rivista fondata nel 1986 da Giulio Palumbo, Pietro Mirabile e Tommaso Romano
Blog di notizie e commenti di attualità, dottrina e polemistica
Blog degli Amici del Mosaicosmo e di Tommaso Romano con libri e documenti inseriti di difficile reperibilità 
Blog di studi tradizionali, genealogici, araldica, ordini cavallereschi, tradizioni gentilizie
Blog dei Clubs Empire fondati a Pescara nel 1976

Fondazione Thule Cultura
via Ammiraglio Gravina 95, 90139 Palermo 



lunedì 23 novembre 2015

A Bagheria i nuovi Soci dell'ASCU - Accademia Siciliana Cultura Umanistica

        
Martedì 24 novembre p.v. a Bagheria presso i locali di Villa Coglitore (oggi Galioto) si terrà la manifestazione della XXXV Sessione dell’ Accademia Siciliana Cultura Umanistica. Presenti il Presidente Onorario Prof. Tommaso Romano, i Consiglieri Prof.ssa Maria Patrizia Allotta e il dott. Giuseppe Fumia, il Rettore Dott. Giuseppe Bagnasco consegnerà i nuovi titoli accademici a cinque personalità del mondo della cultura siciliana. Sono stati proposti dal Senato accademico e accolti, come risulta dal verbale redatto il 27 settembre 2015 presso lo studio del Presidente Onoraio i seguenti nomi: Prof.ssa Sandra Vita Guddo per l’arte narrativa, M° Elio Corrao per la pittura, Cav.Uff. Francesco Scorsone per l’attività culturale, Prof. Francesco Calvaruso per la ricerca storiografica e la Prof,ssa Annamaria Ruta per le ricerche sul Futurismo e la cultura siciliana. Interverrà il Sindaco di Bagheria dott. Patrizio Cinque e l’Assessore alla Cultura dott.ssa Romina Aiello.

Premio di poesia "Giacomo Giardina" - XIV edizione

Martedì 24 novembre 2015, con inizio alle ore 17.00, a Bagheria, presso Villa Coglitore, oggi Galioto (via Palagonia n. 141), si terrà la cerimonia di premiazione della XIV Edizione del Premio di poesia Giacomo Giardina (Poeta Futurista).
La manifestazione è organizzata dal Circolo Culturale Giacomo Giardina di Bagheria con il Patrocinio della Città di Bagheria.
Interverranno: Patrizio Cinque e Romina Aiello, rispettivamente Sindaco ed Assessore Cultura di Bagheria;Tommaso Romano (Scrittore-Editore), Giuseppe Bagnasco (Presidente CCGG).
Presenzieranno i componenti della Giuria: Tommaso Romano (Presidente), Annamaria Ruta, Maria Civello, Francesco Federico, Giuseppe Bagnasco e Stefano Panno. 
Letture a cura dell’Artista Marisa Palermo.
Nel corso della serata interventi musicali a cura del Maestro Leonardo Bartolone.
Premio Speciale alla Cultura anno 2015 alla Prof.ssa Michela Sacco Messineo di Palermo.
Ai premiati: opere bronzee di Carlo Puleo, opere in pietra di Giovanni Varisco, tipolitografie di Nino Bellia.
All’interno dei saloni verrà allestita la mostra fotografica “Angoli e scorci di Villa San Cataldo” di Paola Galioto Grisanti.

venerdì 20 novembre 2015

Presentazione allo Studio 71 di un Volume sul Pittore Elio Corrao

Sabato 21 Novembre 2015 alle ore 17:30, Galleria Studio 71, 
via Vincenzo Fuxa 9, Palermo
Presentazione della Monografia d’Arte 
con un testo di Tommaso Romano sull’Opera del Maestro
Elio Corrao
Con testimonianze di Aldo Gerbino e Delia Parrinello,
 edito dalla Fondazione Thule Cultura.
Presenta il volume Ciro Lomonte, coordina Vinny Scorsone
A tutti gli intervenuti sarà omaggiata una copia del volume




martedì 17 novembre 2015

Spiritualità & Letteratura n° 86

E' online il numero 86 di Spiritualità & Letteratura, Collezione aperiodica di Testi diretta da Tommaso Romano. in questo numero Articoli, Poesie, Recenzioni ed Interviste di: Vincenzo Aiello - Girolamo Alagna Cusa - Maria Patrizia Allotta Giuseppe Bagnasco - Anna Maria Bonfiglio - Cinzia Demi - Arturo Donati - Rita Elia - Adalpina Fabra Bignardelli - Carmelo Fucarino - Luigi Impresario - Giuseppe La Russa - Serena Lao - Mario Luzi - Vito Mauro - Silvano Panunzio - Guglielmo Peralta - Teresinka Pereira - Maria Elena Mignosi Picone - Ivan Pozzoni - Nicola Romano - Tommaso Romano - Biagio Scrimizzi - Lucio Zinna.
Recensioni ai libri di: Giancarlo Licata, Vincenzo Arnone, Vincenzo Aiello, Adalpina Fabra Bignardelli, Giusi Lombardo.

L’angolo di Gilbert K. Chesterton – Grandezza e attualità di uno scrittore cattolico

di Fabio Trevisan

Nel suo primo romanzo: “Il Napoleone di Notting Hill” del 1904, il cui vero titolo sarebbe stato, e come ho tradotto nel mio adattamento teatrale: “Il pazzo e il re”, Gilbert Keith Chesterton immaginava di far governare l’Inghilterra da un Re umorista, Auberon Quin, che incontrava e favoriva la causa di un giovane e fervente patriota, Adam Wayne (il Napoleone di Notting Hill). Questi due elementi, l’umorismo e il patriottismo, condensati nelle due figure eroiche del romanzo, rappresentavano per il trentenne Chesterton gli antidoti indispensabili per proteggersi dal delirio mondano, dall’affanno di sentirsi al passo coi tempi: “E’ delle novità che gli uomini si stancano, delle mode e delle proposte e delle migliorie e dei cambiamenti. Sono le vecchie cose a sbalordirci, a inebriarci, perché sono le cose vecchie a esser giovani”.
Queste affermazioni, solo apparentemente paradossali, costituivano in profondità il nucleo del racconto, che voleva essere l’elogio del sano umorismo cristiano e la salvaguardia della ragione e del senso comune (come successivamente sarà maestro anche Giovannino Guareschi, tratteggiato con precisione e competenza da Alessandro Gnocchi). La chiamata alla battaglia per la difesa delle proprie tradizioni e della terra dei padri è mostrata dallo scrittore londinese in esilaranti e incisivi confronti che Adam Wayne, il patriota di Notting Hill, ha con i suoi concittadini. Egli va dai più umili e dai più umani personaggi del romanzo (dal rigattiere al barbiere, dal venditore di giocattoli al droghiere) perché egli sa che il vero patriottismo può germogliare laddove si sono conservate le radici storiche e la memoria delle cose belle. A quell’affascinante custode dell’antichità, a quel nobile rigattiere Wayne pone un’osservazione molto acuta, che ha a che fare strettamente con il nostro presente: “Terribilmente fermo: due semplici parole racchiudono lo spirito di questa nostra epoca, quale l’ho percepito sin dalla culla. Spesso mi sono domandato quante fossero le persone che al pari di me avvertivano l’oppressione di questo connubio tra la quiete e il terrore”.
Cosa intendeva Chesterton con questa suggestiva riflessione? Perché era di estrema rilevanza questa constatazione? Le successive e sbalorditive frasi di Adam Wayne chiarivano il bersaglio polemico: “Nella nostra civiltà moderna la libertà di parola sta a significare, in pratica, che siamo tenuti a parlare di cose irrilevanti”.
E’ doveroso quindi chiederci: “Come possiamo noi, al pari di Chesterton, avvertire questo triste connubio tra un’apparente quiete e un concreto terrore? Perché nei giornali, nelle televisioni, in internet, ecc. si ravvisa questa mancanza di coraggio, questo continuo parlare di cose irrilevanti e inutili? Perché tutto è così terribilmente fermo?”. Chesterton faceva entrare in azione i cultori dell’umorismo e del patriottismo per frenare questa insipiente deriva umana, che portava all’oblio di Dio e della legge naturale:“Bisogna che qualcuno sopravvenga a infrangere questa curiosa indifferenza, questo strano egoismo, questa strana solitudine che investe milioni di individui”. Ecco così il pazzo e il re: ““Quando vengono i giorni bui, io e te, i puri folli, i cultori dell’umorismo, diventiamo indispensabili”.

