venerdì 28 agosto 2015

Giovanni Guareschi: un uomo nobile

di Francesco Agnoli

Alla morte di Giovannino Guareschi (a sessant’anni, nel 1968), nessun messaggio giunge dalle autorità di governo, nessuno da uomini politici. Solo tante calunnie, aspre e velenose, dai giornali più diffusi e da quelli di partito. Colui che aveva creato e diretto il settimanale più letto d’Italia, il “Candido”, lo scrittore italiano più tradotto al mondo, veniva dimenticato dall’Italia ufficiale, piena di fretta di seppellirlo, ma non dalla gente della Bassa, accorsa in massa al suo funerale. Nella predica il parroco apre un libro del defunto, e legge. “Adesso vi racconto tutto di me: ho l’età di chi è nato nel 1908, conduco una vita molto semplice, non mi piace viaggiare, non pratico nessuno sport, non credo in tante fantasticherie. Ma in compenso credo in Dio”. Poi il parroco prosegue: ” Su questa terra noi piantiamo la croce di Cristo, del tuo Cristo che hai saputo far vibrare nei cuori e nelle coscienze degli italiani e di tanti altri milioni di uomini, soprattutto nell’ora della lotta”.
La fretta di seppellire Guareschi continua ancor oggi, nel volenteroso sforzo di farlo dimenticare, ad esempio eliminandolo dalle antologie scolastiche, in cui invece trovano spazio autori noiosissimi, che non hanno mai avuto vera fortuna presso il pubblico, ma solo presso l’onnipotente giudizio della critica. Ma chi era Giovannino Guareschi? Un uomo senz’altro eccezionale, sin dalla prima giovinezza. I compagni ricordano il suo spirito goliardico, la sua intraprendenza, la sua intelligenza vivace. Scrive di lui Cesare Zavattini, suo istitutore in quinta ginnasio: “Troppo spiritoso. La sua verve è spesso inopportuna. Le sue mancanze sono conseguenza d’irrefrenabili doti umoristiche. Veramente intelligente, ottiene per lo studio, con i minimi mezzi, i massimi risultati”. Finita la scuola, iscrittosi all’Università, più per partecipare alle feste studentesche che altro, si cimenta in una grande varietà di mestieri: elettricista, caricaturista, cartellonista, scenografo, custode di depositi di biciclette ecc. Finalmente riesce ad approdare al mondo del giornalismo: lavora dapprima per alcuni quotidiani emiliani, finché nel 1936 si trasferisce a Milano, con la moglie Ennia, per lavorare al Bertoldo, insieme ad Achille Campanile, Giovanni Mosca e Cesare Zavattini.
Dal 1940 collabora anche col Corriere della Sera. Fin dai primi anni di giornalismo Guareschi snobba le conventicole degli intellettuali e degli scrittori che si elogiano e si premiano a vicenda, e col suo stile semplice e pieno d’umorismo svillaneggia la retorica ufficiale. L’umorismo gli appare il nemico giurato di ogni retorica di regime, di ogni menzogna ufficializzata e consacrata: “Liberiamoci dalla parte peggiore di noi stessi, guardiamoci allo specchio e ridiamo della nostra tracotanza, del nostro barocco messianismo, della nostra retorica. Guardiamoci allo specchio dell’umorismo, così come ho fatto tante volte io, cittadino-niente, che, quando mi specchio e vedo sul mio viso un truce cipiglio, scuoto il capo e dico: Giovannino, quanto sei fesso!”. Nel 1942 Guareschi viene arrestato dai fascisti, “per aver comunicato al rione Gustavo Modena, Ciro Menotti, Castelmorrone ciò che in quel momento pensavo di tutta la faccenda. Si tratta di un episodio poco onorevole in quanto accade che io, la notte del 14 ottobre 1942 – riempitomi di grappa fino agli occhi in casa di amici- per tornare alla mia casa di via Ciro Menotti, che è lontana non più di ottocento metri, impieghi due ore. E in quelle due ore urlo delle cose che poi l’indomani trovo registrate diligentemente in quattro pagine di protocollo…Gli amici mettono in moto l’eterna macchina della camorra italiana in modo da sottrarmi alle giuste sanzioni della legge, e, per prudenza, mi fanno richiamare alle armi“.
Sembra insomma, chiosa Guareschi, “che per perdere la guerra ci sia assoluto bisogno della mia collaborazione”. Così finisce in Egitto, per alcuni mesi. Dopo l’8 settembre si trova di fronte alla grande decisione: collaborare coi fascisti e coi tedeschi, diventare partigiano o restare fedele al giuramento fatto al re. Giovannino opta per la terza scelta, e la paga duramente, con due anni di lager, durante i quali rifiuta più volte l’opportunità di venir liberato in cambio di una collaborazione, anche solo di penna. Nell’atmosfera cupa ed angosciante del lager non si dà per vinto: organizza teatrini, inventa favole piene di speranza, promuove chiacchierate e discussioni tra internati, tenendo desto il desiderio di vivere di chi lo circonda. Chi scrive ha conosciuto persone che devono alla sua vitalità e alla sua forza di non essere sprofondate nella disperazione, e, forse, nella morte. “Non muoio neanche se mi ammazzano”, è il suo motto di quei giorni.
Ma lo sconforto prende talora il sopravvento anche in un animo fiero come il suo: “Le mie ore si annullano in questa sabbia, e ogni ora mi ruba una goccia di vita, un sorriso dei miei figli, e io vedo me stesso scendere gradino per gradino la scala che non si risale mai più. Questa noia che sa di catrame come l’aria di questa terra ostile…Un anno è finito. Un anno comincia. La noia continua, niente di nuovo”.
Finalmente arriva la liberazione, e Guareschi può tornare a casa: “Per ventiquattro mesi ho calpestato sabbia di lager e la sabbia non dà suono, e così il mio passo ha perso la sua voce. Ora ritrovo sulle lastre del porticato la voce del mio passo. …Non ho notizie dei miei da troppo tempo. La guerra è passata lì vicino: li ritroverò tutti? Qualcuno? Nessuno? E proprio e solo adesso, quando l’avventura è finita, ho paura e mi sfascio sulla riva del fosso, come uno straccio….Quando arrivo davanti a casa mia sta schiarendo e io rimango seduto sulla sponda del fosso e aspetto che il sole si sia ben levato e intanto guardo le finestre chiuse e soffro come non ho mai sofferto neanche lassù. Perché lassù si aveva un po’ l’idea che tutto si fosse fermato, a casa nostra, e soltanto al nostro ritorno la vita avrebbe ripreso il suo naturale corso. Poi, a un tratto, sento una voce gridare qualcosa: ed è la mia voce e io ne sono terrorizzato e attendo con gli occhi sbarrati che tutte le finestre si aprano e conto le teste che spuntano fuori: una, due, tre, quattro. Ne manca una, la più piccola. Allora lascio il sacco in riva al fosso e corro dentro e, sperduta in un enorme letto, trovo la signorina Carlotta che dorme. E dico “Cinque!”, anche se la prima cosa che vedo non è una testa, ma un sederino rosa…Ennia è più magra di me. E’ un sacchetto d’ossa tenute insieme soltanto dal desiderio di farsi ritrovare viva da me al mio ritorno“.
Ma il ritorno tanto desiderato si tinge presto di scuro. Non c’è, ad accoglierlo, un paese unito, desideroso di rialzarsi, di ricominciare. Non c’è uno spirito comunitario, un sentimento di fratellanza, come quello che si era creato tra compagni di lager, nell’ora del dolore, della nostalgia e della speranza: “gli italiani non hanno imparato niente dalla guerra. E’ triste: nelle guerre imparano qualcosa soltanto i morti”. Infatti l’Italia è divisa dall’odio di classe, dal veleno di un’altra ideologia, non meno terribile di quelle sconfitte. Alla guerra mondiale si è sostituita la guerra civile, il rancore e l’odio tra compaesani e connazionali. Guareschi ricorda soprattutto, come segno evidente di questo clima appestato, il riso di disprezzo di una ragazza seduta su una panchina: “Ogni tanto, tra una raffica e l’altra di riso, urla qualcosa sui miei baffi, sui miei capelli. E io che rido tanto degli altri e che non mi arrabbio se qualcuno ride di me, per quel riso non mi offendo: mi sgomento. …La ragazza non ha nessuna ragione. Non sa nemmeno chi sono: a lei non piacciono i miei baffi e i miei capelli, perché un uomo che li porta di quel genere è uno degli altri. Un rappresentante della classe odiata che bisogna impiccare”.
