lunedì 12 ottobre 2015

Il Paese dove non volano le cicogne

di Clemente Sparaco

’Italia ha un problema di diminuzione delle nascite.
Dal 1964, anno record per la fertilità nazionale, la natalità è andata progressivamente decrescendo. La denatalità si è, quindi, accentuata per poi cronicizzarsi nella seconda metà degli anni ‘70. Si è passati, così, da un milione di nati nel 1964 a poco più di mezzo milione nel 2014 (dato che comprende anche i nati da genitori stranieri, che sono quasi il 15% del totale).
Negli anni 2000, quindi, il numero dei morti ha superato il numero dei nati e si è andati incontro ad una decrescita demografica.

                                         

Lo scenario è da declino demografico.
Le italiane fanno pochi figli, in media 1,29 per donna (il dato nazionale è di 1,39, comprendendo anche il contributo delle straniere residenti), a fronte di una media UE di 1,58 (2012), e li fanno sempre più tardi (a 31,5 anni in media il primo figlio). Il dato è, comunque, ben al di sotto della soglia di ricambio (2,1 figli per donna), che permetterebbe un equilibrio quantitativo fra vecchie e nuove generazioni. Il 25% delle donne italiane non diventerà mai madre, contro il 14% delle americane e il 10% delle francesi. L’età avanzata in cui si decide di affrontare la prima gravidanza, tra l’altro, incide sull’aumento dell’infertilità, che affligge ormai il 20% delle coppie italiane, come hanno dichiarato eminenti ginecologi ed ostetrici.
E la denatalità è destinata ad accentuarsi, perché il fenomeno, protratto nel tempo, ha prodotto l’innalzamento dell’età media della popolazione, che supera i 44 anni. Siamo diventati una nazione di anziani, una fra le più invecchiate d’Europa e del mondo. Né le previsioni lasciano intravedere un’inversione di tendenza.
Pertanto, l’Italia si presenterà nei decenni venturi con una struttura per età fortemente squilibrata, con ultra sessantacinquenni che saranno all’incirca il doppio dei giovani con meno di 15 anni.
Autorevoli Istituti, come il MPIDR (Max Planck Institute for Demographic Research), avevano osservato appena qualche anno fa, in riferimento ad alcuni paesi europei, fra cui il nostro, che l’era di bassissima fecondità era giunta al termine. In effetti, nei primi anni 2000 si è riscontrato un discreto incremento delle nascite. Esso ha segnatamente interessato le regioni del Centro-Nord, mentre nel Sud, che partiva da valori di natalità sensibilmente più alti, è proseguito il fenomeno della diminuzione delle nascite.
Dal 2009 si è registrato invece un diffuso e generalizzato nuovo calo, come il grafico evidenzia.

                                         