sabato 14 novembre 2015

Sicilia. Declino e Rinascimento

di Vittorio Riera 

I. Sicilia povera derelitta Sicilia

ti hanno abbindolato
con false promesse di lavoro

ti hanno illuso

con urla canti e striscioni 

giovedì 12 novembre 2015

D’Ettoris editori: una saggistica di qualità punta al sapere alto, anche con una Fondazione

di Selene Miriam Corapi 

La casa editrice D’Ettoris editori nasce a Crotone nell’ottobre del 2003, ad opera di Pino D’Ettoris, progetto condiviso fin dall’esordio anche da alcuni componenti della sua numerosa famiglia.
Attualmente l’assetto redazionale comprende Antonio D’Ettoris, laureato in Economia e Commercio presso l’Università di Pisa, grande appassionato di tematiche religiose, economiche e sociopolitiche, nonché presidente della Fondazione “D’Ettoris”, istituita il 13 maggio del 2003 e arricchita dalla biblioteca “Pier Giorgio Frassati” contenente 30.000 libri, di cui circa 6.000 già catalogati; Maria Grazia D’Ettoris, laureata in Storia medievale presso l’Università di Pisa, dirigente della suddetta biblioteca e responsabile dei progetti organizzati in collaborazione con istituti scolastici, “Leggifilm” e “Le fate e le principesse vanno in biblioteca”, che hanno riscosso molto successo e interesse; Tina D’Ettoris, direttrice responsabile della testata giornalistica Il Corriere del Sud , di distribuzione regionale in Calabria e Sicilia. Le numerose iniziative organizzate dalla Fondazione “D’Ettoris”, mirano ad avvicinare e attrarre «le giovani generazioni al mondo della lettura, alla frequentazione della biblioteca, alla partecipazione culturale di ogni evento che riguardi la storia e le tradizioni locali […]. Inoltre, gli studenti possono ampliare il bagaglio del “sapere”, attraverso attività di ausilio a quella scolastica vera e propria. Si tende così a sviluppare nei frequentatori un attento spirito critico»; tra gli obiettivi primari, inoltre, vi è quello di valorizzare il centro storico cittadino, «che sino ad oggi ha versato in situazioni di degrado ed abbandono. Con l’acquisto e la ristrutturazione di un edificio storico si è inteso aumentare la frequentazione di questi luoghi, paradossalmente sconosciuti alla maggior parte della popolazione». Interessi diversificati ma con un unico comune denominatore: infondere e diffondere la cultura, ad ampio raggio.
Gli obiettivi
«Penetrare nel tessuto sociale attraverso opere che possano aprire orizzonti più ampi alla società civile, soprattutto, alla popolazione studentesca», questo il desiderio che anima la linea editoriale di D’Ettoris editori.
I titoli presenti sul catalogo, agilmente consultabile sul sito Internetwww.dettoriseditori.it, evidenziano l’attenzione alla una saggistica che spazia in diversi campi: religione, storia, scienza, letteratura e neuropsicosociopedagogia.
Numerosi sono i titoli di interesse, da La genesi della scienza, saggio di James Hannam, in cui l’autore attraverso una profonda e accurata analisi fa risalire al Medioevo la nascita del metodo scientifico, nonostante questo periodo storico in passato sia stato spesso definito retrogrado e oscurantista, a Gli dei della Rivoluzione, opera postuma di Christopher Dawson, illustre studioso della storia della civiltà occidentale. Tematiche importanti e legate all’attualità emergono nel testo Dignità di donna. Storia di una moglie che nonostante tutto amava di Vittoria Colacino Diletto, dedicato all’amara testimonianza di abusi, violenze e paura subiti dalla moglie di un boss mafioso. Il Catalogo, inoltre, presenta opere di natura biografica come per esempio il best seller intitolato Un cuore per la nuova Europa. Appunti per una biografia del beato Carlo d’Asburgo di Oscar Sanguinetti e Ivo Musajo Somma, un’esemplare ritratto dell’ultimo sovrano degli Asburgo, il beato Carlo I d’Austria e IV d'Ungheria.
Procedendo in questa nostra carrellata, non possiamo esimerci dal menzionare Identità cattolica e anticomunismo nell’Italia del dopoguerra. La figura e l’opera di mons. Roberto Ronca,di Giuseppe Brienza, con la Presentazione del cardinale Fiorenzo Angelini e la Prefazione di Marco Invernizzi (esponente di Alleanza cattolica e curatore della rubrica Voce del Magistero su Radio Maria). Nel saggio, l’autore ripercorre, attraverso le vicende biografiche del vescovo romano, i momenti più importanti della politica italiana del dopoguerra.
Sempre dello stesso autore de Gli dei della rivoluzione ricordiamo una delle opere più rappresentative della casa editrice, quella che può essere considerata il suo fiore all’occhiello: La religione e lo stato moderno dello storico inglese Christopher Dawson in traduzione italiana, opera nella quale questo autorevole studioso analizza le crisi culturali dell’epoca moderna e contemporanea. Questi e molti altri titoli confermano l’impegno e la profonda passione della casa editrice nel raggiungere i propri obiettivi.
Autori prestigiosi
Il catalogo D’Ettoris editori può vantare la presenza di autori di risonanza internazionale, come James Hannam, laureato in fisica all’Università di Oxford nel 1993. Il suo libro God’s Philosophers, pubblicato nel 2009 nel Regno Unito, è stato candidato al “Royal Society Science Book Prize” nel 2010 e al “British Society for the History of Science Book Prize” nel 2011. L’opera è stata tradotta in italiano da Maurizio Brunetti con il titolo La genesi della scienza.
Andrea Rossi, dottore di ricerca in Storia militare e cultore della materia presso l’Università di Ferrara, ha editato numerosi saggi incentrati sulle tematiche che riguardano il Fascismo e la guerra in Italia, pubblicati su riviste scientifiche e in opere collettanee; ricordiamo Il gladio spezzato. 25 aprile-2 maggio 1945: guida all’ultima settimana dell’esercito di Mussolini
. Eliana Grande, laureata in Filosofia nel 2008 presso l’Università di Pisa, Come il raggio rispetto alla luce. Edith Stein e i percorsi verso la verità: una lettura di «Essere finito» e «Essere eterno» è il titolo della sua pubblicazione con la casa editrice calabrese.
Francesco Pappalardo, laureato in Scienze politiche presso l’Università degli Studi di Napoli e residente a Roma, è socio benemerito di Alleanza cattolica, direttore editoriale di Cristianità, consigliere parlamentare nel Senato della Repubblica. È autore di numerosi saggi come Il mito di Garibaldi. Una religione civile per una nuova Italia (Sugarco 2010); di opere collettanee come Il brigantaggio postunitario. Il Mezzogiorno fra resistenza e reazione(2014). Sono state altresì assidue le collaborazioni con la casa editrice che con Il brigantaggio postunitario è giunto alla sua terza edizione.
Armando Greco, perito agrario e operatore Ust-Cisl Cosenza.collabora con Il Corriere del Sud, e il nuovo settimanale di Cosenza, Corriere della Calabria. Per la D’Ettoris editori ha pubblicato Momenti di vita castiglionese.
Cultura che apre la mente
Come già espresso, la casa editrice è mossa dal desiderio profondo di trasmettere cultura a tutta la società civile. Come si deduce dai titoli in catalogo, mostra un forte interesse per la storia e per la religione, discipline che tendono ad incrociarsi e a confluire l’una nell’altra perché strettamente interconnesse. Un’attenzione che mira a creare, con totale sinergia e impegno, una promozione culturale che possa aprire la mente, perché, come affermava Gianni Rodari, «Vorrei che tutti leggessero. Non per diventare letterati o poeti, ma perché nessuno sia più schiavo». Leggere ci rende davvero liberi!