Di fronte a tutto ciò Guareschi ricorre ancora all’unica arma che conosce, la sua penna, e fonda, nel dicembre 1945, il “Candido”: il giornale che svelerà, puntualmente, le stragi comuniste, specie in Emilia Romagna ed in Toscana; che denuncerà il passaggio in massa degli intellettuali fascisti al comunismo; che consacrerà le figure di Peppone e di don Camillo, destinate a rimanere nell’immaginario collettivo per molti anni. Bisogna leggere queste storie, piene di umorismo leggero, di umanità, ma anche profondamente storiche, per capire l’atmosfera di quegli anni: “L’ambiente in cui i miei personaggi operano è il mio paese. E’ la Bassa. Alla Bassa, dove il sole d’estate spacca la testa alla gente, e dove, d’inverno, non si capisce più quale sia il paese e quale il cimitero, basta una sciocchezza come una gallina accoppata a sassate o un cane bastonato per mettere due famiglie in guerre perpetua…Alla Bassa, dove le strade sono lunghe e diritte, da una parte c’è l’alba e dall’altra il tramonto, piacciono i tipi con una fisionomia precisa, facili da amare e facili da odiare“.
“Candido” diviene così il giornale che, insieme ai Comitati civici di Luigi Gedda, segna la sconfitta dei comunisti e la vittoria della Dc nel 1948. Ben più di De Gasperi, col suo aspetto “secco e funereo”, ben più degli uomini di partito, contano, in questa splendida campagna elettorale, le vignette e i manifesti elettorali di Guareschi, e l’azione solerte ed instancabile dei ragazzi delle parrocchie. Giovannino Guareschi, monarchico, cattolico, destrorso, antifascista e reduce da due anni di lager in Germania, si trova quindi a combattere ancora una volta per la libertà, e lo fa, ancora una volta, senza risparmiarsi. Ma pur risultando vincitore non reclama alcuna prebenda, né alcun onore: vuole tenersi libero, non vuole legarsi a nessun carro, a nessun partito, a nessun padrone. Così, pochi anni dopo, nel 1953, nel suo diario può scrivere: ” Con Candido contro lo strapotere Dc”.
La Dc lo ha deluso, sotto molti aspetti: Giovannino vede già le bustarelle, il rinnegamento dei principi a vantaggio delle poltrone, i nepotismi di De Gasperi, “celeberrimo sistematore di parenti”. Allo statista trentino dedica diverse vignette. In una di queste De Gasperi avanza, seguito da uno stuolo di parenti, con una bandiera su cui è disegnato un sole, e dentro la scritta: ” Ho famiglia”. Sopra vi è scritto: “Forza Alcide, che non sei solo”. A lato alcuni versi: “Su fratelli, su cognati/ su venite in fitta schiera/: sulla libera bandiera/ splende il Sol dell’avvenir”. In poche parole Guareschi finisce per inimicarsi, oltre a Luigi Einaudi, per una vignetta irriverente, anche Alcide De Gasperi. Il processo intentatogli da quest’ultimo è una sorta di farsa, alla fine della quale Guareschi finisce in galera: “per rimanere liberi- scrive- bisogna a un bel momento prendere senza esitare la via della prigione”. E ancora: “monarchico in una repubblica; di destra in un paese che cammina decisamente, inflessibilmente verso sinistra; sostenitore dell’iniziativa privata in tempi di statalismo, assertore di italianità in tempi di antinazionalismo; cattolico intransigente in tempi di democristianismo, io non sono stato- come poteva sembrare- un indipendente, bensì un anarchico. Non un uomo libero, ma un sovversivo. E perciò è giusto che mi venga tolta la parola e la libertà“.
Anche in questa occasione Guareschi rifiuta sconti e amnistie di sorta. Rimane in galera sino alla fine, poggiando sulla sua incredibile fiducia nella Provvidenza: “completa è la mia fiducia nella Provvidenza che, per essere veramente tale, non deve mai essere vincolata da scadenze. Mai preoccuparsi del disagio di oggi, ma aver sempre l’occhio fisso nel bene finale che verrà quando sarà giusto che venga. I giorni della sofferenza non sono giorni persi: nessun istante è perso, è inutile, del tempo che Dio ci concede. Altrimenti non ce lo concederebbe“. Lo aiuta, anche, il suo senso dell’umorismo, la sua capacità di divertirsi, almeno un po’, in ogni circostanza. In galera scrive versetti simpatici, disegna, decora l’asse del cesso con un originale “merdometro”, costituito dalla fotografia dell’odiato Scelba.
In un bollettino inviato agli amici, sulle sue condizioni, scrive: ” Cos’ero, or son due mesi, appena entrato? /Un fuorilegge, un povero spostato:/ adesso grazie alla prigione / marciando sto verso la redenzione./ La squadra è già passata/ a batter l’inferiata./I ferri sono a posto, niente buchi nel muro./ E io mi sento più sicuro”. Negli ultimi anni della sua vita Guareschi assiste al cambiamento culturale dell’Italia.
Non gli piace affatto il nuovo mondo che sta nascendo: “Tra i grattacieli del miracolo economico soffia un vento caldo che sa di cadavere, di sesso e di fogna”. Sono gli ultimi anni, in cui, dopo tanta sofferenza, l’umore si fa, talora, acido, amaro. Per lui l’attuale generazione di italiani “più che una generazione è una degenerazione”: si alimenta coi nuovi miti della bellezza fisica ad ogni costo e ad ogni età, coi divi della tv, col benessere materiale che ammalia anche gli uomini del passato. Guarda sconsolato certe anziane signore di città, che non sanno più invecchiare: “ Hanno gli occhi dipinti di verde o di blu e i seni convenientemente sistemati: il seno destro è stato passato sulla spalla sinistra, il sinistro sulla destra, quindi ambedue sono stati incrociati sulla schiena, come i tubolari dei corridori ciclisti, per venire annodati solidamente sull’uno e sull’altro fianco“.
Uno dei motori di questi cambiamenti sociali e culturali è senz’altro la televisione: “la tv col suo incessante martellare, condito con piacevoli musichette e divertenti spettacoli di varietà, crea nelle famiglie problemi, bisogni, o addirittura necessità praticamente inesistenti. Così come crea dal nulla dei valori e degli idoli. Crea una mentalità, un costume, un linguaggio“, si insinua nelle case, interrompendo il dialogo, raffreddando il confronto, ingessando, condizionando, omologando le personalità. In questi anni nasce così l’ultimo capolavoro: “Don Camillo e i giovani d’oggi”. E’ uno sguardo, sereno, divertente, ma realistico, sull’evoluzione dei costumi, dei rapporti famigliari e della Chiesa. Don Camillo non è più alle prese con i veri comunisti, alla Peppone, ma col malcontento misto a noia dei giovani, dei cappelloni alla Veleno e delle ragazze emancipate come Cat. Soprattutto, in questo breve romanzo, compare la figura di Don Chichì, che rappresenta il pretino standard post Concilio Vaticano II: con la sua mezza voce, i suoi mezzi termini, la mania del dialogo sopra ogni cosa, lo sperimentalismo liturgico, stile “tavola calda di Lercaro”…
E’ don Chichì il vero, ultimo “avversario” di Guareschi, non i giovani che stanno per scatenare il ’68. A loro si rivolge, paternamente, temendo solo che siano ingannati, che riempiano il loro vuoto di violenza spacciata per ideale: “(O giovani) diffidate di chi vi sorride e vi dà importanza eccezionale. Vuole rifilarvi un giornale, un libro, un disco, una rivista pornografica, un intruglio gasato, una chitarra, un allucinogeno, una pillola, una scheda elettorale, un cartello, un manganello, un mitra. Protesto perché sono stato giovane e buggerato come saranno immancabilmente buggerati i giovani d’oggi…”. Il 1968 è anche l’anno della morte di Guareschi, a Cervia, nella sua amata terra.