Questa ulteriore contrazione è il portato di una serie di fattori, di cui uno è rintracciabile nel fatto che le classi di donne che arrivano al periodo dell’esperienza riproduttiva sono sempre meno numerose a fronte di quelle che, nate negli anni ’60 o nella prima parte degli anni ’70, ne escono o ne sono appena uscite.
Ma il fattore che nel breve termine più ha influito è la crisi economica.
Essa ha inciso in modo marcato facendo presumere una relazione di causa-effetto tra il restringersi delle prospettive economiche e il contrarsi delle nascite. Se, infatti, il 44% dei giovani al di sotto dei 29 anni è disoccupato (nel Sud il dato è superiore al 54%!), va da sé che ogni aspirazione ad avere una famiglia propria con figli è destinata ad essere frustrata o rinviata.
La preoccupazione per il futuro nelle giovani coppie, in ragione della situazione lavorativa nulla o precaria in cui si trovano, crea, dunque, un ostacolo spesso insormontabile. Un dato su tutti: in 5 anni gli occupati under 35 sono calati di quasi 1,8 milioni! “I lunghi anni della vita riproduttiva – ha scritto Giulia Cortese su Futuro Europa del 9-10-2014 –vengono impiegati tra università, la ricerca di un lavoro stabile e di una solidità economica, e quando finalmente si riesce ad ottenere una stabilità lavorativa, economica e di coppia il pensiero di dover rimettere tutto in discussione per avere dei figli mette timore”.
Distratte da questi problemi, molte donne finiscono per ignorare gli inevitabili limiti biologici che condizionano la fertilità, specie approssimandosi la soglia dei 40 anni.
Quanto alle famiglie già formate, l’Istat certifica che il 40% di esse con più di 3 figli è a rischio povertà o di esclusione sociale. Grave, in particolare, è la situazione dei genitori lavoratori: tra il 2008 e il 2013 si registrano +303mila padri e +227mila madri disoccupati. Aumenta, di conseguenza, il numero delle famiglie dove solo lui o solo lei ha un impiego.
L’inconsistenza delle politiche familiari
I tassi di natalità in Europa meridionale, sono fortemente colpiti dall’aumento della disoccupazione rispetto a quelli dell’Europa Centro-Settentrionale. “Questo riflette la situazione particolarmente instabile del lavoro all’inizio della vita lavorativa nei paesi del sud” – ha sostenuto Michaela Kreyenfeld del MPIDR. Riflette, in particolare in Italia, l’inconsistenza di una politica per i giovani e per il lavoro, nonché di una per la famiglia.
Malgrado ogni schieramento politico abbia ostentato attenzione verso le famiglie, specie in fase elettorale, mancano misure concrete ed efficaci che aiutino le famiglie a sostenere problemi ordinari e straordinari. Oggi, in tempi di ristrettezze economiche, le famiglie con figli sono sempre più tartassate. “Sembra che per la normativa fiscale del nostro Paese sia irrilevante che una famiglia decida di allevare, istruire ed educare un figlio, quasi che la scelta di avere o adottare un bambino appartenga alla sfera delle decisioni private dimenticando che le giovani generazioni sono il futuro del Paese” – ha affermato l’economista Luigi Campiglio. Anzi, dal punto di vista fiscale, è oggettivamente avvantaggiata una coppia di fatto rispetto ad una coppia regolarmente coniugata: basti pensare agli assegni familiari o ai ticket sanitari per cui il reddito considerato è solo quello del genitore coi figli a carico.
Persiste poi, come ha evidenziato Fabio G. Angelini (Formiche.net 15-6-2015) “una grave confusione tra il piano dei diritti individuali (vedi il “diritto di sposarsi” riconosciuto a tutti o il preteso “diritto al figlio”) e quello della funzione sociale della famiglia naturale fondata sul matrimonio di cui all’art. 29 della Costituzione che, in virtù della sua naturale propensione alla trasmissione della vita ed alla formazione delle persone, è riconosciuta come fondamentale formazione sociale, precedente rispetto allo Stato (e, quindi, al legislatore), e tutelata in quanto elemento cardine per lo sviluppo della società”.

                                          

C’è, in definitiva, un clima sociale assolutamente sfavorevole alla famiglia in quanto tale, nonché alla paternità e alla maternità.
Manca una rete di supporto familiare. Manca una riforma fiscale basata sul “fattore famigliare” (come già avviene in Francia) e indirizzata verso la natalità. C’è un problema serio nel rapporto maternità-lavoro, che le famiglie ed, in particolare, le donne si trovano ad affrontare da sole. La rete di asili-nido o è carente o è impraticabile in ragione dei costi elevati. Il sovraccarico sulla mamma che lavora è intollerabile, per cui non è un caso che quasi una madre su quattro a distanza di due anni dalla nascita del figlio non abbia più un lavoro (dato del 2012).
Ma il problema della famiglia oggi è, prima ancora dell’accordo di qualche forma di agevolazione economica o di assistenza, il riconoscimento del ruolo decisivo che riveste come soggetto sociale. In tempi di pretesa e affermazione di diritti individuale, la famiglia fondata sulla reciprocità fra i sessi e le generazioni, con il suo carattere relazionale e pre-statuale (che la Costituzione riconosce), si trova a far fronte contro una cultura che ne misconosce la sua assoluta rilevanza pubblica.

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