(S)connessione di Vittorio Riera

(S)CONNESSIONE
Pubblichiamo la settima parte di un testo di grande suggestione creativa dello scrittore Vittorio Riera

Queste frasi sono state registrate insieme con i commenti più o meno salaci dei passeggeri a Palermo sulla linea 102 nel tratto via Roma (Ecce Homo) - Capolinea. Sono di un signore seduto davanti a me. Io mi sono poi limitato a trascriverle fedelmente così come le ho sentite, in una sorta di fonografia e cioè senza apostrofi e senza segni di interpunzione a eccezione del punto di domanda, delle parole tronche, delle voci del verbo essere che vogliono l’accento (è, sarò, sarà) e delle interiezioni. Le voci del verbo avere che prevedono l’acca, sono state semplificate in ‘ò’, ‘à’, ‘ài’, ‘ànno”.  Mie le traduzioni delle frasi in dialetto.
Clicca qui per leggere la settima parte

mercoledì 11 novembre 2015

Socrate

di Don Curzio Nitoglia

Socrate morì nel 399 a. C. condannato formalmente per “empietà”, ossia perché non credeva negli Dei della città e perché corrompeva con le sue dottrine la gioventù di Atene; ma la vera ragione della sua condanna a morte - come scrive Platone nell’Eutrifone - erano i risentimenti e le gelosie di ordine politico da parte della classe dirigente di Atene.  Clicca qui per continuare a leggere

martedì 10 novembre 2015

Ricordi di un Hobbit

 
Il sito della Heliopolis Edizioni,
è stato recentemente profondamente rinnovato. Sviluppa al suo interno, oltre gli usuali riferimenti editoriali,
2  nuove sezioni
dedicate al libero confronto delle idee fra tutti gli amici della ormai storica editrice (il trentennale in questo 2015): 
- “SCUOLA ROMANA di  FILOSOFIA POLITICA”
coordinata  da Giovanni Sessa
ove potranno esprimersi tutti coloro che partecipano a vario titolo
al dibattito filosofico e metapolitico su tradizione e ricerca,
-  “ALTRI  AUTORI”
coordinata da Sandro Giovannini
ove tutti gli amici scrittori ed artisti potranno inserire testi propri
e/o proporre articoli di altri,  apparsi sui diversi organi d’informazione.
La
HELIOPOLIS  EDIZIONI
di idee e materiali di scrittura
prosegue il suo viaggio creativo con proposte nel campo
dell’EDITORIA  
e della PARAEDITORIA.
Nell’EDITORIALE  l’Heliopolis ultimamente ha presentato il  libro/manifesto
“Per una NUOVA OGGETTIVITA’, popolo, partecipazione, destino” 
con oltre 90 autori e 150 adesioni formali, con allegati un CD di musica classico/contemporanea
del M° Mario Mariani ed un INFOLIO di S.G.
Nel PARAEDITORIALE  due ultime pregiate tavolette heliopolis:
una di S. G. a commento del lavoro di Giovanni Sessa su Emo:
“La meraviglia del nulla. La filosofia di Andrea Emo edito da Bietti;
l’altra: “non aver paura di dire...”, con oltre 50 autori, replicata da un e-book stesso titolo, ulteriormente ampliato,
a cura di Roberto Guerra, per La Carmelina Edizioni, di Federico Felloni, Ferrara.
Altre novità 2015 nel campo delle magliette letterarie”, invenzione dell’Heliopolis nel 1987,
del borsello da braccio”, Mod. dep. 2015,  e di una nuova appl. telematica in via di definizione:
elogicon.
In preparazione l’opera corale  
“La Pietra e  il sangue”,
dedicata all’archeologo siriano Khaled al-Asaad,
divisa in tre parti, un testo/sceneggiatura, una parte grafico/letteraria affidata ad artisti,
una terza parte come Appendice con scritti di vari autori su varie tematiche afferenti e note d’uso... 
contattare: Sandro Giovannini
Viale della Vittoria 231, 61121, Pesaro, (PU).  338.9089828  giovannini.sandro@libero.it

Ottobre 2015

lunedì 9 novembre 2015

Una proposta a costo zero per il turismo nel Meridione

di Vito Plantamura

Da sempre, si fa un gran parlare della vocazione turistica del nostro Paese, e in particolare del Mezzogiorno che, proprio nel turismo, dovrebbe trovare la sua occasione di riscatto. Ciclicamente, in politica c’è chi promette che troverà fondi per il Sud, magari proprio per aumentare il business del turismo. La mia risposta è: no, grazie. Nella storia della Repubblica italiana, infatti, ogni qual volta si sono voluti trovare finanziamenti per il Sud, si sono dati soldi al Nord, e ai suoi imprenditori: direttamente, per fare impresa, e quindi creare occupazione al Mezzogiorno; o indirettamente, realizzando un bacino di domanda per il loro prodotti.
È molto facile rinfacciare al Sud, ad es., i forestali della Calabria, senza domandarsi, con il loro stipendio, che prodotti hanno comperato fino a ieri, cioè quelli settentrionali. Dove “fino a ieri” significa fino all’entrata nell’euro, quando la Germania ha potuto vendere agli italiani i suoi prodotti, con il considerevole sconto connesso ai differenti tassi d’inflazione, e senza subire, a causa del boom di esportazioni all’interno dell’eurozona, fisiologiche rivalutazioni della propria moneta, che tali eccessive esportazioni, in danno dei propri vicini, avrebbero arginato.
Forse gli imprenditori settentrionali si saranno infine accorti che erano stati sostenuti dalla domanda interna meridionale, e che di sole esportazioni non riescono a vivere. Forse. O forse no, visto che la crisi sarebbe colpa della corruzione e dell’evasione, che infatti notoriamente non abbiamo mai avuto prima. Quindi, niente fondi speciali destinati al Sud, per carità, che non sappiamo a vantaggio di chi finirebbero, ma sappiamo per certo quale razzismo, ed autorazzismo, continuerebbero ad alimentare.
Per una volta, invece, perché non dare al Mezzogiorno un reale vantaggio competitivo? Come si sarebbe potuto fare al tempo dell’omonima Cassa, quando ancora, cioè, potevamo finanziare la crescita in deficit, mentre si è sempre scelto di dare i soldi al Sud per comprare prodotti altrui, e mai per vendere più facilmente i propri.Rivisondoli (AQ)
Per capire come fare oggi, mettiamo a confronto due piccoli paesi meridionali, con forte vocazione turistica: Rivisondoli e Pescocostanzo. Storicamente, il primo è stato sempre minore rispetto al secondo, che era il centro principale dell’Alto Sangro, come testimoniato dalla splendida Basilica di Santa Maria del Colle. Si tratta, come per la vicina Roccaraso, di mete turistiche non solo invernali, ma anche estive. Anzi, proprio d’estate questi paesini danno il meglio di sé, offrendo tantissimi servizi gratuiti ai turisti, come, ad es., l’animazione per i bambini, sia di mattina che di pomeriggio, e numerosi intrattenimenti serali. Ad agosto, Rivisondoli ha offerto, tra l’altro, il cabaret di Gianfranco d’Angelo e di Maurizio Battista, e i concerti di Masini, Caparezza e Povia.
Quest’ultimo merita una menzione speciale, non solo per la dedizione che mostra, la durata e la qualità dello spettacolo, ma anche per i contenuti del suo “siamo italiani tour”, in cui, lui che è milanese, mostra orgogliosamente una bandiera del Regno delle Due Sicilie, e spiega come l’Unità d’Italia sia stata fatta contro il Meridione: altro che Jovanotti, che si vanta di partecipare, assieme al capo della Banca Mondiale, a misteriosi think-tank in perfetto stile Bilderberg.Pescocostanzo (AQ)
E Pescocostanzo? La bellissima Pescocostanzo non riesce più a offrire altrettanto. Cosa cambia tra questi due paesi? La popolosità. Pescocostanzo, infatti, ha il “torto” di avere 1.200 abitanti, mentre Rivisondoli ha il “merito” di averne 700. Sembra una pazzia. E infatti lo è. Ma ciò comporta che Pescocostanzo è sottoposta, per dirla con Keynes, a quella parodia dell’incubo di un contabile che è il patto di stabilità interno, e non può spendere; mentre Rivisondoli no, e può spendere i suoi soldi, senza doverli tenere in cassa per restrizioni ragionieristiche (1).
Lo Stato vuole davvero aiutare il Sud e rilanciarne il turismo? La mia proposta è diescludere tutti i comuni meridionali, al di sotto dei 10.000 abitanti, e con forte vocazione turistica (che potrebbe accertarsi in base ad una proporzione tra abitanti e posti letto in albergo, o con analogo criterio), dal patto di stabilità, con riferimento alle spese affrontate per incentivare il turismo: l’arredo urbano, l’organizzazione di eventi, i servizi per i turisti, etc. A parole, tutti dicono di voler aiutare il Meridione, vedremo se qualcuno appoggerà questa proposta concreta.