giovedì 27 agosto 2015

Solo Amore e Luce ha per confine

di Francesco Agnoli

Proviamo a fare due semplici ragionamenti sul Paradiso: sarà certamente più difficile, anche perché con il male abbiamo di solito, una maggior dimestichezza.
Potremmo partire dalle esperienze di pre-morte, di cui ci parla Antonio Socci nel suo ultimo libro, Tornati dall’aldilà. In queste esperienze il Paradiso viene percepito come un luogo senza tempo, di luce e di amore. Siano vere “visioni” o meno, luce e amore vanno benissimo per il nostro discorso. Dante definisce proprio il Paradiso come il luogo che “solo amore e luce ha per confine”.
Ebbene, se pensiamo alla luce, a questo corpo così sottile, impalpabile, capace di donare bellezza alle cose, viene inevitabile pensare alla conoscenza.
La luce è ciò che permette, a noi qui sulla terra, di vedere e di conoscere la realtà. Anche la comprensione intellettuale viene spesso definita “illuminazione”. Dunque il Paradiso non è il “luogo” dell’annullamento nirvanico, in cui tutto ciò che è stato si rivela nulla, né quello del godimento sensuale, come nella visione islamica, ma il luogo in cui conosceremo, definitivamente, integralmente, “faccia a faccia”: “Nella tua luce, vedremo la luce”. Lì troveremo ciò che di vero abbiamo cercato; comprenderemo ciò che di bello e buono abbiamo vagamente, saltuariamente, percepito.
Il grande logico-matematico Kurt Gödel, come ricorda il suo biografo Gabriele Lolli, sosteneva che “il mondo è ordinato razionalmente, ma senza una vita dopo la morte le potenzialità che gli esseri umani mostrano in vita e la preparazione che paiono fare non avrebbero senso. Il mondo come mostra la scienza presenta la più grande regolarità e ordine a ogni livello. Secondo la scienza ha avuto un inizio e avrà una fine nel nulla. Perché dovrebbe esserci solo questo mondo? L’essenza dell’essere umano ha una potenzialità di sviluppo talmente grande che non riesce ad analizzare se non in millesima parte. Le persone tuttavia, attraverso l’apprendimento, pervengono ad una vita migliore, dotata di maggior senso. Ma si impara soprattutto facendo errori e questi predominano in modo eccessivo nel corso della vita. La parte più consistente dell’apprendimento avverrà nella prossima vita”.
Un ragionamento analogo appartiene alla teologia tradizionale, a cui attingerò tramite un ottimo filosofo cattolico, Enrico Maria Radaelli, autore di un testo, “Ingresso alla bellezza” (Fede & Cultura), di rara profondità e originalità.
Scrive Radaelli: “la ragione – l’intelligenza, l’intelletto- è una cosa inarrestabile, è un moto che non ha mai avuto inizio e non avrà mai fine. L’intelletto si muove, va avanti, va sempre avanti, non c’è nulla che lo fermi-nemmeno il nulla che non c’è – poiché davanti ad esso nessuna cosa è sufficientemente priva di essere da risucchiarne la vita: l’intelletto infatti è vivente, è la vita, è il vivente, è l’Essere stesso in atto”. Affermando, come Gödel, la possibilità sulla terra di una forma di conoscenza, per quanto limitata, contro lo scetticismo pirroniano, Radaelli aggiunge: “non solo è impossibile che sia impossibile, ma è anche impossibile che la conoscenza non giunga ad un termine estremo e conclusivo, ovvero è impossibile che essa non sia eterna, fuori del tempo, nel tuttoinsieme invulnerabile dalla morte…appena si dà la scintilla della conoscenza, appena si ha nel creato la conoscenza, essa, anche nel creato, è per sempre insopprimibile…perché tende a Dio, e finché non raggiunge il suo bene, Dio, non si arresta”.
San Tommaso scriveva che l’Essenza di Dio sarà insieme l’oggetto e il mezzo con cui la nostra anima compirà l’intellezione di Dio. Non sarà dunque un semplice contemplare qualcosa d’Altro, ma un abbeverarsi nella grandezza di Dio, toccando e non toccando con mano, non saprei come altrimenti dire, la profonda Alterità di Dio (un po’ come l’innamorato e l’innamorata, due e uno solo nello stesso tempo).
In parole semplici? Nel Paradiso la nostra sete di conoscere e capire si acquieterà in Dio; o meglio si “muoverà” in Lui, in un eterno presente. Lì la nostra esistenza terrestre e l’esistenza dell’universo si riveleranno non come illusioni, come nella dottrine orientali, ma come immagini; non come inganni, ma come tracce poste su un cammino che ha una meta; lì saranno massime la nostra conoscenza e la nostra autocoscienza, perché, come scriveva Boezio, l’eternità è “il possesso intero, perfetto e simultaneo di una vita interminabile”.
Oltre che conoscere Dio, in Paradiso, le anime lo amano e sono amate. Scrive Radaelli che la stesso Dio, Trinitario, è Essere, Intelletto, Amore, “nella loro triplice, infinita ed eterna attuazione. L’eternità di Dio esprime bene il dato della intrinseca inarrestabilità dell’intelligenza: Dio Trinità è vivente, intelligente, amante in atto ab aeterno e ad aternum”. Conoscenza e amore vanno insieme, si richiamano l’uno l’altro. Infatti la vita conoscitiva è “una vita di relazione, di partecipazione, di comunione”. Per questo nel Vangelo di San Giovanni Cristo è Logos, ma anche Amore. “Il regno dei cieli, ha scritto Madeleine Delbrêl, è l’amore personale, in Cristo, di Dio per ciascuno di noi, e di ciascuno di noi per ognuno degli altri”.

