D - Da dove prende
spunto per le trame dei suoi libri?
R - Solitamente è
un’emozione che mi fornisce lo spunto per iniziare una storia. Penso
a come mi sentirei se accadesse una determinata cosa e a come mi comporterei se
mi trovassi in una particolare situazione. A volte può essere uno spunto banale
a dare il via ad una riflessione che poi si porta dietro mille emozioni. Come
nel caso di Maledette ortensie
che è nato quasi per caso osservando in una giornata di pioggia un
giardino pieno di quei grandi fiori: ricordo perfettamente la
sensazione di malinconia che ha accompagnato quella visione e il
parallelismo che immediatamente mi ha portato a creare il personaggio del
protagonista di questa storia, malinconico come quelle ortensie rosa. Il
resto, poi, è venuto da sé.
D - Quando scrive ha già
in testa tutta la trama? Sa già come si dipanerà la storia, ne conosce già il
finale?
R - Devo dire che lascio
molto spazio all’improvvisazione, facendomi guidare più dalle sensazioni che
non da un tracciato ben delineato. Mi piace scrivere storie intime,
introspettive, dove le emozioni dei personaggi diventano protagoniste della
narrazione: sono queste che costituiscono la struttura del libro, lo
scheletro che sorregge il racconto. Nel caso di Maledette ortensie ho cercato in ogni modo
di calarmi nei panni del personaggio lasciandomi guidare dall’istinto
senza sapere esattamente dove questo mi avrebbe portato. L’evoluzione della
storia ha seguito il mio stato d’animo e il finale che inaspettatamente ne è
venuto fuori, ha sorpreso pure me, che all’inizio non sapevo come avrei
concluso il romanzo; in realtà mi sto rendendo conto che ogni lettore dà una
sua personale interpretazione dell’ultimo capitolo del libro, spesso assai
diversa da quella che io ho immaginato scrivendolo ed è una cosa che
mi lascia piacevolmente stupito, perché non pensavo che questo potesse
accadere.
D - Ama mettere molti
riferimenti al reale nelle sue storie?
R - Le mie storie
affrontano tematiche comuni con cui ognuno di noi, per esperienza più o meno
diretta, si è dovuto confrontare. Ma, come ho detto prima, quello che a me
interessa è entrare nell’intimo dei personaggi per capire come la realtà che
immagino incida sui loro comportamenti e sulle loro emozioni. Il reale,
nel mio caso, è anche il pretesto per scoprire, attraverso i protagonisti
della storia, qualcosa di più su me stesso.
D - Quanto sono
autobiografici i suoi libri?
R - Direi poco, anche se
alcuni lettori hanno pensato che Maledette
ortensie fosse un romanzo autobiografico, forse per alcune immagini
che coincidono con tratti della mia vita reale. Ma si tratta solo di piccoli
riferimenti che mi hanno permesso di entrare più in sintonia con la storia,
visto che per raccontare l’esperienza di un abbandono e le emozioni che tale
evento può provocare, era necessario immaginare che una cosa del genere fosse
accaduta davvero nella mia vita. Fortunatamente, la mia realtà è molto
distante da quella del libro, tranne forse per la viscerale antipatia per le
ortensie, che condivido con Marco, il protagonista del romanzo.
D - Quante ore al giorno
scrive? Dove si mette? Quali cose aumentano la sua concentrazione e quali invece
la distraggono?
R - Non ho tempi
programmati per scrivere, anche se i giorni del fine settimana sono quelli in
cui riesco a ritagliarmi un po’ di spazio in più da dedicare alla mia passione.
In un angolo della sala da pranzo ho attrezzato una scrivania con computer
e stampante: è quello il mio rifugio quando voglio scrivere. Preferisco farlo
al mattino presto o nel primo pomeriggio, quando in casa c’è più tranquillità:
accendo, anche in pieno giorno, la piccola lampada da tavolo gialla che mi ha accompagnato
in tutti i traslochi fin qui fatti, infilo gli auricolari e faccio girare a
ripetizione sempre la solita playlist, composta da una ventina di brani
selezionati che mi aiutano a isolare i rumori di fondo tipici di un condominio
di città e, al tempo stesso, a lasciare liberi i pensieri. In questo
modo riesco a scrivere anche per diverse ore di seguito, o almeno fino a
quando l’ispirazione non mi abbandona.
D - Parla di ciò che sta
scrivendo con i suoi familiari?
R - Per Maledette ortensie non è
accaduto: ho fatto leggere a mia moglie e mia figlia il libro solo dopo averlo
completato. Diversamente, per il nuovo romanzo a cui sto lavorando, ho voluto
condividere sia i confini della storia che anche alcune idee su come
sviluppare i personaggi, anche perché sono state loro, le donne della mia
vita, non troppo soddisfatte del finale di Maledette
ortensie, a convincermi della necessità di far sì che i molti
interrogativi lasciati aperti nel libro trovassero una spiegazione.
D - Scrive volentieri in
solitudine?
R - Sì, assolutamente.
Io scrivo prima di tutto per me stesso: è un modo per essere
sincero fino in fondo, senza alcun filtro e senza reticenze. Un modo per
guardarsi allo specchio e scoprire cose di sé altrimenti invisibili: ogni
invasione di questo spazio intimo è un’occasione di distrazione
che allontana dall’obiettivo. Sono convinto che la solitudine
sia un ingrediente fondamentale per affrontare questo percorso.
D - Ha dei consigli da
dare a chi inizia a scrivere?
R - No, non mi
sento di dare consigli, non ho l’esperienza per farlo; casomai vorrei
riceverne io di nuovi. Il primo che ho ricevuto è stato quello di un addetto ai
lavori che, senza neppure aver aperto il mio libro, ha detto che in giro
ci sono troppi scrittori e troppo pochi lettori: l’ho preso per
un incoraggiamento ad andare avanti, pur consapevole che, nella realtà,
era una invito a lasciar perdere. A chi inizia a scrivere, quindi, do
solo un suggerimento: non arrendetevi e date vita alle vostre
storie, perché non c’è emozione più grande del poter condividere con i
lettori quelle pagine che raccontano di voi, del vostro cuore, delle vostre
emozioni. Per me è stato così e mi auguro possa esserlo anche per chi, come me,
ci crede fino in fondo.
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