domenica 8 novembre 2015

L’angolo di Gilbert K. Chesterton – grandezza e attualità di uno scrittore cattolico –

di Fabio Trevisan
zzzzgvdcsrtnQuesto severo monito pronunciato dall’uomo che fu Giovedì, ossia il filosofo investigatore Gabriel Syme, racchiude il grido di dolore di Gilbert Keith Chesterton dinanzi ad un’umanità impazzita, che ha apparentemente perduto il significato essenziale e profondo della salvezza cristiana: “Vedete questa lanterna? Vedete la croce che v’è scolpita sopra e la fiamma che ha dentro? Non voi l’avete fatta, non voi l’avete accesa. Uomini migliori di voi, uomini che sapevano credere e obbedire, torsero le viscere del ferro e alimentarono la leggenda del fuoco”.
Siamo allo svelamento finale del romanzo: “L’uomo che fu Giovedì”, che opportunamente Chesterton rivelava nel sottotitolo (“A nightmare”). Era la storia di un incubo, che lo stesso scrittore londinese aveva sperimentato nella sua inquieta vita giovanile fino ad approdare alla risposta serena della Croce. Con parole che a distanza di un secolo ci fanno ancora pensare e commuovere, Chesterton dedicava questa opera all’amico Edmund Clerihew Bentley: “Una nube pesava sulla mente degli uomini, una nube malaticcia sull’anima, quando eravamo giovani tutti e due…vedemmo la Cittadella dell’Anima soccorsa che già barcollava. Beati coloro che non videro, ma ciechi, cedettero…ora fra noi, per grazia di Dio, questa verità possiamo dirla: “C’è una forza nella radice che affonda, c’è del buono nell’invecchiare”.
Il romanzo era iniziato in un giardino, proprio come in un più remoto giardino aveva avuto inizio la storia del peccato dell’uomo. I riferimenti continui al libro della Genesi ed alla creazione di Dio erano rappresentati appunto dai giorni della settimana, così come il senso del dolore e l’incapacità di darsene una piena ragione richiamavano al Libro di Giobbe. L’estro creativo e artistico (per Chesterton tutta la creazione confermava ciò che era agli occhi del Padreterno, che vide che era cosa buona) stavano quindi all’origine dello scontro tra due poeti: Gabriel Syme, che vestirà i panni di Giovedì, e Lucian Gregory, un autentico e tetragono anarchico. Il primo, fautore dell’armonia e dell’ordine, il secondo del caos e della ribellione, che rappresentavano simbolicamente e rispettivamente in due oggetti, il lampione di ferro e l’albero: “Eccolo qui, il suo famoso ordine: questo lampione di ferro, secco, brutto e sterile; ed ecco l’anarchia, ricca, viva e feconda”. Al che rispondeva assennatamente l’uomo che fu Giovedì: “E tuttavia lei vede l’albero soltanto alla luce del lampione. Chissà quando potrà vedere il lampione alla luce dell’albero?”.
La luce della ragione e la luce della fede, che alludevano al lampione, erano indissolubili e potevano, fuor di metafora, illuminare l’intera esistenza e dare senso all’avventura della ricerca della verità, che lo stesso Syme e lo stesso Chesterton cercavano nei meandri della storia, tra fatiche e dolori nelle pieghe dell’umanità. In questo tortuoso labirinto, in questo incubo vissuto e descritto nel romanzo, Gabriel Syme, il poeta-poliziotto, era stato eletto “Giovedì” nel Consiglio Centrale Anarchico Europeo. Come era stato possibile? Non voglio qui svelare l’accaduto a chi volesse leggersi l’intero romanzo ma rivelare, quello sì, l’esatto intendimento della missione di Giovedì: “Noi dobbiamo rintracciare l’origine dei terribili pensieri che alla fine trascinano gli uomini al fanatismo intellettuale e ai crimini intellettuali”. Proprio così! “Crimini intellettuali” che portavano nel mondo devastazione e desolazione e contro cui bisognava lottare.
Il romanzo costituisce, in questo modo, una vera battuta di caccia, in cui vengono inseguite e stanate le eresie. Chesterton, con il suo acuto e genuino senso cristiano, aveva paventato i veri pericoli di un’umanità che stava per perdere la fede, la speranza e la carità: “Anch’essi parlano a folle plaudenti della felicità del futuro e dell’umanità finalmente libera: ma sulle loro labbra queste belle frasi hanno un significato atroce. Essi sono troppo intelligenti per credere che l’uomo su questa terra possa affrancarsi dal peccato originale e dalla lotta per la vita e perciò alludono alla morte. Quando dicono che l’umanità sarà finalmente libera, alludono al suicidio dell’umanità…Non hanno che due scopi: distruggere prima l’umanità e poi se stessi”. Siamo davvero sicuri che Chesterton non avesse visto giusto?
Crediamo di non aver più bisogno di uomini come Gabriel Syme, l’uomo che fu Giovedì?