da: www.libertaepersona.org

Oscar Wilde: una vita per la Bellezza, un incontro con la Verità

di Luca Fumagalli

Autunno del 1900. Oscar Wilde si trova a Parigi. Un vecchio problema all’orecchio, eredità di due anni di dura prigionia, si ripresenta sotto forma di emorragie che, oltre a spossarlo, lo obbligano ad assidue cure mediche. Ormai è praticamente costretto a letto. L’unico amico che gli rimane è Robbie Ross, una vecchia fiamma degli anni felici della gioventù che, scontati i peccati del passato, si è convertito al cattolicesimo e svolge ora la professione di giornalista. Sentendo prossima la fine anche Oscar decide di compiere il grande passo, quello che aveva rimandato per tutta la vita. Rendendosi conto che l’agonia è iniziata, Ross si precipita a cercare un sacerdote presso il vicino convento dei passionisti. Per un singolare scherzo del destino riesce a trovare un religioso irlandese, padre Cuthbert Dunne, che immediatamente amministra i sacramenti a Wilde. Lo stanco scrittore muore in pace mentre stringe tra le mani un rosario. È il 30 novembre.
Noto comunemente come grande scrittore esponente dell’estetismo, dandy imperituro che con abiti e atteggiamenti anticonvenzionali scosse il perbenismo della società vittoriana, in realtà Oscar Wilde (1854-1900) fu molto di più del poeta maledetto con cui, soprattutto in Italia, la critica ha cercato di etichettare sbrigativamente una personalità sfuggente e contraddittoria. Accanto a immortali capolavori come Il ritratto di Dorian Gray, Il fantasma di Canterville o L’importanza di chiamarsi Ernesto, della suo biografia sopravvivono nell’immaginario collettivo solamente pochi frammenti, legati soprattutto alle relazioni scabrose come quella con Lord Alfred Douglas che, oltre alla carriera, gli costarono anche diversi mesi di detenzione. In altre parole, l’unico Wilde che resiste agli assalti del tempo è il cantore degli eccessi: «Non c’è nulla che faccia bene se usato con moderazione. Non puoi sapere che cosa ci sia di buono in una cosa finché non le avrai strappato il cuore».
Eppure, al di là degli scandali, la vita di Wilde è come attraversata da una sorta di fiume carsico che ha la sua sorgente nella nativa Irlanda. L’isola di smeraldo, patria di miti e leggende, è anche la terra del cristianesimo, dove la fede è stata preservata con singolare tenacia nonostante le calamità che, nel corso dei secoli, si sono abbattute su di essa. Dalle violenze di Cromwell alla carestia di metà ‘800, l’Irlanda è stata sovente vittima dei soprusi della vicina Inghilterra, eppure ha saputo mantenere inalterato quel legame di figliolanza che da sempre ha nutrito nei confronti di Roma.
La biografia di Wilde è dunque una ricerca della Bellezza e della Verità che, a partire dalle circostanze storiche e poetiche, si sostanzia in una conversione che giunge poco prima della morte. “L’arte per l’arte”, celebre motto coniato da Walter Peter e fatto proprio da Wilde, corrisponde solo a una parte – e certamente la meno importante – di un’esistenza condotta sul crinale, sempre in bilico tra la fede e la mondanità.
Del resto la storia del famoso scrittore è simile a quella di altri artisti che, a cavallo tra XIX e XX secolo, trovarono un appagamento al loro disordinato desiderio di felicità proprio nella Chiesa cattolica. John Gray – amico personale di Wilde e ispiratore del personaggio di Dorian Gray che, non a caso, porta il suo cognome – Ernest Dowson, Aubrey Beardsley, Ronald Firbank e Frederick Rolfe sono solo alcuni dei tanti che abbandonarono i riprovevoli costumi giovanili per convertirsi al cattolicesimo, sovente attratti dalla bellezza della liturgia e dal latino, una lingua senza tempo che con il suo carisma costituiva l’unico possibile baluardo alla decadenza della società moderna. Molti di questi exbohémien, compresi diversi amici di Wilde, presero poi i voti, diventando sacerdoti o monaci.
A rendere ancora più ostico il percorso dello scrittore verso la conversione vi era la sua naturale socialità e la disponibilità a venire a patti con qualsiasi tentazione. Questo aspetto è verificabile anche nella distanza che separa il suo Il ritratto diDorian Gray da A rebours di Karl Huysmans, il primo narratore del decadentismo a diventare cattolico. Se il protagonista del fortunato romanzo del francese si rinchiude in una sorta di prigione dorata, fatta di bellezza e sensazioni amplificate, per sfuggire a un mondo meschino che deplora, Dorian Gray, al contrario, prova un piacere perverso a sguazzare tra i bassifondi esistenziali di un’Inghilterra degradata: «Non mancare mai di rispetto alla buona società… solo chi non riesce ad accedervi lo fa». Tutto sommato, però, anche nel libro che è considerato il manifesto dell’estetismo non sono affatto secondari temi morali come il peccato, la perversione e il tentativo luciferino di sconfiggere la morte venendo a patti con il male. L’arte, in Wilde, non è mai qualcosa di superficiale e scontato. É uno strumento impiegato per sondare l’anima e, anche quando lo scrittore sembra dimenticarsene, il suo attrezzo è così accurato che continua a lavorare indisturbato.
Basterebbe descrivere l’arredamento della sua casa a Londra, nel 1879, per rendersi conto del valore di questa forza operante lungo l’arco esistenziale dell’irlandese. Viveva con l’amico pittore Frank Miles, e quella che più tardi avrebbero ribattezzato come la “Casa del Tamigi” era in realtà un’abitazione trasandata, vecchia e buia. A Wilde toccò il secondo dei tre piani e lo riempì presto di porcellane cinesi, libri, statuette di Tanagra, tappeti greci, ma anche oggetti religiosi come una Madonna di gesso, una foto di Pio IX e una del cardinale Manning. Gli scaffali, stracolmi di esotismo, funzionano come una sorta di correlativo oggettivo dell’animo del poeta, drammaticamente lacerato nel gioco dell’esistenza.
Il ritratto di Oscar Wilde di Paolo Gulisano si incarica dunque di presentare al lettore italiano una biografia a tutto tondo di una delle penne più geniali del XIX secolo. E lo fa con singolare fortuna, coniugando una prosa leggera e godibile a una mole impressionante di dati e annotazioni (chiudendo tra l’altro ogni capitolo con un piccolo elenco degli aforismi più brillanti di Wilde). Per la prima volta il saggio di Gulisano rende giustizia alla complessità caratteriale dello scrittore facendo riemergere dall’oblio quegli elementi religiosi fortemente presenti nella sua vita ma troppo spesso taciuti. Il risultato è un affresco incantevole, la storia portentosa del riscatto di un’anima in limine mortis. Molto probabilmente lo stesso Wilde dovette sentirsi un po’ come il buon ladrone – un fortunato paradosso – quando scrisse: «Il vero stolto è colui che non conosce se stesso».

da: www.radiospada.org

mercoledì 26 agosto 2015

La Serva di Dio Giulia di Barolo è venerabile

di Marcello Falletti di Villafalletto

Nel pomeriggio di martedì 5 maggio 2015, il Santo Padre Francesco ha ricevuto Sua Em.za Rev. ma il signor Cardinale Angelo Amato, Prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi e lo ha autorizzato a promulgare alcuni decreti relativi alla proclamazione di nuovi santi, e beati. Oltre ai nomi dei nuovi santi e beati, nell’elenco, figurano ben sette venerabili; cioè i candidati all’onore degli altari dei quali sono state riconosciute le virtù eroiche e che attendono il riconoscimento del miracolo attribuito alla loro intercessione. Tra i nuovi venerabili c’è anche Giulia Colbert Falletti di Barolo, laica vedova del marchese Servo di Dio Carlo Tancredi Falletti di Barolo e fondatrice delle Figlie di Gesù Buon Pastore.
     Per questo importante riconoscimento, atteso da quasi venticinque anni, e da ben centocinquantuno dalla morte, per la “Madre dei Poveri” torinese, anche se nata in terra di Francia, ci uniamo intensamente nel rendere gloria a Dio, ringraziando con tutto il cuore il nostro amato Santo Padre Francesco.
     Giulia Colbert nacque nel castello di Maulévrier, nella cattolica Vandea (Francia), il 26 giugno del 1786 dal marchese Édouard e dalla contessa Anne-Marie-Louise Quengo de Crénolle. Dopo la prematura scomparsa della madre, ricevette dal padre una solida educazione cristiana e una completa istruzione. Il 18 agosto 1806, a Parigi, sposò Carlo Tancredi Falletti, ultimo erede del marchese di Barolo, Ottavio e della savoiarda Maria-Ester-Paolina-Teresa marchesa d’Oncieu della Bâtie e di Chaffardon; che divenne sindaco di Torino, Consigliere di Stato, Decurione e, unitamente alla sua sposa, si dedicò all’educazione dei bambini poveri aprendo il primo asilo italiano. Nel 1834 fondò le Suore di Sant’Anna della Provvidenza, affidando loro l’istruzione delle giovani di condizione popolare. Scrisse di storia e di pedagogia giovanile. Fu amministratore saggio e onesto, uomo dalla carità semplice e pronta. Morto a Chiari (BS) il 4 settembre 1838; anche per lui è in corso il processo di beatificazione.
     La Venerabile Giulia si dedicò in modo tutto particolare al problema delle carceri femminili, visitando le carcerate e intessendo con loro rapporti personali, per condurle all’esperienza concreta dell’amore di Dio Padre; iniziando una magnifica opera pedagogica e di redenzione sociale. Dette vita a diversi istituti educativi e assistenziali. Nel 1833, fondò la Congregazione religiosa delle Sorelle Penitenti di Santa Maria Maddalena, oggi Figlie di Gesù Buon Pastore. La forza del suo operato nacque dalla profonda unione con Cristo che vedeva come “Rabbonì” e che la invitava a donarsi totalmente agli emarginati, ai poveri, agli ultimi.
     Morì il 19 gennaio 1864, rimpianta da quanti la conobbero e l’amarono. Riposa a Torino, nella chiesa di Santa Giulia, da lei fatta edificare; dove, da qualche anno, è stata raggiunta dall’amato sposo Carlo Tancredi.
     In questo atteso e speciale gesto di esultanza, per l’intera Chiesa e tutto il popolo di Dio, ci uniamo a tutte le Suore da lei fondate, a quanti hanno avuto il piacere di conoscerla, apprezzandone le intense virtù cristiane, che oggi la Chiesa ha riconosciuto ufficialmente; ringraziando per il meraviglioso dono di tanta Madre Fondatrice e straordinaria sorella per quanti continueranno a invocarla, nell’attesa di vederla glorificata.
     Laus tibi Domine!

martedì 25 agosto 2015

L’ulivo, Rivista olivetana di spiritualità e di cultura monastica fondata nel 1926

di Marcello Falletti di Villafalletto

     Il semestrale organo olivetano chiude l’anno appena trascorso dedicandolo al Patriarca del Monachesimo Occidentale san Benedetto Patrono d’Europa, nel 50° anniversario del Breve Pacis Nuntius, emanato dal beato Paolo VI.
     Nel discorso del 18 settembre 1947, papa Pio XII, proclamò san Benedetto «Padre dell’Europa», riportando alla memoria lo sviluppo che egli dette alla «formazione e regolamentazione… del consorzio dei popoli d’Europa, soprattutto col promuovere e curare il lato spirituale…». Il 24 ottobre 1964, papa Paolo VI, emanò la Lettera Apostolica Pacis Nuntius, sub anulo Piscatoris, enunciando, in modo ampio, il grande ruolo che san Benedetto ebbe nell’ordinamento dell’Europa cristiana. Il beato pontefice scrisse: «Con la Croce, cioè con la legge di Gesù Cristo, consolidò ed incrementò le istituzioni della vita pubblica e privata… Cementando in tal modo quell’unità spirituale dell’Europa, per la quale nazioni di lingua, di razza e d’indole diversa, si sentirono un unico popolo di Dio». Nel medesimo giorno, il Papa, si recò a Monte Cassino e nel terminare il suo discorso aggiunse: «Ed è perché agli uomini del nostro tempo… sia ormai intangibile e sacro l’ideale dell’unità spirituale dell’Europa, e non manchi loro l’aiuto dall’alto per realizzarlo in pratici e provvidi ordinamenti, che abbiamo voluto proclamare San Benedetto Patrono e protettore dell’Europa».
     Questo importante numero de L’Ulivo si apre con un articolo di Sebastiano Paciolla, dedicato al 2015: Per un rinnovamento monastico nell’anno della vita consacrata. Seguono poi tre interventi riguardanti il patrono d’Europa: Enrico dal Covolo, San Benedetto messaggero di pace. I padri della Chiesa e la cultura dell’Europa unita; Mariano Dell’Olmo, 1944-1964: Montecassino dalle rovine della guerra al progetto di una nuova Europa. Nel 70° anniversario del bombardamento dell’abbazia e nel 50° del Breve Pacis Nuntius di Paolo VI e Roberto Nardin che affronta: L’eredità benedettina: Riflessioni a partire dal Breve Pacis Nuntius di Paolo VI.
     Non poteva poi sfuggire o mancare un argomento tanto caro a noi tutti, legati alla Congregazione Benedettina di Monte Oliveto e, particolarmente, al suo Fondatore, nel Settimo centenario dell’arrivo di San Bernardo Tolomei nel deserto di Accona, nome del luogo dove sorse Monte Oliveto Maggiore; ottimamente presentato da altri tre articoli: San Bernardo Tolomei di Beniamino Stella; La spiritualità del deserto nell’esperienza monastica di Luigi Gioia e L’amicizia nell’esperienza delle origini in Accona e attualizzazioni di Cecilia Falchini.
     Gli abituali “Articoli” comprendono: L’“anno liturgico” nella Regola di San Benedetto. La domenica fondamento dell’anno liturgico (prima parte) di Maria Teresa Saccente; La fondation du Monastère de Mesnil-Saint-Loup et son évolution. D’hier à aujourd’hui (1864-2014) di Bernard Buchoud e D’un chapitre général à l’autre. Nos 15 dernières années: une marche en continu malgré les tâtonnements di François You.
     L’emerito abate di Seregno, dom Valerio Cattana, nelle “Note”, esamina lo stimolante argomento: Don Divo Barsotti e Monachesimo e mistica. Lettere (1994-1997).
     Il corposo testo continua affrontando argomenti e notizie riguardanti la “Vita della famiglia monastica di Monte Oliveto” (anche in lingua: francese, inglese e portoghese); quasi una cronaca interna agli avvenimenti della Congregazione olivetana, allargati esternamente anche a coloro che la seguono attentamente, pur non facendone parte: Settimo Centenario dell’arrivo di san Bernardo Tolomei nel deserto di Accona (1313-2013) a cura della Redazione, sintetizzando gli avvenimenti dell’Anno Centenario, iniziato dall’abate generale Padre Diego M. Rosa, l’11 luglio 2013 e terminato il 19 agosto 2014; Enrico dal Covolo, riprende l’argomento di San Benedetto abate, patrono dell’Europa, attraverso un’omelia pronunciata durante la solenne concelebrazione eucaristica, l’11 luglio 2014, presso la Pontifica Università Lateranense (Città del Vaticano) dove ricopre la prestigiosa carica di Magnifico Rettore. Dom Roberto Nardin inizia la trattazione de La fondazione del monastero di San Sepolcro. Una nuova Comunità Benedettina di Monte Oliveto (prima parte), comunità sorta proprio lo scorso anno, durante l’importante centenario; i Fratelli di Mesnil Saint-Loup, scrivono sulla festa per i 150 anni di fondazione del loro monastero francese (Mesnil Saint-Loup: La fête des 150 ans).
     Il volume si chiude con le abituali “Indicazioni bibliografiche”, curate da diversi autori, che comprendono: recensioni e segnalazioni; Bibliografia olivetana e da un supplemento a cura della Conferenza Italiana Monastica, sugli Atti degli incontri annuali dell’Assemblea Italiana dei Superiori Benedettini, XIV Assemblea C.I.M. 2014, «Si revera Deum quaerit», Discernimento, accoglienza e formazione delle nuove vocazioni, Bassano Romano, 22-25 aprile 2014, composto da ben 62 pagine.
Come per gli altri numeri, del nostro informatore olivetano, dobbiamo evidenziarne non soltanto l’elevato interesse per la vita monastica che sviluppa, ma anche per la serietà e la competenza dei redattori che ne fanno, ancora una volta, un testo necessario e utile, nonché di facile lettura. 

lunedì 24 agosto 2015

Recital di Poesie e Canti a Villa Falcone e Borsellino

La sera del 20 Agosto u.s., nello splendido scenario naturale della Villa Falcone e Borsellino di Trabia, con il patrocinio del Comune, si è svolto il recital di Poesie e Canti in lingua siciliana, curato dall’Associazione culturale “Termini d’Arte”, con la regia del socio, dott, Saverio Orlando.
Alla presenza del Vice-Sindaco ed Assessore alla cultura, Prof.ssa Marianna Piazza, dopo una breve introduzione della poetessa Rita Elia, Presidente di Termini d’Arte - che si è esibita anche lei con due sue poesie al pari del Regista - la dott.ssa Marianna Ingrassia ha presentato la serata con gli antichi canti siciliani che si sono alternati alle filastrocche ed alle poesie, trattando tematiche antiche e recenti come le bellezze naturali della Sicilia, l’amore e la passione, il ricordo palpitante ed affettuoso dei propri genitori defunti, le ninne-nanne, il lavoro e gli incidenti mortali ad esso connessi, le piaghe sociali, prima fra tutte quella della mafia, le migrazioni, quelle di un tempo dei Siciliani verso le Americhe e quelle recenti dei popoli africani e del medio-oriente verso la Sicilia, la generosità e l’abnegazione di chi ha scelto di percorrere i sentieri tracciati da Cristo e da San Francesco in favore dei bisognosi, l’orgoglio femminile, il folklore.
Il consenso che il pubblico ha riservato al recital ci conforta delle fatiche della vigilia e ci incoraggia a proseguire per questa strada che noi di Termini d’Arte abbiamo scelto per fare cultura divertendo e divertendoci e, nello stesso tempo, per ribadire alle Autorità competenti che il Popolo siciliano è bilingue, come riconosciuto dal trattato europeo “European Charter for Regional or Minority Languages” firmato a Strasburgo il 5 Novembre 1992 che, a distanza di tanti anni, il Governo italiano è restio a recepire, malgrado sia risaputo che la lingua siciliana sia nata intorno al 1200 prima ancora della lingua italiana!
Un ringraziamento va al Sindaco e all’Amministrazione comunale di Trabia per il patrocinio, l’ospitalità ed il supporto logistico forniti e, in particolare alla Prof.ssa Marianna Piazza che in qualità di vice-Sindaco ed Assessore alla cultura si è prodigata per la riuscita della manifestazione. 
Instancabile, quel vulcano di idee che è la Presidente Rita Elia, che ha trascinato tutti con il suo esempio.La bravissima cantante Giusy Cimino ed il Maestro Salvatore Garofalo, hanno fatto gustare i migliori brani musicali del loro repertorio, 
il consumato attore Nando Cimino, vero principe del palcoscenico, ha recitato alcune delle filastrocche che, quando eravamo bambini, ascoltavamo dalla voce dei nostri nonni, nonché il poeta bagherese Antonino Lo Piparo il quale, con la freschezza dei suoi 88 anni, si è presentato in scena in costume d’epoca per impersonare un carrettiere e recitarci a memoria la sua poesia “Lampiuni anticu” che, narrandoci lo stile di vita e le abitudini del carrettiere, ci ha riportato indietro nel tempo di almeno un secolo.
Infine, un particolare ringraziamento ai bravissimi Poeti,quì citati in ordine alfabetico:
Vincenzo Aiello, Michelangelo Balistreri, Maria Cancilla, Enzo Di Gaetano, Francesco Ferrante, Tania Fonte, Emanuele Insinna, Laura La Sala, Giovanni Mattaliano, Maria Antonietta Sansalone, Pietro Vizzini.
Le loro splendide liriche hanno lasciato nell’animo del pubblico un segno indelebile del messaggio che si prefiggevano di trasmettere.
Saverio Orlando