da: www.riscossacristiana.it

giovedì 5 novembre 2015

L'attività artistica di Serena Lao

di Giovanna Sciacchitano 

Presentare Serena Lao è un grande onore, ma anche una grande responsabilità, perché Serena Lao è un’artista poliedrica dai molteplici interessi, interessi che le hanno permesso di affermarsi nel panorama culturale nazionale e in particolare in quello siciliano in modo eccellente. La ritroviamo infatti protagonista in campo teatrale, musicale e letterario sia come autrice, sia come interprete, nello specifico come cantautrice e raccontatrice di storie. La prima fase della sua vita, l’infanzia, è stata fondamentale per il suo futuro artistico. Sappiamo tutti che l’infanzia è un periodo molto importante per l’uomo, perché è proprio durante l’infanzia (da quando si nasce fino ai dieci anni) che si sviluppano le capacità affettive, dunque è un periodo di forti emozioni, per questo il vissuto dell’infanzia rimane fortemente impresso nella mente e nell’anima. Detto questo comprendiamo come per Serena Lao sia stato determinante avere vissuto i suoi primi anni tra i vicoli di Ballarò.  Ballarò è il più antico tra i mercati della città, il mercato è vita, è il luogo dei colori, dei suoni, delle abbanniate, dei sapori e questo mondo così esuberante ha affascinato e catturato l’immaginario creativo di Serena, al punto di portarselo sempre nel cuore e farlo rivivere attraverso le sue opere, le sue performances teatrali, i suoi concerti, le sue cantate. Con questa passione forte Serena Lao si è esibita e si esibisce ovunque sia stata o viene chiamata a testimoniare e a rappresentare aspetti della cultura popolare siciliana, ponendo una particolare attenzione all’etno-musica, ricavando da essa contaminazioni soprattutto dalle influenze afro-americane, che con abilità e professionalità ha inserito nel contesto della nostra tradizione folk.  Uno studio sulle tradizioni popolari siciliane che la nostra artista traduce in rappresentazione attraverso le parole e la musica per darne concreta fruizione, perché è alla cultura che bisogna affidare la trasmissione di un’eredità che ci appartiene.
Serena Lao porta in giro per il mondo l’anima dei siciliani e lo fa con semplicità, bellezza, spontaneità e serietà. Aiutata dal timbro di una voce possente che si impone (voce da contralto), negli anni giovanili ha studiato tecnica vocale e pianoforte. Contemporaneamente ha iniziato a scrive testi e a comporre musiche, ricordiamo che Serena Lao è iscritta alla SIAE in due sezioni: alla sezione Musica come autrice di testi e musiche di canzoni,  e alla sezione D.O.R come autrice di opere di teatro musicale. Ha infatti lavorato anche in teatro a fianco di attori famosi. Vicino a Rosa Balistreri, al grande Ignazio Buttitta e a Ciccio Busacca, che ha raccolto l’eredità dei cantastorie siciliani diventando cantore di fatti di cronaca, Serena Lao sviluppa la capacità di unire la sua innata sensibilità musicale ad un certo realismo sociale che le permette di fare della sua attività artistica anche uno strumento di denuncia civile nei confronti della gente che soffre (ricordiamo “La straggi di lu pani”, una ballata dedicata ai 24 martiri della rivolta del pane del 19 ottobre 1944 davanti Palazzo Comitini a Palermo).
Serena Lao però non si ferma a cantare la Sicilia che si deve riscattare, ma recupera dalla sua anima ogni possibilità creativa. È così che tristezza, nostalgia, realismo e fantasia spesso si mescolano insieme per raccontarci o pi cuntarinni i suoi umori, le sue angosce, i suoi ricordi, le sue gioie e poiché la forza della dimensione comunicativa dipende soprattutto dal modo in cui la comunicazione viene fatta, possiamo renderci conto del grande valore aggiunto che possiede la nostra artista quando usa il canto, suo preciso tratto identitario.  IL canto di Serena Lao procede assieme al dipanarsi dei sentimenti e delle emozioni che l’artista vuole comunicare, un perfetto esempio di quanto detto lo troviamo in “Io cantu”, che è il canto d’inizio della raccolta “Cantu la libbertà ca m’apparteni”, edito da ISSPE, Istituto Siciliano Studi Politici ed Economici.
Una vera e propria dichiarazione di poetica dove l’artista fa conoscere l’intento della sua arte e nel silenzio smanioso della notte, mentre le stelle e la luna brillano nel cielo Serena canta …
 “…di l’amuri l’umanu turmentu
      di la vita li gioie e dulura
      e di l’omu l’eterna vintura…”
“Io cantu” fa parte del CD “Ora sugnu cuntenti”, tra le due pubblicazioni CD e libro c’è un anno di tempo, questo ha inevitabilmente portato a una differenza tra il parlato e lo scritto, proprio perché Serena Lao nella continua ricerca del modulo espressivo ha dovuto usare un certo rigore nella scrittura del siciliano che invece il parlato non impone. Per questo termini come “libbirtà” del CD, diventa “libbertà” nel libro e dunque le  differenze sono giustificate da questo motivo.
La pubblicazione “Cantu la libbertà ca m’apparteni” non è solo una raccolta ordinata di canti, ballate, brani scelti dalle operine e poesie, in queste sezioni è stato infatti suddiviso il libro, ma è soprattutto espressione dell’essenza più profonda di Serena Lao: il suo sentirsi ed essere libera, libera della scelta, la scelta di decidere da che parte stare e questo può accadere grazie alla libertà di pensiero della nostra artista, non lasciarsi condizionare da niente e nessuno è il solo modo per fare della realtà la lettura che Serena Lao fa e che ci trasmette.  Libertà di pensiero che lei esprime nel raccontarci il suo amore per Palermo e per la Sicilia e come scrive Umberto Balistreri nella prefazione al libro, “L’amore di Serena, a volte amaro, risuona come canto, nenia, ma anche come monito a essere più umani, più liberi…anche nella realistica e civile considerazione dello stato miserevole in cui si è ridotto il nostro paese”.
Le composizioni di Serena Lao sono quasi sempre scritte in strofe di 4 versi. Nelle quartine che a volte compongono le ottave la struttura metrica si definisce con la rima baciata secondo lo schema aa/bb. Questo crea nella narrazione una scansione ritmica che si ripete creando musicalità e orecchiabilità…espediente necessario alla tradizione orale dei cunti, tradizione a cui Serena si rifà per canti e ballate. Infatti per quanto rivisitati
nelle musiche con nuove sonorità e arrangiamenti che vanno dall’etnico al jazz, la nostra cantautrice alterna recitazione, melodia e intermezzo musicale. Questo è particolarmente evidente nelle sei operine musicali che hanno ottenuto ottimi consensi sia di critica che di pubblico.
Veri musicals minimalisti dove l’innovazione guarda al presente ma nell’assoluto scrupoloso rispetto del passato, nelle operine si trovano naturalmente più tecniche espressive insieme; canto, recitativo e musica.
Esempi ne abbiamo, tra altri, nella piece musico teatrale “Io… Rosalia”, nel racconto musico-teatrale “Luntanu”, ribattezzato a furor di popolo
Ballarò”, nell’operina “Francesco una follia d’amore” completamente arrangiata in musica jazz. Con “Io… Rosalia” sottotitolo “Supra na stidda cugghivu na rosa”, con chiaro riferimento a Santa Rosalia. Serena Lao è stata protagonista del  390° Festino palermitano, quello che porta la regia di Monica Maimone e ricordiamo che ha recitato attraverso i suoi testi “u cuntu” della vita della Santa su una delle terrazze della Cattedrale. In particolare il brano “Ballata di Palermo” tratto proprio dall’opera “Io …Rosalia” e musicato secondo un felice arrangiamento rinascimentale è la celebrazione  di Palermo e dei suoi luoghi. Serena Lao, attraverso le lodi della Santa alla città, in realtà non fa altro che declamare il suo immutato e viscerale amore per Palermo. Questo forte sentimento di Serena Lao per la sua città è come una raggiera, un’energia che parte e si diffonde da un unico centro …questo centro è il mercato di Ballarò, e l’amore per la sua Ballarò si irradia piano piano e poi in maniera impetuosa dal mercato alla città. Il brano “Lu Capannuni”, tratto appunto dall’opera musicale Ballarò, è testimonianza di quanto detto. Nei ricordi dell’autrice il mercato con i suoi suoni, le sue vibrazioni e u so capannuni, dove si vendono le merci, diventa centro catalizzatore di ricordi, sia per una memoria personale, sia per una memoria storico-sociale.
“…nto menzu i Baddarò lu me riuni
     c’era cunzatu un granni capannuni…
     ……………………………………
    Ora tuttu è canciatu u capannuni nun c’è cchiù
    si l’agghiuttiu lu tempu comu puru a gioventù”

Serena Lao nasce come cantautrice e questo rimane il suo principale tratto identitario, ma già prima ho detto che la nostra artista ha il pregio della versatilità e la sua intelligenza emotiva, cioè quel tipo di intelligenza volta alla conoscenza e alla valorizzazione delle emozioni, come ci insegna lo psicologo Daniel Goleman, non può non avere determinato in Serena anche la capacità di scrivere poesie. É una cosa che Serena ha sempre fatto ma, per quel pudore che accompagna spesso l’atto creativo, ce ne dà completa fruizione solo ora con il volume “Cantu la libbertà ca m’apparteni”. Quella delle liriche è la produzione più intimistica della Lao.
Essa si consegna generosa al lettore e ci lascia conoscere la parte di sé più profonda attraverso quel dialetto la cui forza ed espressione semantica evocano, più di ogni altra lingua, sentimenti e affanni dell’autrice.
Il siciliano che usa l’autrice è un dialetto immediato senza orpelli. L’artista infatti pone particolare attenzione alle parole che devono accompagnare la creatività e che devono esprimere gli stati d’animo di particolari vissuti.
Nella raccolta sono presenti ben 15 liriche, che spesso hanno una superficie metrica diversa da quella dei canti e delle ballate. Le poesie sono scritte secondo la struttura del verso libero e anche la rima adesso è meno impegnata, la troviamo solo là dove l’autrice ritiene opportuno costruire un certo ritmo attraverso un legame fonetico. Magistrale esempio lo troviamo nella bellissima ed emozionante poesia “Luna lunedda”, con la quale Serena Lao ha vinto il 1° premio assoluto per la sezione “poesie in lingua siciliana” alla XIIIª edizione del concorso letterario “Loredana Torretta Palminteri” nel 2014 (Baucina). Una lirica dove l’autrice affida l’umanità intera alla luna ed attribuisce ad essa la capacità di provare quella pietas che romani e greci ponevano tra i valori fondamentali della vita e che accoglieva in sé l’amore e il rispetto nei confronti di chi ci sta accanto, una luna umanizzata dunque e piena di compassione, sentimento che permette di agire la solidarietà nei confronti di chi soffre..
“…Luna lunedda facci di luna
      a tia ti la cantu sta bedda canzuna
      tu ca fai lustru nta la notti scura
     duna cunfortu a cu havi sventura…”
Un altro tema che ricorre spesso nelle composizioni di Serena Lao è quello della “ninna nanna”, una poesia che si intitola “Comu na vota” ce ne dà il senso. È il ricordo del nonno che morto da tempo si materializza attraverso il pensiero vivido e amorevole dell’autrice.
…”Aspetta anticchia, pigghiami nta li to’ vrazza, annacami
      e fammi addurmisciri comu na vota…”
In questa lirica c’è l’infanzia che emerge e il bisogno di attingere, come a una fonte d’acqua fresca che ristora, al ricordo delle carezze, di mmizzigghi, delle annacate,  per procedere nelle difficoltà della vita. Ogni essere umano ha questa esigenza ma in Serena Lao c’è forte la consapevolezza della nostalgia del passato, del dolore del non ritorno, tema che viene ampiamente trattato nelle liriche che parlano del tempo che passa, in particolare nelle poesie “Lu passatu nun mori mai”  e “A fotografia” Le poesie citate sono una conferma della complessità della vita dell’uomo. Spesso le aspettative sono deluse dagli accadimenti e dagli uomini stessi. Il rimedio a questo grande dolore, ci insegna Serena è proprio andare incontro al nostro destino, assecondandolo con coraggio nel bene e nel male e  trasformando il negativo in positivo scrive Serena Lao  “a vita è puru jocu si la sa’ pigghiari”
Questo non sempre però ci è concesso, lo vediamo nella poesia “Lu papaveru ‘nnamuratu”, 1° premio assoluto per la sezione “poesie d’amore” alla XIIª edizione Concorso letterario Giacomo Giardina, dove un bel papavero si lascia morire per una delusione d’amore, l’ultimo verso recita:
… “io moru pi n’amuri ca durò sulu un’ura!” …riflettiamoci sopra!
Bene, quello che abbiamo sentito e conosciuto stasera di Serena Lao è soltanto una minima parte della sua vastissima attività artistica. Abbiamo aperto con “Io cantu”, sua dichiarazione di poetica e chiudiamo con alcuni versi dell’ultima poesia presente nella raccolta “Nta lu silenziu…i me’ pinzeri”, un ponte tra il messaggio iniziale inviato dall’autrice
e la percezione di chi lo riceve, lasciando in ultima analisi a chi ascolta la scelta di riconoscere nella poesia di Serena Lao il grande valore dell’universalità.
 “…Chistu è un viaggi nni la fantasia
      si vuliti chiamatilu puru …puisia!”
E il valore dell’universalità della poesia della Lao viene subito riconosciuto dal poeta e saggista Tommaso Romano che nella poesia a lei dedicata per la pubblicazione del Cd “Ora sugnu cuntenti” e inserita nella copertina interna scrive:
“…Fedele al tuo canto,
      alla parola creativa
      in possente volontà…
      autentico è il tuo procedere
      nell’esistente poesia.”
Concludiamo con un plauso meritato alla nostra autrice che nel suo ricco e notevole percorso artistico ha ricevuto numerosi riconoscimenti.
 Nei concorsi letterari si è classificata al primo posto più volte con (“Ora sugnu contenti”, “Lu papaveru ‘nnamuratu” e “Luna lunedda”).
Le sono stati conferiti : il premio “Universo Donna”, il premio speciale alla Carriera all’interno del premio letterario “Madonie sotto le stelle”, il premio “Socialità e Cultura” per il suo percorso artistico e culturale, nell’ambito della musica siciliana, il premio della Cultura “AsprAzzurra”
2014, con la motivazione voce del 390° Festino di Santa Rosalia a Palermo, il Titolo di Accademico, honoris causa, conferitole dall’Accademia Vesuvianaua vastissima attività ar e ancora tanti tanti altri.
 Ringraziamo Serena Lao per l’importante contributo culturale che rende alla Sicilia e che ci fa sentire orgogliosi di essere siciliani.