giovedì 20 agosto 2015

Premio “La Campana di Burgio” 2015

 Il premio letterario ideato e diretto dal prof. Antonino Sala e fortemente sostenuto dall’amministrazione comunale guidata dal prof. Vito Ferrantelli,in programma il 24 agosto 2015 al Castello Normanno alle 21, nasce nel 2013, grazie ad un rinnovato spirito di rinascenza della comunità di Burgio, che nella cultura e nella Tradizione ha trovato la sua rigenerata identità.Nella prima edizione “La Campana di Burgio”, una vera campana in bronzo realizzata per l’occasione nella locale fonderia Virgadamo Mulè Cascio, è andata al giornalista professionista Lillo Miceli. Nella seconda a Felice Cavallaro giornalista del Corriere della Sera e in quella di quest’anno sarà assegnata all’apprezzato scrittore Matteo Collura autore di numerose, opere ultima delle quali “La badante” edizioni Longanesi.
Il premio inoltre è articolato in tre sezioni: una di “Storia”, dedicata al prof. Giuseppe Vaccaro; una di “Poesia e opere in lingua Siciliana”, dedicata al Prof. Alfonso Vasile; una di “Letteratura italiana”, dedicata al letterato Pascol Colletti.
Nelle precedenti edizioni sono stati inoltre premiati esponenti importanti della editoria e della cultura nazionale e locale per le loro opere come: l’apprezzato scrittore e poeta nonché editore Tommaso Romano di Palermo;i cultori di storia municipale Raimondo Lentini di Ribera,Paolo Sanzeri di Cianciana, Antonino Marchese di Bivona, Totuccio Salvaggio di Bisacquino, Michele Vaccaro di Sambuca; gli scrittori Maria Patrizia Allotta di Palermo, Vito Mauro di Palermo, Nino Agnello di Agrigento, Marcello Scurria, Giuseppe Bagnasco di Palermo, Umberto Balistreri di Palermo, Enzo Randazzo di Sciacca, Elita Romano di Agrigento, Paolo Pendola di Burgio, Biagia Sanfilippo di Burgio, Rita Elia di Termini Imerese, Stefano Lo Cicero di Palermo. Un premio speciale è stato assegnato al filosofo Piero Vassallodi Genova per la sua lunga e proficua carriera. Premio speciale alla memoria all’apprezzato autore agrigentino Enzo Lauretta. A Tanino Bonifacio, Enzo Minio e Totò Castelli per la loro attività di valorizzazione della Cultura e dell'Arte siciliana.
Quest’anno per le varie sezioni verranno premiati: l’economista e storico della “Lira” Giuseppe Schlitzer di Roma, gli storici delle tradizioni locali Rosario Perricone e Giovanni Moroni di Calamonaci, Alberto Piazza di Sciacca, l’imprenditore di origini burgitane Elio Guadagni di Agrigento, Rosaria Cascio di Palermo, il cultore di tradizioni popolari Vito Renato Maggio, i giornalisti Salvatore Fucà e Elio Castaldo, lo scrittore Fabrizio Fonte di Custonaci, la poetessa Ester  Monachino di Realmonte, Nicasio Riggio di Palermo, il tipografo Matinella. Un premio alla memoria al poeta brugitano Giuseppe Serra. Un riconoscimento sarà dato alle insegnanti Liboria. Puccio e Paola Barcia e alle loro scolaresche di Burgio e al giovane Giuseppe Turturici di Caltabellotta.
“Tradizionee cultura, dice il direttore del Premio Antonino Sala che recentemente ha ricevuto l’onorificenza di Cavaliere del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio personalmente a Roma da don Pedro di Borbone Due Sicilie cugino di S.M. il Re di Spagna Felipe VI, sono il fondamento della nostra identità. Per questo il premio punta principalmente a valorizzare tutte quelle esperienze di studio, ricerca, impegno ed approfondimento che vanno nella direzione della loro riscoperta come invincibile baluardo contro il degrado umano e sociale a cui non ci rassegniamo. Ringrazio sentitamente il Capo dello Stato Sergio Mattarella per l’altissimo onore di averci concesso la Medaglia del Presidente della Repubblica per questa edizione del Premio”.
Il premio per questa edizione è stato inoltre insignito della Medaglia del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che ha voluto così testimoniare la sua vicinanza alla comunità di Burgio che potrà fregiarsi di questa onorificenza che lo rende ancora più prestigioso.
Al termine della manifestazione ci sarà un momento di ricordo per i caduti e combattenti nativi di Burgio della Prima Guerra Mondiale, di cui quest’anno ricorre il centenario. Nell’occasione sarà presentato il volume “Da Burgio all’Isonzo. Cento anni di Gloria 1915/2015” frutto di studio e ricerca del prof. Antonino Sala sulla storia dei militi burgitani che partirono per non più tornare durante il primo conflitto mondiale, per far “redenta ed una l’Italia”, come il suo prozio Rosario Sala e gli altri suoi 51 commilitoni eroi.
“La mia amministrazione, dice il Sindaco Vito Ferrantelli, è fortemente impegnata nell’opera di valorizzazione della cultura e della identità locale, per questo abbiamo sostenuto e sosteniamo con tutte le nostre energie il Premio “La Campana di Burgio”, felicemente giunto alla terza edizione, quest’anno anche insignita ed onorata della Medaglia del Presidente della Repubblica che il Capo dello Stato ha voluto concedere al Premio stesso. Un fatto eccezionale da un sigillo di qualità alla nostra comunità.”

(S)connessione di Vittorio Riera

(S)CONNESSIONE
Pubblichiamo la quinta e la sesta parte di un testo di grande suggestione creativa dello scrittore Vittorio Riera

Inaugurazione esposizione "Artisti Iblei per San Giovanni"


martedì 4 agosto 2015

Serena Lao, "La straggi di lu pani"

Nel 1998 Serena Lao venne incaricata dall’Assessore alla Cultura della Provincia Regionale di Palermo Prof. Tommaso Romano, di comporre una ballata dedicata ai 24 martiri della “rivolta del pane”, come fu da allora denominata quella assurda e dolorosa strage, per ricordare, come si faceva ogni anno,quel triste giorno in cui Palermo si era macchiata di sangue innocente.
L’Artista, cantautrice e poetessa che ha travalicato artisticamente i confini della sua amata Sicilia,  non sapeva nulla o quasi di quel tragico episodio avvenuto nel lontano 1944, prima ancora che lei nascesse. Si procurò i giornali dell’epoca, li lessee nacque così “La Straggi di lu pani” che fu rappresentata a Palazzo Comitini il 19 ottobre 1998, davanti alla lapide con scritti i nomi di tutti quei giovani morti, alla presenza di un pubblico attento e commosso e delle massime istituzioni della Provincia Regionale di Palermo.


LA STRAGGI  DI  LU  PANI


Viniti ascutati genti siciliani
vi vogghiu cuntari un fattu traggicu
na straggi ca nun havi eguali
ca fici vèstiri a luttu tanti palermitani.

Era lu 19 ottubbri du 1944

L’arba nto celu già facia spuntari
na matinata fridda e senza suli
Palermu mi dicava li so’ chiaj
Palermu terra china di duluri.
La guerra avia lassatu li faiddi
negghia nt’all’ariu e celi senza stiddi
occhi sbarrachiati morti strati strati
nenti spiranza e tanta puvirtati!
Lu scuru ammugghiava li pinzeri
la fami era forti cchiù d’aieri
Ancili ca di Ddiu siti mannati
ddu tintu jornu unn’eravu ammucciati!?
La raggia strantuliava la menti e la cuscenza
li picciriddi nun avianu nenti nta la panza!
Li mischineddi nun sapianu cchiù chi fari
a quali santu s’avianu a vutari
pinzaru accussì di protestari
davanti a lu Prefettu si ieru a prisintari.
Eranu tanti eranu picciotti
ddu jornu iddi s’accattaru a morti!
Parianu tanti cani vastuniati
ittavanu vuci pi essiri ascutati
travagghiu e pani vulianu truvari
quali judici li putia cundannari!
Li vuci poi si ficiru cchiù forti
e li surdati arrivaru a frotti
lu primu sparu... doppu lu secunnu
ma nun si sapi cu detti lu cumannu
Nun sparati… nun sparati!!!
Sunnu picciotti e mancu sunnu armati!
Ma li surdati parianu ’mpazzuti
macari li bummi foru ittati.
Di russu si tincianu li strati
lu sangu ’n terra li testi scafazzati
Cristu pi l’omu fu ’nchiuvatu ’n cruci
ma dda matina nuddu ’ntisi a Vuci!
Na matri sventurata
saputa la nutizzia curriu pi la strata
a talialla paria la Madonna Addulurata:
“Figghiu, figghiu chi t’hannu fattu!”
E comu quannu era nicu si lu strincia a lu pettu
l’accarizzava ci vasava i manu
si l’annacava e ci cantava pianu:
“Dormi dormi figghiu amatu
ca to mamma ti duna lu ciatu.
Dormi dormi figghiu miu
pi tia ora ci penza Ddiu”
Di n’autru latu arrivava un gran lamentu
“Figghiuzzu miu comu t’haiu truvatu
stu ciuri ’n pettu cu ti l’ha’ appizzatu
cu ti scannò fu un malidittu cani
c’ammazza a genti pirchì voli u pani”

Chiuviddicava supra ddu duluri
Palermu certu nun si fici onuri.
Chista è la straggi di la puvirtati
ca fa ammazzari li frati cu li frati
Curriti tutti, genti palermitani
li vostri frati foru ammazzati comu cani
chianciti tutti genti siciliani
ca nun s’ammazza a cu addumanna u pani!
Matri nisciti fora ittati vuci
li vostri figghi foru misi ’n cruci!

La notti scinni e agghiutti cu lu so mantu
nta lu silenziu… di 24 matri si senti lu chiantu!

L’avventura fiumana avanguardia della rivoluzione culturale sessantottina.

di Domenico Bonvegna

Una premessa è d’obbligo, perché ci occupiamo di una pagina di Storia come quella della conquista di Fiume del 1919 ad opera del comandante Gabriele D’Annunzio, alquanto complessa e così lontana nel tempo. La risposta si potrà ricavare leggendo l’ottimo e ben documentato lavoro di Salvatore Calasso, pubblicato dalla rivista trimestrale, Cristianità (Luglio-settembre 2011, n.361), il titolo: “L’impresa di Fiume avanguardia della Rivoluzione Culturale”.
Intanto Calasso ritiene opportuno introdurre, l’episodio dell’impresa di Fiume anche se è avvenuto molto tempo dopo, con l’epopea risorgimentale. Di fatto, per Calasso, l’impresa di Fiume, conclude il Risorgimento: “Essa cerca di portare a compimento, in stile quasi garibaldino, l’unità del nuovo Stato italiano verso i suoi ‘confini naturali’, quelli cantati, secondo la retorica rispolverata anche di recente, da Dante Alighieri nella Divina Commedia: ‘si com’a Pola, presso del Carnaro/ ch’Italia chiude e suoi termini bagna”.
Ma l’impresa fiumana secondo Calasso rappresenta anche e soprattutto altro. In sintonia con la rivoluzione politica della modernità e in proseguimento con l’ideologia risorgimentale, a Fiume si tenta di istituire un “nuovo ordine”, non solo politico, ma anche e soprattutto esistenziale e morale, un ordine che, per concretizzarsi, dovrà passare attraverso la rigenerazione della nazione e dei suoi componenti”. Significativi sono a questo proposito, il risalto dato da D’Annunzio al discorso pubblico, il motto e lo slogan, il richiamo alla massa e alla storia idealizzata dell’antica Italia, il culto dei martiri e della bandiera. Tutti dati che tratteggiano una specie di “religione civile ‘laica’”, che verranno fatti propri, prima dal fascismo, poi, in parte, dalla politica odierna, che è alla ricerca di un’identità sempre precaria.
L’impresa di Fiume.
Si pone nel magma rivoluzionario, creatosi subito dopo la Prima Guerra Mondiale (1914-1918); i due fatti più significativi sono la fine dell’Impero Austro-Ungarico e soprattutto la formazione del nuovo Stato, dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Una novità politica che influenzagran parte degli Stati europei, anche se si assume caratteristiche ideologiche diverse o opposte a quella socialcomunista, ma sicuramente ne riprendono alcuni aspetti e danno inizio alla stagione dei totalitarismi.
Certamente l’impresa fiumana è stata strumentalizzata dal fascismo, che ha visto nelle “vicendefiumane, la riscossa nazionale destinata a sfociare nella nuova Italia del Littorio”. Infatti, la cultura dominante continua a giudicarla sotto quest’aspetto. E tuttavia,“con il passare del tempo, però, questo episodio assume sempre più un connotato nuovo, che lo libera dal significato di un semplice colpo di mano nazionalista  per annettere la città di Fiume al Regno d’Italia e lo classifica invece come un esperimento rivoluzionario che va oltre al totalitarismo…”.
Ma per comprendere il carattere eversivo dell’impresa fiumana, bisogna precisare che cosa s’intende per Rivoluzione, Calasso fa riferimento al grande pensatore cattolico brasiliano Plinio Correa de Oliveira. La Rivoluzione per de Oliveira, ha un’accezione negativa, intende distruggere un potere o un ordine legittimo e ne instaura uno illegittimo. L’ordine legittimo è quello che rispetta la “legge naturale, i valori tradizionali come il valore primario della vita umana dal concepimento alla morte naturale, la famiglia naturale come cellula fondamentale della società(…) la proprietà come valore sociale, la religione come valore fondante il vivere personale e comunitario”.La Rivoluzione intende eliminare questa visione del mondo, per sostituirlo con altri elementi radicalmente opposti. “L’avventura di Fiume si presunta come un esempio anticipatoredei comportamenti politici che caratterizzeranno la società occidentale dalla conclusione del Secondo Conflitto Mondiale (1939-1945) in poi ed è un’anticipazione di quella che Correa de Oliveira chiama IV Rivoluzione, a dominante socio-culturale ovvero di tipo morale”. In pratica, i fatti di Fiume, anticipano la Rivoluzione sessantottina: “nel microcosmo che si crea a Fiume, in seguito all’occupazione da parte dei legionari capeggiati da D’Annunzio, (…)il piacere diventa prerogativa di tutti coloro che sono convenuti alla festa della rivoluzione. Godimenti senza limiti, divertimenti, libero fluire dei desideri, comportamenti disinibiti, privi di moralismo: tali sono i caratteri che di quest’esperienza collettiva, sostanzialmente liberatoria, ci tramandano cronache e memorie”.
L’avventura fiumana inizia la mattina del 12 settembre 1919, quando D’Annunzio fa il suo ingresso trionfale nella città a capo di un manipolo di granatieri, si concluderà nel dicembre 1920 con il cosiddetto ”Natale di sangue”. “Nella Fiume dannunziana – scrive Calasso, – viene creata e sperimentata ‘per la prima volta una liturgia della politica di massa’, attraverso riti collettivi, come la celebrazione degli anniversari, le cerimonie di giuramento e le marce militari, e tramite simbologie pseudoreligiose, come il culto dei caduti e dei martiri, in una sorta di nuova religiosità laica il cui perno è il rapporto quasi magico fra il ‘capo’ e la massa, espresso soprattutto nella ‘manifestazione’, che diventa anche una festa in cui ‘(…)ogni regola di comportamento è rovesciata, l’ordine militare si converte in disciplina elastica, la rivista diventa spettacolo che coinvolge tutti in esplosioni d’allegria collettiva”.
Interessante la descrizione cha fa dell’ambiente fiumano il fondatore del futurismo, Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944).