mercoledì 4 novembre 2015

Memorie di un’epoca – Enzo Tortora: i giudici lo uccisero due volte –

di Luciano Garibaldi

In suo nome gli italiani andarono alle urne nel 1986. Il referendum, voluto dai Radicali, prevedeva la condanna dei giudici che, per incapacità o malafede, rovinano una persona. Esso fu vinto, anzi stravinto, con l’80 per cento dei voti. L’uomo in nome del quale gl’italiani avevano votato in massa era Enzo Tortora. Ma i risultati del referendum furono immediatamente vanificati grazie alla beffa della «legge Vassalli» (l’allora ministro della Giustizia, un socialista), autentica presa in giro degli italiani che avevano detto «sì» al referendum.
Gli italiani volevano, sic et simpliciter, che un giudice responsabile d’aver rovinato la vita d’un innocente per incapacità, disonestà, superficialità, pagasse di tasca propria. Ebbene, Vassalli, facendo finta di non aver capito ciò che voleva il popolo, preparò una legge che prevedeva la condanna esclusivamente di quei magistrati che avessero agito «con dolo o colpa grave»: due cose praticamente impossibili da dimostrare, anche perché un magistrato che agisse con dolo sarebbe un delinquente peggiore di qualsiasi delinquente, persino del peggiore dei mafiosi, mentre, purtroppo, per rovinare una persona, basta un imbecille pieno di sé. Ed è l’imbecille pieno di sé che la gente non tollerava nella funzione di giudice, è l’imbecille pieno di sé che la gente chiedeva a gran voce fosse privato dell’arma terribile della toga. Purtroppo, grazie ai cavilli di quella legge, nessun magistrato, nemmeno il più macroscopicamente imbecille e in malafede, paga oggi nulla per il suo comportamento.
Enzo Tortora morì a causa di alcuni magistrati di questa stoffa, oltreché per colpa della quasi totalità dei giornalisti italiani, schieratasi fin dal primo momento contro colui che era un loro collega. Eppure, chi è stato suo amico ed estimatore, come chi scrive queste note, sa che Enzo non si tirava mai indietro se c’era da battersi per una causa di giustizia. Per esempio, all’epoca del suo arresto, stava per metter mano ad un’indagine giornalistica sul linciaggio morale prima, e sull’assassinio poi, del commissario Luigi Calabresi, massacrato a Milano nel 1972 da fanatici dell’ultrasinistra. La persecuzione giudiziaria di cui cadde vittima lo distolse da questa ricerca, che toccherà poi al sottoscritto, dopo la sua morte, portare a termine.
Tutto ciò aiuta a capire quanto crudele sia stato, per lui, dover soccombere di fronte ad un’operazione di somma ingiustizia, somma proprio perché mascherata da giustizia e attuata da coloro che della giustizia avrebbero dovuto essere i custodi, anzi i sacerdoti: cioè i magistrati.
Tortora fu arrestato il 17 giugno 1983, mentre era all’apice del successo televisivo: la sua trasmissione del venerdì sera su Rai Due, «Portobello», vantava 28 milioni di telespettatori, un’audience mai più raggiunta da nessuno showman nel nostro Paese. Il suo arresto avvenne nel quadro del cosiddetto «maxiprocesso» alla camorra, un «maxiprocesso» nel quale furono tuttavia coinvolte soltanto alcune centinaia di figure di secondo piano, mentre i veri capi della malavita napoletana restavano al sicuro, e francamente non si è mai capito perché. Occorre premettere che Tortora, genovese ma di origini napoletane, detestava la camorra e in genere la malavita, e più volte ne aveva fatto oggetto di duri attacchi televisivi. Il suo coinvolgimento nella grande retata fu pertanto il risultato di un complotto nato nelle carceri ad opera di incalliti delinquenti come il pluriassassino Giovanni Pandico e il killer Pasquale Barra (aveva strangolato il boss Francis Turatello, squarciandogli poi il petto e mangiandogli il cuore), decisi a farla pagare cara a quel rappresentante del perbenismo borghese così severo nei loro confronti, ammesso che avessero agito di loro iniziativa e non imbeccati da qualcuno.
La cosa più incredibile è che le accuse lanciate contro Tortora e raccolte a verbale prima dai carabinieri e poi dalla Procura di Napoli, iniziarono nel marzo 1983, sicché la magistratura ebbe tutto il tempo per verificarle. Ma nessuna indagine bancaria fu fatta sui conti di Enzo, né il suo telefono fu posto sotto controllo, né egli venne mai pedinato. Al colonnello dei carabinieri Roberto Conforti e al procuratore di Napoli Francesco Cedrangolo bastarono quelle accuse basate sul nulla, che chiunque poteva inventare, per decidere di rovinare un galantuomo come Tortora. Il dottor Cedrangolo ricevette da chi scrive un accorato rapporto che lo metteva in guardia contro il terribile errore giudiziario che si stava commettendo: un rapporto che gli feci pervenire attraverso sua nuora, la mia amica e collega, oggi scomparsa, Francamaria Trapani, e al quale il procuratore non si degnò neppure di rispondere.
Dal momento dell’arresto, reso clamoroso dalla triste immagine televisiva di Tortora trascinato via dai carabinieri in manette, mandata in onda ben dieci volte dai telegiornali di quella TV di Stato al successo della quale Enzo aveva pure collaborato in maniera tanto determinante, l’operato degli inquirenti fu mirato, anziché a cercare prove e riscontri alle accuse, a raccogliere le più inverosimili chiamate di correo, inventate da paranoici, mitomani, criminali come Gianni Melluso, calunniatori di professione, ricercatori di occasioni autopubblicitarie come un pittore fallito di cui non ricordo il nome e che, sperando in una intervista con tanto di foto, venne a trovarmi nel mio ufficio di caporedattore al settimanale “Gente”, dal quale lo cacciai fuori a calci.
Bastava che uno di tali individui, dall’interno di un carcere, o dall’anonimato della sua squallida vita quotidiana, si presentasse agli uomini del colonnello Conforti e ai sostituti del dottor Cedrangolo, perché le sue parole venissero prese come oro colato, pur prive del benché minimo straccio di prova, e il personaggio in questione ottenesse immediatamente un trattamento di favore. Ormai quei Pm erano accecati dallo spasmodico sforzo di tenere in piedi la loro inchiesta, che sarebbe miseramente franata qualora si fosse scoperto il marchiano errore compiuto con Tortora. Si arrivò a contestare al famoso presentatore un numero di telefono trovato sull’agendina di un camorrista: senonché quel numero corrispondeva a un certo Enzo Tortòna. Tortòna, e non Tortora. E comunque, sarebbe bastato comporlo sulla tastiera telefonica, per capire che il famoso giornalista non c’entrava nulla. Ma, per non correre il rischio, quei magistrati indegni (come li definirà poi la sentenza d’appello) attesero ben otto mesi prima di decidersi a fare quella telefonata.
Uno scempio simile della giustizia e del diritto non sarebbe potuto avvenire senza la complicità di quasi tutti i giornalisti italiani, colpevolisti fin dall’inizio o per beceraggine, come l’editore e (per vile piaggeria) il direttore del settimanale del quale ero allora capo redattore, e dal quale rassegnai, sdegnato, le dimissioni, o semplicemente perché, in un’epoca in cui trionfava il sovversivismo di sinistra di marca radical-chic, Tortora, vecchio liberale, rigido conservatore di destra, stava antipatico a quei miserabili. I quali, alla notizia della condanna a 10 anni, arrivarono all’onta di brindare a champagne.
Né si può dimenticare la responsabilità morale dei liberali «ufficiali», da Zanone (l’affossatore del PLI: sua la frase suicida «Il PLI è un partito che si colloca a sinistra della DC») fino a Malagodi, suoi compagni di partito (Tortora era iscritto al PLI dall’immediato dopoguerra), che non mossero un dito per difenderlo, lasciandone l’incombenza a Marco Pannella e perdendo così un’occasione storica, non meno che quella, gravissima e inconcepibile, dell’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini, ch’ebbe a dichiarare: «Tortora si è difeso male», forse non dimentico di una trasmissione di Antenna Tre in cui Enzo, assieme a me, gli aveva rinfacciato una sua proverbiale battuta: «Le Brigate rosse sono nere». Miserie ch’ebbero il risultato di far risaltare il grande merito di Francesco Cossiga, il quale, salito al Quirinale nel 1985, convocò Enzo Tortora, nella sua veste formale di presidente del Partito Radicale, indifferente alla sua condizione di detenuto agli arresti domiciliari, trattandolo con un tale calore umano e una tale simpatia da non lasciare dubbi sul messaggio che aveva inteso lanciare a tutta l’opinione pubblica.
Tortora era uscito dal carcere il 17 gennaio 1984, profondamente piegato nello spirito e nel fisico. L’unico a porgergli una mano fu Marco Pannella, che gli offrì una candidatura alle imminenti elezioni del Parlamento europeo. Fu un successo travolgente. Tortora fu eletto con oltre 500.000 preferenze. Caso unico nella storia d’Italia del secondo dopoguerra. Un Pm napoletano, il dottor Diego Marmo, dichiarò: «E’ stato eletto con i voti della camorra», non tenendo conto del fatto che quelle preferenze il neo deputato le aveva ricevute al Nord.
Il processo ebbe inizio il 14 febbraio 1985 e andò avanti sette mesi, in un clima di autentico sopruso giudiziario nei confronti di Tortora. Tutte le eccezioni dei suoi difensori erano sistematicamente respinte. Neppure le tardive ritrattazioni dei pentiti, indotti a smentire ciò che avevano affermato in sede istruttoria perché mai abbastanza soddisfatti del trattamento di favore riservato ai calunniatori, furono prese in considerazione. Tortora «doveva» essere condannato. E fu condannato a 10 anni di reclusione, con una sentenza, emessa il 17 settembre 1985, nella quale Enzo veniva definito «un cinico mercante di morte».
Spogliatosi, come aveva solennemente promesso, dell’immunità parlamentare, con le dimissioni rassegnate a Strasburgo, Tortora fu rinchiuso agli arresti domiciliari. Ebbe finalmente giustizia nel settembre dell’anno seguente, il 1986, con la sentenza della Corte d’Appello di Napoli, che lo proscioglieva da qualsiasi accusa con la formula più ampia, e cioè «per non aver commesso il fatto». Sentenza poi confermata in Cassazione. Nel 1987 tornò in TV con «Portobello», ma ormai non era più il brillante e polemico «anchorman» di un tempo. Un velo di amarezza, un sorriso triste gli segnavano il volto.
Il cancro lo aggredì mentre stava lanciando «Giallo», la sua nuova trasmissione. Morì il 18 maggio 1988, all’età di 60 anni. Volle essere cremato, e volle che, assieme alle sue ceneri, fosse chiusa nell’urna una copia della «Storia della colonna infame» di Alessandro Manzoni. Non soltanto nessuno dei magistrati che lo perseguitarono, ma neppure i suoi calunniatori hanno pagato. Malgrado si tratti di rapinatori o pluriassassini, sono tutti in libertà.
Alcuni anni dopo la sua morte, la sua memoria fu ancora insozzata da una sentenza della magistratura. Gianni Melluso, in una intervista, lo aveva definito «mercante di morte». Ne era seguita una denuncia per calunnia presentata dalla figlia di Tortora. Ebbene, il procedimento fu archiviato il 14 ottobre 1990 dal giudice istruttore di Napoli. Secondo il decreto di archiviazione, «l’assoluzione di Tortora rappresenta soltanto la verità processuale e non anche la verità reale sul fatto storicamente verificatosi».
Richiamandosi a questa sentenza, mai appellata per totale e purtroppo comprensibile sfiducia nell’Ordine giudiziario, un qualsiasi azzeccagarbugli che vesta la toga del giudice è di fatto autorizzato a gettare fango sulla memoria di Enzo Tortora.