Sostanzialmente a Fiume si sperimenta “un modo nuovo di fare politica, di stampo parareligioso, che i rituali e le cerimonie politiche degli Stati totalitari del secolo XX faranno proprio e raffineranno, facendone un potente strumento di propaganda teso alla fondazione rivoluzionaria di una nuova visione dell’uomo, in cui la religiosità tradizionale di natura trascendente viene sostituita da una totalmente rivolta all’immanente di cui la politica diviene l’artefice con l’utilizzo di una simbologia quasi sacrale…”. Pertanto, la Fiume dannunziana, appare, “come un microcosmo dove il percorso della modernità giunge rapidamente al suo apice”. Citando Mario Carli, Calasso scrive che a Fiume viene rappresentata una società rivoluzionaria dai connotati libertari e anarchici. Tuttavia a Fiume si cerca di combinare individualismo e comunitarismo, “in un nuovo ordine politico-sociale, frutto di un magma ribollente di stati d’animo, di concezioni della vita plurali, di aspirazioni al cambiamento radicale dello stato di cose, che mette insieme idealismo, nazionalismo, utopia anarchica e vitalismo festaiolo”. E’ veramente suggestiva la descrizione dell’esperienza fiumana, che viene fatta dallo storico Mario Isnenghi, intesa come una “nuova agorà”: “Fra il settembre 1919 e il dicembre 1920 si dispiegano(…) mesi di inebriante pienezza di vita durante i quali la piccola città adriatica viene strappata alla sua perifericità e vissuta e presentata – da pellegrini dell’arte, della letteratura e della politica, accorsi non solo dall’Italia – come il luogo di tutte le possibilità: il centro del mondo, la ‘città olocausta’- nel linguaggio immaginifico di D’Annunzio – alla cui fiamma si alimentano il pensiero creativo e i ‘nuovi bisogni’- individuali e collettivi, nazionali e di genere; la ‘piazza universale’ di tutti i progetti e di tutti i sogni”. Per D’Annunzio, Fiume, diventa “la città di vita”, “una sorta di piccola ‘controsocietà’ sperimentale, con idee e valori, completamente in contrasto con la morale del tempo, disponibile alla trasgressione della norma, alla pratica di massa del ribellismo. 

Beatrice Fazi, "ho incontrato Gesù"



Beatrice Fazi, nota agli italiani per aver interpretato il ruolo Melina in Un medico in famiglia, ha recentemente pubblicato Un cuore nuovo – Dal male di vivere alla gioia della fede (Piemme, 2015). In questo libro l’attrice ripercorre in maniera gustosa ed estremamente coinvolgente alcuni aspetti salienti della sua vita, che negli ultimi anni ha subito un fantastico stravolgimento determinato dall’incontro con il Signore. L’abbiamo intervistata, ecco cosa ci ha detto.
Beatrice, da domestica in casa Martini ad apostola di Gesù. Un bel cambiamento…
«Sì, è così. Però una cosa è rimasta costante: la necessità di possedere un certo spirito di servizio. Nei primi anni della mia carriera d’attrice per mantenermi facevo la cameriera e adesso, lo dico spesso come battuta, mi fanno sempre interpretare il ruolo della cameriera. C’è sempre questa costante del dover servire: servire nonno Libero in casa Martini e adesso servire la Chiesa, servire Cristo negli altri».
Per il tuo libro d’esordio ha scelto un titolo impegnativo e carico di significati: Un cuore nuovo – Dal male di vivere alla gioia della fede…
«Il mio libro non vuole essere la solita testimonianza di conversione, quasi fosse un’operazione commerciale: “L’attrice convertita che scrive un libro”… Non è così. Se ho maturato la decisione di descrivere il processo che è avvenuto dentro di me nell’arco di quindici anni è perché spero che la mia esperienza possa essere utile ad altri. E, in tal senso, un “cuore nuovo” è proprio un cuore capace di servire con gioia e di mettersi a disposizione del prossimo».
Dove hai trovato la forza per abbandonarti al Signore?
«Per me l’approdo alla fede, più che un atto di coraggio o un gesto dettato dalle mie forze, è stato un salto determinato dalla consapevolezza di essere arrivata al capolinea: avevo raggiunto tutti gli obiettivi che mi ero prefissa, ma non ero felice. La fede è stato quindi l’ultimo tentativo, quando tutte le mie strategie erano fallite. Prima della conversione la mia sete non trovava consolazione, mi dibattevo come una mosca dentro una campana di vetro, mentre in Cristo ho trovato una risposta a tutta la mia vita. E Cristo l’ho incontrato nella Chiesa, fidandomi della promessa di un sacerdote, che mi aveva detto: “Dio ha un progetto su ognuno di noi. Prega che Dio ti faccia capire la tua vocazione, il bersaglio in cui puoi fare centro”. Perché la chiave della felicità è proprio questa: unirsi a Dio. Ed è una cosa possibile per tutti, dal momento che Cristo è disposto a cambiare forma e gusto pur di venirci incontro e di nutrirci, tramite la Sua Parola e con il Suo Corpo. Tutto ha origine e fine nel Signore. Se si capisce questo, si ha svoltato, perché altrimenti ci si creano una serie di idoli che dettano legge sulla propria vita».
Qual è l’aspetto che più ti commuove del cristianesimo?
«La cosa più bella è incontrare cristiani veri e sentire di essere importante per loro, entrando in un’empatia profonda. Il punto fondamentale non è infatti quello di essere aiutati nella materialità, ma di incontrare persone che darebbero la vita per te, come ha fatto Cristo. Dare la vita non significa solo il martirio, ma anche donare il proprio tempo, fermarsi ad ascoltare… E questo senza doppi fini, senza maschere e riconoscendo la propria povertà, nella consapevolezza di essere in cammino assieme».
Beatrice, tu sei “sette volte mamma”. Hai quattro bambini, tra cui Maddalena nata da pochi giorni, ma sei anche mamma di Matteo, che hai abortito in giovane età, e di due bambini che hai invece perso per aborti spontanei…
«Esatto, sono “sette volte mamma”! Prima di tutti c’è Matteo, il bimbo che io non ho voluto far nascere. Adesso avrebbe più di vent’anni… M’immagino sempre come sarebbe stato! Nonostante io abbia potuto ricevere il perdono, il dolore non guarisce mai, a maggior ragione ora che so cosa vuol dire essere mamma.Poi c’è Marialucia, che oggi ha tredici anni e che è stata quella che ha subito di più la mia incapacità di essere madre: di non essere paziente, di aver riversato su di lei la mia rabbia, di aver replicato il modello che avevo avuto… Lei porta i nomi delle due nonne, che sono state riunite nella gioia della nascita della prima nipotina. Fabio si chiama così per don Fabio, che è la persona che ha determinato il cambiamento della mia vita, dapprima grazie al sacramento della confessione e poi con le sue catechesi sui Dieci Comandamenti. Quando è arrivato Giovanni, invece, non sapevamo neanche se fosse maschio o femmina, ma ci siamo imbattuti per ben due volte nell’episodio di Zaccaria. Abbiamo quindi scelto questo nome perché ci era sembrata una parola profetica per noi, che ci ha aperto strade che non ci aspettavamo. Ancora oggi non sappiamo perché questo bambino si chiama Giovanni, lo scopriremo. Maddalena, infine, è arrivata dopo che ho perso altri due bambini; è frutto di tante preghiere ed è stata molto desiderata dai fratelli. Abbiamo deciso di chiamarla così perché è per noi un segno di misericordia: Cristo è risorto nella nostra vita e ci ha donato un’esistenza nuova, perché abbiamo fatto esperienza di poter uscire dalla morte e dal peccato».

da: www.libertaepersona.org