IV Novembre festa delle Forze Armate. I militari vinsero la guerra, i politici la persero

di Aldo A. Mola

La Grande Guerra cominciò il 28 luglio 1914 come conflitto austro-serbo. In pochi giorni la conflagrazione divenne europea, con ripercussioni negli imperi coloniali afro-asiatici. Le potenze in lotta si scontrarono anche a migliaia di chilometri dal Vecchio Continente (soprattutto in mare, come nella battaglia navale anglo-germanica alle Falkland, l'8 dicembre), ma la guerra rimase tra europei: l'Intesa anglo-franco-russa da una parte, gli Imperi centrali germanico e austro-ungarico dall'altra. Gli Stati Uniti d'America il 4 agosto e la Cina due giorni dopo si dichiararono neutrali. Il 23 agosto il Giappone aprì, sì, le ostilità contro la Germania, ma le condusse solo nell'Estremo Oriente. Per un paio d'anni la guerra rimase ferma in teatri circoscritti e venne condotta con mezzi modesti, quasi rudimentali. I suoi nuovi protagonisti (la Turchia dal 1° ottobre 1914, l'Italia dal 24 maggio 1915, la Romania dal 27 agosto, la Bulgaria dall'11 ottobre...) gettarono nella fornace uomini e armi (fucili, artiglieria, pochi carri, poche navi) ma non mutarono le dimensioni del conflitto. Anche l'impiego dei gas asfissianti (Ypres, 22 aprile 1915) accrebbe l'orrore, senza però determinare la svolta verso l'agognata vittoria campale definitiva.
I tentativi anglo-francesi di operazioni strategiche (l'attacco ai Dardanelli, lo sbarco a Salonicco, l'eliminazione dei tedeschi dall'Africa sud-occidentale...) fallirono o vennero bilanciati dalle iniziative degli avversari (lo sfondamento degli austro-bulgari in Serbia nell'ottobre 1915, l'ascesa di Kemal Pascià a salvatore della patria in Turchia, la travolgente avanzata tedesca in Romania). In quei primi due anni la Grande Guerra europea causò un sacrificio di uomini e risorse ingente ma inutile: le battaglie della Marna, di Verdun, della Somme, dei laghi Masuri, l'avanzata russa in Galizia, quella tedesca in Polonia, le “spallate” italiane sull'Isonzo, la spedizione punitiva austriaca nel Trentino, la conquista italiana di Gorizia costarono milioni di morti per pochi chilometri.
Nel 1917, invece, la guerra divenne davvero mondiale. Nel dicembre 1916 gli Imperi Centrali avanzarono proposte di pace. Da poco rieletto presidente degli Stati Uniti con la promessa che l'America sarebbe rimasta estranea al conflitto, Woodrow Wilson auspicò una composizione “senza vincitori”. Poi, però, il conflitto precipitò. A fine gennaio i laburisti inglesi dichiararono che bisognava combattere fino all'annientamento degli Imperi Centrali (Germania, Austria-Ungheria e loro alleati), come del resto prevedeva l'Intesa: né armistizi, né paci separate. Sotto tutela inglese dal 1641, nel febbraio 1917 il Portogallo entrò in guerra, anche per difendere le sue colonie, insidiate dai tedeschi. I britannici fecero ingresso in Baghdad, alimentando la rivolta degli arabi contro i turchi iniziata sin dal maggio 1915.
A metà marzo del 1917 lo zar di Russia Nicola II venne travolto dalla rivoluzione e abdicò. L'Impero cadde nelle mani dell'inetto Kerenski, succubo dei franco-inglesi, che gli imposero di proseguire la guerra. Intuitone il fallimento, il 6 aprile gli USA, già massima potenza finanziaria e industriale del pianeta, dichiararono guerra all'Impero di Germania. Sulla loro scia, a metà agosto del 1917 scesero in campo a fianco dell'Intesa la Cina, la Liberia, il Siam, il Brasile. La Germania scatenò la guerra sottomarina per impedire i rifornimenti ai suoi nemici: un “blocco continentale” che fece impazzire i prezzi delle materie prime, delle risorse alimentari e dei beni di consumo. Le conseguenze furono drammatiche. I combattenti vissero le pagine peggiori del conflitto. Lo dimostrano gli ammutinamenti in Francia e le condanne a morte di militari in Italia (poche centinaia, con una punta nel luglio1917: episodi gravi ma quasi irrilevanti rispetto a quanto accadde su altri fronti e allo “sciopero militare” in Russia.
La situazione, tuttavia, non fu migliore nelle città degli stati coinvolti nel conflitto, anche se situate a centinaia di chilometri dal fronte. L'Italia patì razionamenti, freddo, fame, un clima di guerra civile strisciante condotta dal “Fascio di difesa nazionale” contro i presunti nemici interni: i cattolici, colpevolizzati perché papa Benedetto XV il 1° agosto definì la guerra una “inutile strage”, i socialisti, perché il deputato Claudio Treves intimò: “Non un altro inverno in trincea”, e quanti si riconoscevano nel liberaldemocratico Giovanni Giolitti, da sempre auspice di una composizione pattizia del conflitto e ora fermamente contrario alla diplomazia segreta.
In tutte le guerre i combattenti valutano le forze proprie e quelle dell'avversario, propongono  tregue, armistizi e paci durevoli. Quando divenne mondiale la guerra mutò volto. Divenne totalitaria. Ebbe per obiettivo l'annientamento del nemico.
L'Italia, che il 25 agosto 1916 aveva dichiarato guerra alla Germania, visse la pagina peggiore con lo sfondamento del suo fronte da parte degli austro-tedeschi il 24 ottobre 1917. Dall'Isonzo l'esercito italiano arretrò al Piave. Quindici giorni terribili, segnati non solo dalle perdite militari (quasi trecentomila prigionieri, sbandati, armi e munizioni da fuoco e “da bocca” cadute in mano nemica...), ma anche dalle nefandezze del nemico contro la popolazione civile: una somma di crudeltà che portò la maggior parte dei suoi “popoli” (non tutti, va detto in modo chiaro cent'anni dopo) a schierarsi compattamente per la difesa dell'unico patrimonio irrinunciabile: l'Italia.
Quell'Italia aveva un unico cardine: Vittorio Emanuele III. I governi passavano (Salandra, Boselli, Orlando), il re era l'unico interlocutore per gli “alleati”: Francia, Gran Bretagna e poi gli USA che solo l'8 dicembre 1917, due mesi dopo la vittoriosa “battaglia d'arresto” sul  Piave, dichiararono guerra all'Impero d'Austria.
Entrata in guerra malvolentieri e nel timore del peggio, per calcoli miopi di politica interna più che in una visione di ampio respiro, l'Italia faticò. Con la battaglia di Vittorio Veneto a fine ottobre 1918 travolse l'esercito austro-ungarico. A vincere furono le Forze Armate, anzitutto l'Esercito, il popolo italiano chiamato in massa alle armi, per anni inchiodato in condizioni disperate ma deciso a battersi con la guida di generali che per visione strategica e capacità di comando non erano secondi ai più famosi comandanti degli altri eserciti in lotta.  Il comandante supremo Luigi Cadorna forgiò la macchina militare italiana malgrado il modesto sostegno dei governi Salandra e Boselli. Luigi Capello ottenne successi. Emanuele Filiberto, Duca d'Aosta, mostrò polso e meritò fama di guerriero invitto. Subentrato a Cadorna dopo la ritirata al Piave, il napoletano Armando Diaz ne continuò l'opera: fare della guerra sul fronte italiano la punta avanzata della liberazione delle nazioni oppresse, in linea con il ruolo svolto dall'Italia nella lotta per l'unificazione durante il Risorgimento: un caso unico nel secolo XIX, grazie alla convergenza ideale e istituzionale tra pensiero di Mazzini, azione di Garibaldi e rango di Vittorio Emanuele II, che si erse a sintesi del processo storico. Nella documentata biografia di Armando Diaz (ed. Bastogi), il generale Luigi Gratton ha pubblicato le lettere nelle quali il comandante supremo descriveva alla moglie gli obiettivi politici della guerra italiana, intesa come guerra di liberazione europea.
Nell'armistizio Diaz fece inserire il diritto dell'Italia ad attraversare in armi l'Austria per attaccare la Germania da sud, fronte sul quale i tedeschi non erano preparati a contenere l'offensiva. Sconvolta da ammutinamenti e da scioperi, messa con le spalle al muro dalla perentoria richiesta di consegnare ai vincitori il kaiser Guglielmo II (che prudentemente riparò nei Paesi Bassi, come le monarchie baltiche), la Germania sottoscrisse l'armistizio nella foresta di Compiègne e si avviò alla pace umiliante di Versailles (28 giugno 1919), che la bollò quale responsabile della guerra e le impose “riparazioni” dalle conseguenze economiche, civili e morali devastanti: una pace cartaginese che alimentò l'odio e gettò i semi del nazionalsocialismo e della seconda guerra mondiale.
Mentre i militari vinsero, il governo sperperò il sacrificio della nazione con una condotta politico-diplomatica incoerente, ferma all'arrangement di Londra del 26 aprile 1915, ignorato dal vero vincitore della guerra mondiale, gli USA di Wilson che dal 18 gennaio 1918 aveva enunciato in 14 punti i capisaldi della pace ventura: autodeterminazione dei popoli e libertà dei mari, una visione planetaria lontanissima da quella paleo-imperialistica del ministro degli Esteri italiano, Sidney Sonnino, in carica dal novembre 1914, ancora convinto che l'Impero austro-ungarico sarebbe sopravvissuto alla catastrofe e che mirò al dominio italiano sull'Adriatico in una concezione fatalmente antieuropea: un obiettivo del tutto superiore alle risorse del Paese, in conflitto con la sua tradizione liberale e poi frustrato con il Trattato di pace del 10 febbraio 1947 e dal Trattato di Osimo del 1975.
Nella primavera del 1915 il re aveva subìto l'offensiva di minoranze rumorose (nazionalisti, repubblicani, socialriformisti filofrancesi, i dannunziani e Benito Mussolini, movimentista prima e dopo…) che intimavano “guerra o rivoluzione” e aveva optato per l'intervento. Si allentò in tal modo il filo che aveva saldato la monarchia con i “moderati”, pilastro portante della storia d'Italia. Ne approfittarono gli estremisti i quali, per legittimarsi, si servirono anche dell'“Inchiesta su Caporetto” (*), sconsideratamente avviata sin dal gennaio 1918. Questa alimentò la decennale polemica contro i militari e causò l'indebolimento del Paese, rassegnato a ruolo marginale e subalterno nel quadro politico planetario. Perciò un secolo dopo l'ingresso in guerra, la Vittoria del IV novembre, festa delle Forze Armate, merita memoria e attenta riflessione.
Aldo A. Mola
(*) Pubblicata nel 1919 e ormai introvabile, l' Inchiesta è stata riproposta in edizione anastatica dall'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito, dal Centro Giolitti di Dronero-Cavour e dall'Associazione di Studi sul Saluzzese, con il sostegno  della Fondazione Cassa di Risparmio di Saluzzo.

da: "Il Giornale del Piemonte", 1 Novembre 2015